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di Antonio Rei
Non fosse per la nausea, rimarrebbe solo la tristezza. La baracconata romana organizzata sabato dalla Lega di Matteo Salvini, che ha dato ampio spazio ai neofascisti di Casa Pound, si è risolta in un'accozzaglia di sproloqui male assortiti e male organizzati. Hanno fallito anche nel tentativo di riempire Piazza del Popolo, facendosi surclassare nei numeri dal corteo della sinistra antagonista romana, che ha portato 20mila persone in strada al grido di "Mai con Salvini" e "Fascisti e leghisti fuori da Roma".
Gli antirazzisti e gli antifascisti romani sono stati più che sufficienti a umiliare lo zoo fascio-leghista, ma è assurdo che l'unica risposta all'abominio salviniano sia arrivata dalla società civile. Davanti al palco di Salvini c'erano bandiere con croci celtiche bianche su fondo nero, ritratti di Benito Mussolini, energumeni rasati a pelle con il braccio destro caricato a molla per il saluto romano.
Non è mancata la solidarietà degli amichetti stranieri: dal videomessaggio di Marie Le Pen, leader dell'estrema destra francese, ai simpatizzanti di Alba dorata, il partito nazista che siede nel parlamento greco. Accanto a tutte queste amenità sventolavano i vessilli della Lega e le bandiere anti-euro. Qualcuno, poco seguito, blaterava di quote latte, indossando con ingenua coerenza elmi cornuti.
Ha aderito alla manifestazione perfino il sindacato autonomo di Polizia, chiarendo a tutti in quali mani sia l'ordine pubblico. Sarebbe interessante sentire cosa pensa di fare il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ovvero quali provvedimenti intenderà adottare nei confronti degli agenti intervenuti sabato sul palco, alla luce dell'articolo 81 della legge n. 121 del 1981, in cui si chiarisce che "gli appartenenti alle forze di polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l'assoluta imparzialità delle loro funzioni. Agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche".
E' vero, i poliziotti in questione non erano in divisa, ma hanno partecipato alla manifestazione di sabato in quanto SAP, non a titolo personale, perciò sarebbe legittimo attendersi per loro il divieto di prender parte al servizio d'ordine pubblico destinato alla vigilanza sulle manifestazioni operaie e studentesche o di qualunque altra natura riconducibile alla sinistra. L’evidente orientamento politico del SAP (già protagonista di altri episodi disgustosi e censurabili) è incompatibile con la neutralità politica ed obiettività richiesta alle forze di sicurezza a tutela dei diritti dei cittadini.
Insomma, sotto ogni punto di vista la baracconata di sabato è stata un insulto all'Italia. Sarà pedante, ma vale sempre la pena di ricordare che la XII disposizione transitoria della Costituzione italiana vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Nazionale Fascista.
E la legge Scelba del 1952, quella che proibisce l'apologia del Fascismo, precisa che "la riorganizzazione" di cui parla la Carta si ha "quando un'associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista".Difficile negare che in questa descrizione rientri a pieno titolo il raduno di Piazza del Popolo. E allora perché mai nessun membro del governo ha aperto bocca per condannare lo scempio? Sabato Renzi ha trovato il tempo di pubblicare un tweet puerile sulla nazionale di rugby, ma non di ricordare che in Italia l'antifascismo è un valore fondamentale.
E' una questione di dignità, ma naturalmente non significa che alle porte si affacci un nuovo Pnf. Lo zoo di Salvini è tutto tranne che un gruppo coeso. Nel suo eclettismo spregiudicato (che non gli vieta nemmeno di citare Don Sturzo e Don Milani), il leader leghista è riuscito a infilare nello stesso calderone persone che fino a un paio d'anni fa si sarebbero prese a schiaffi per strada (i celoduristi di "Roma ladrona" e la destra romana più becera).
Il problema è che per riuscirci ha dovuto usare i fattori aggreganti più efficaci sui trogloditi: il razzismo (ormai l'attacco ai rom è un ritornello), l'aspirazione alla violenza come legittima difesa (quasi santificato Graziano Stacchio, il benzinaio vicentino col fucile) e vari slogan dai contenuti elementari ma dalla forma accattivante, in quanto satura di male parole ("Vaffanculo alla Fornero", "Faremo un mazzo così ai burocrati"). Tutto pur di fare leva sul testosterone mal gestito e sulla libido repressa dei neofascisti. Che hanno trovato finalmente il loro nuovo capo.
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di Fabrizio Casari
Lascerà dunque oggi il Quirinale il presidente Napolitano. Una scelta annunciata da diversi giorni e politicamente in agenda da diversi mesi. Lascia senza aver portato a compimento l’ultima operazione politica che aveva in mente, in condominio con Renzi: la riforma istituzionale che, nel riassetto delle istituzioni in funzione delle esigenze di dominio delle elites, chiudesse una volta e per tutte con la storia delle istituzioni repubblicane così come fino ad ora conosciuta.
Una riforma, quella di Renzi, che contiene dei tratti di incostituzionalità che avrebbero dovuto spingere il Presidente della Repubblica, nel suo ruolo di garante massimo della Costituzione, ad una ferma opposizione al progetto, ma che invece lo hanno visto come uno dei principali sostenitori, forse nella speranza di vederla approvata con la sua firma in calce. Troppo tardi.
Niente a che vedere con l’altro Presidente della Repubblica venuto dalle file della sinistra, Sandro Pertini. L’alterigia ingessata di Napolitano mai ha avuto similitudini con l’informalità e la passione di Pertini e né sotto il profilo ideale, né sotto quello politico, tantomeno nella comunione sentimentale con il suo popolo, Napolitano ha mai ricordato in minima parte la meravigliosa eredità del partigiano socialista che diede lustro al Colle e che ricevette la stima e l’affetto sincero di quasi tutti gli italiani.
Proprio questo scarto assoluto tra due personaggi così diversi, agli antipodi quasi, illustra meglio di qualunque analisi la profonda mutazione genetica che ha caratterizzato la progressiva involuzione del centrosinistra italiano.
Lontanissimo dalla connessione sentimentale con le ragioni dei deboli, Napolitano è stato invece, per eccellenza, il Presidente garante soprattutto delle elites politiche e finanziarie che governano l’Europa e la stessa Italia. Agitando lo spauracchio dell’antipolitica e il rispetto di impegni sul pareggio di Bilancio che hanno violato la sovranità nazionale oltre che la logica delle compatibilità, ha sapientemente governato la crisi di credibilità della casta agendo come il più ligio dei funzionari della Commissione Europea.
Piuttosto indifferente all’indignazione popolare di fronte ad una crisi economica e morale permessa e favorita da una classe dirigente incapace e corrotta, Napolitano è stato lo strenuo difensore, oltre ogni decenza, del quadro politico che lui per primo ha voluto determinare. Andando oltre i limiti del suo mandato, ha sostanzialmente impedito la soluzione elettorale della crisi politica, imponendo di volta in volta alla guida del governo i personaggi che lui riteneva funzionali al suo progetto politico, che si è sempre identificato con gli interessi della UE.
Decise infatti di forzare per l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi quando il cavaliere andò allo scontro con Bruxelles, non prima. Ma il disegno europeo non prevedeva scossoni violenti del quadro politico e di governo e quindi, a seguito della crisi del governo Berlusconi, quando i sondaggi non lasciavano margini d’incertezza circa la netta vittoria del PD nelle urne, diede il suo primo colpo di mano e nominò Mario Monti.Figura gradita a Bruxelles, stretto osservante del rigore di Bilancio e dell’ipoteca europea sulla sempre minore sovranità dei singoli Stati, l’ex rettore della Bocconi era soprattutto l’uomo che serviva per impedire un governo di centrosinistra con il PD all’epoca ancora legato ad una cultura progressista.
La nomina di Monti fu un sigillo di garanzia offerto all’eurocrazia ed uno stop chiaro a un disegno che poteva anche solo parzialmente mettere in discussione i diktat della Commissione e limitare il comando di Bruxelles sull’Italia.
Identica linea venne seguita dopo le elezioni che videro il fenomeno Monti fare la fine di quelli di Mariotto Segni prima e di Gianfranco Fini poi. In particolare rifiutò di assegnare a Bersani la formazione del governo dopo le elezioni.
Sebbene l’ex segretario del PD non avesse sulla carta la maggioranza certa al Senato, l’aveva alla Camera e il PD era il partito con più parlamentari nelle due camere, ma Napolitano rifiutò il mandato, impedendo così che il PD, ancorato a SEL e con la possibilità di dialogare con una parte del M5S, potesse formare un governo sgradito a Bruxelles ed ai poteri forti italiani.
Si apre ora la partita per la sua successione, con la manina di Renzi ancora dolente per via della contrattura intervenuta a guastargli l’operazione di rimessa in circolazione del suo socio nel patto del Nazareno. Lo scenario non è semplice e il governo si gioca buona parte della sua stessa sopravvivenza. Ovvio che Renzi veda come un incubo le candidature di uomini affezionati alla Costituzione, dal momento che il suo disegno di riforma costituzionale per il quale è stato spedito a Palazzo Chigi ha bisogno per forza della complicità dell’inquilino del Colle.Si possono quindi escludere le figure più prestigiose di costituzionalisti, poco propensi a farsi dettare la materia dalla Boschi, così come di coloro che sono dotati di un impianto politico solido, poco inclini dunque a fare i passacarte dell’ambizioso premier.
Cosa aspettarsi? Non sembrano esserci le condizioni politico-parlamentari per un presidente di garanzia per gli italiani, invece che per i soci del patto osceno del Nazareno. Ma un nome scelto in comune con il centrodestra non sarà mai votato da SEL e Cinque Stelle, oltre che dalla minoranza del PD.
Renzi sarà così costretto a puntare su una figura del corpaccione PD che eviti a tutti i costi il voto contrario della sua minoranza e che possa andar bene anche al centro destra, sperando che, votazione dopo votazione, quel nome regga ai peones in cerca di collocazioni. Vista ormai la marcia del PD verso il partito della nazione non dovrebbe essere difficilissimo. Difficile semmai, quale che sia il nome che PD e altri sceglieranno, che il risultato possa peggiorare il quadro fin qui avuto con Napolitano.
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di Fabrizio Casari
Due milioni di persone, forse più, hanno partecipato alla manifestazione di Parigi, la più grande della storia della Francia. Prima ancora che il ripudio del terrorismo e oltre che solidale con la sorte dei giornalisti uccisi e delle altre vittime, la piazza ha voluto testimoniare con forza una identità culturale e il bisogno di sentirsi uniti contro una paura fino ad ora sconosciuta. Semmai stonavano, alla testa dell manifestazione, politicanti degni di comparire in scenari di ben altra natura, vista la partecipazione dei loro rispettivi paesi alle operazioni belliche che, ogni giorno, flagellano l’intero Medio Oriente.
Sentire invocare la pace a esponenti di governo che sono in guerra permanente della prima invasione dell’Iraq, sembra per certi versi più comico di alcune delle vignette di Charlie Hebdo.
Sulla ferocia assassina dei fratelli Kouachi, adepti dell’Isis (pur se al-Queda ha provato ad addossarseli) non ci sono dubbi. In molti ritengono che quel giornale fosse dotato di cattivo gusto a vendere e che le sue vignette, in realtà, fossero una manifestazione ricorrente di volgarità gratuita e rappresentasse una costante offesa all’Islam per la quale proteste e minacce si erano accavallate. Ovvio, persino ridondante sottolinearlo, che nessuna presunta colpa del giornale può comunque prevedere una simile vendetta; nessun ipotetico affronto può vedere la violazione del corpo e lo scorrere del sangue come reazione. La colpa di risultare fuori luogo non può prevedere la pena di morte. Qui deve alzarsi un muro invalicabile. Se così non fosse, tutto sarebbe spiegabile e, di per sé, giustificabile. Ma così non è, non può e non deve essere.
Ma è un altro l’aspetto su cui soffermarsi ora. Legittimo chiedersi: è vero che la satira non può avere censure? E’ vero che la libertà di dire, disegnare o scrivere qualunque cosa su chiunque e su qualunque argomento non possa essere mai messa in discussione? Forse non è così; anzi, certamente non è così. La libertà d’espressione, come tutte le manifestazioni di libertà, esiste in quanto capace di autoregolamentarsi per evitare di tracimare nell’insulto gratuito, nella più totale mancanza di rispetto e di buon gusto; deve finire dove comincia la libertà e la sensibilità di chi di quell’espressione di “libertà” può ritenersi vittima.
La libertà da rispettare non è anche quella di chi non vuole sentir offesa la propria religione, il proprio credo spirituale? E quella libertà come la si garantisce? Non si può certo pensare d’imporre per legge il buon gusto e di sanzionarne penalmente la sua assenza, ma certo non si può nemmeno ritenere che le libertà degli altri (da noi) possano essere ignorate mentre le nostre vadano difese.
Ci si chiede, insomma, se Charlie Hebdo avesse o no il diritto inviolabile di poter ironizzare (pesantemente) anche su una religione come l’Islam, che tra i suoi precetti annovera il divieto di citare Allah e Maometto (Dio e il suo Profeta) per ironizzare. Si può ritenere ciò eccessivo, sbagliato, ingiusto e via dicendo; ma il fatto è che così stanno le cose e che non è possibile disegnare il mondo a piacere nostro.
Fanatici musulmani? Anche altre religioni, pur meno rigide dell’Islam (o, forse, più che dell’Islam delle sue interpretazioni e letture radicali) non consentono di nominare Dio se non per la preghiera, e il reato di vilipendio alla religione c’è nella nostra “liberissima” Italia e non solo nei paesi islamici. E provate a ironizzare sulla religione nel Giappone scintoista o nell’India induista e vedete a cosa andate incontro.Il terrorismo è ributtante e l'estremismo islamico rappresenta il ritorno dell’essere umano al Medioevo, anzi all’età della pietra. L’adesione alle leggi coraniche comporta la generale riduzione delle libertà individuali e collettive, dunque nessuno può pensare di un riconoscimento verso quel modello. Ma né l’Islam, né Maometto c’entrano niente con i terroristi autori della carneficina di Parigi (con cui invece c’entra - e non poco - l’Isis, che con l’aiuto anche della Francia, combatte in Siria contro Assad, presidente laico). Non a caso l'Islam vero, anche quello più radicale (dall'Iran a Hezbollah, ad Hamas) non ha esitato a condannare la barbarie dei fratelli Kouachi.
Alcune delle vignette pubblicate da Charlie Hebdo con l’ironia avevano poco a che fare: esprimevano invece un malcelato divertimento nella derisione dei musulmani, accarezzando il venticello razzista, tipicamente francese, che vede “les arabes” come un corpo estraneo per quanto integrato; buono per fare baguette, ma ottimo solo se vive nelle banlieue. Quando infatti si disegna una vignetta il cui testo è “l’Islam è merda”, dove sta l’ironia? Quando si disegna Maometto crivellato di colpi dov’è il divertimento? Non c’è nessuna ironia, solo razzismo e islamofobia. Alla vista di quelle vignette viene da ridere solo a un imbecille o a un lepenista, praticamente la stessa cosa.
C’è poi un punto non secondario: davvero si ritiene legittimo, per le nostre ansie di ricchezza e di potere, bombardarli, ucciderne a milioni, sbatterli nei campi profughi, condannarli alla deriva nelle carrette dei mari, rinchiuderli in ghetti o prigioni e poi, per buona misura, insultarli e dileggiarli, senza che trovino mai la voglia di reagire? E davvero è possibile ammazzarli come arabi e chiedergli però di reagire come britannici?
Deve esserci un limite a eurocentrismo ed occidentalismo. Mentre s’ironizza e si disprezza l’Islam, ogni salvaguardia delle norme, scritte e non, che attengono ad usi e costumi del cattolicesimo, viene vista con sguardo benevolo e comprensivo. Ad esempio, è parte del senso comune ritenere inappropriato un abbigliamento sexy in una chiesa, ritenuto giustamente non consono alla sacralità del luogo che merita rispetto anche da parte di chi non crede. A nessuno verrebbe in mente di difendere in nome della libertà una donna in minigonna e scollata dentro San Pietro ove essa fosse oggetto di rimostranze da parte dei fedeli o dei sacerdoti. Allo stesso modo, si ritiene imperdonabile una bestemmia in radio o in tv e la mannaia della censura è scattata in automatico ogni qual volta ciò si è verificato.
Si riconosce, insomma, che c’è un limite di buon gusto e di rispetto che non può essere fatto regolarmente deragliare sui binari della presunta libertà assoluta dell’espressione, corporea o verbale che essa sia. Si ritiene, in sostanza, che la “libertà” di dire o fare ciò che vogliamo, vada ricondotta comunque nell’alveo del rispetto per chi ci circonda. La libertà senza norme e senza rispetto è arroganza pura.
C’è poi il capitolo, questo sì comico, della nuova leva di difensori della satira che, qui da noi, come sempre diventa una boutade all’italiana con dosi massicce di melassa. Destino ciclico il nostro. Non appena un tema rischia di diventare serio, arriva il carrozzone dei twittaroli alla Gasparri o Santanchè e in automatico tutto diventa farsa all’italiana. Quando non bastano arriva Battista.Benché gli indignati d’Occidente si dichiarino fedeli difensori della libertà d’espressione, non c’è da dargli credito, perché quando la satira tocca la religione cattolica, gli stessi difensori di oggi della libertà d’espressione, insorgono contro la satira. E non solo: tra gli inquisitori di comici e giornalisti italiani figurano molti degli arnesi della destra oscurantista e beghina italiana che oggi si trasformano in emuli di Voltaire.
Sono quelli che s’indignarono per una battuta di D’Alema all’indirizzo di Brunetta o per le vignette di Vauro all’indirizzo del cavaliere, ma che di colpo, se si tratta d’insultare i musulmani, si scoprono libertari.
E a chi dovesse credere a questa nuova ventata di liberalità a piene mani verso il diritto all’espressione, sappia che questo Parlamento di corrotti ed incapaci vota norme liberticide sulla libertà di espressione per i giornalisti: dunque con quale faccia tosta si presenta ai microfoni per difendere la libertà d’espressione quando si tratta di satira? Perché se la satira ha libertà totale non altrettanta libertà si riconosce - ad esempio - alla stampa? Perché non la possono avere le idee, le parole e i gesti, per i quali invece sono previste sanzioni?
Politicanti e ipocriti. Sono ignobili cialtroni che strumentalizzano la tragicità di quanto accaduto, dal momento che molti di essi hanno plaudito alle epurazioni berlusconiane alla Rai, alle minacce contro le trasmissioni d’inchiesta e, incuranti di mettere in discussione la propria casta, insorgono contro le professioni che non siano la loro. Un destino malefico ce li impone dal 1994. Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht: ma qui non c’è da stare allegri: di fortuna e di eroi non se ne vedono tracce.
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di Antonio Rei
A Matteo Renzi serve che il prossimo Capo dello Stato non sia un uomo di sinistra. O meglio, che magari dica di esserlo, ma non lo sia davvero. Un po' come Giorgio Napolitano, l'ex Pci che ha fatto di tutto per smantellare il sistema di tutele a favore dei lavoratori italiani. La necessità numero uno del Premier è proprio questa: il prossimo inquilino del Colle dovrà continuare a supportare il processo riformatore in corso, favorendo la precarizzazione definitiva del mercato del lavoro e la metamorfosi centripeta del sistema istituzionale, che per il combinato composto di Italicum e castrazione del Senato rafforzerà ulteriormente l'Esecutivo, riducendo il Parlamento a poco più di una camera di ratifica.
Chiunque abbia letto la Costituzione potrebbe obiettare che un ruolo simile non spetta al Presidente della Repubblica, il quale deve rappresentare una figura di garanzia super partes. Dopo l'era Napolitano, però, questo principio appare superato e assai difficile da ripristinare. Nel corso del suo ultrasettennato, l'attuale numero uno del Quirinale ha sempre agito come un politico e mai come un garante, svolgendo il ruolo dell'arbitro che parteggia per una delle squadre in campo.
E' vero, ha potuto farlo perché si è ritrovato a gestire Parlamenti e governi mai così deboli (si potrebbe obiettare che del resto nominati erano da lui, che ha pervicacemente ignorato il ricorso alle urne e ha imposto i suoi uomini a Palazzo Chigi). Ad ogni modo il punto è che ormai ha sdoganato la forzatura delle funzioni che spettano alla prima carica dello Stato, spianando la strada alla creatività dei suoi successori.
Per queste ragioni Renzi non può permettersi di puntare su presunte figure di garanzia. Sa benissimo che anche il nuovo Presidente - poco importa se di provenienza tecnico-accademica - sarà presto o tardi sedotto dalle sirene della politica e reciterà una parte decisiva nel determinare gli assetti delle maggioranze e gli indirizzi dei governi.
Ma quali sono le alternative verosimili? Poche, in effetti. Ragionare sui singoli nomi è un esercizio tanto diffuso quanto inutile, visto che fino alle votazioni vere e proprie gli attori in campo pronunciano nomi solo per bruciarli. Ha più senso quindi concentrarsi sul profilo generale del nuovo Presidente.
E' evidente che un costituzionalista o un uomo autenticamente di sinistra ostacolerebbero il progetto Renzi, segnando l'inizio della fine del Premier. Per eleggere una figura simile, tuttavia, dovrebbero mettersi d'accordo perlomeno la minoranza Pd e il Movimento 5 Stelle, due accolite che per vocazione si ostinano a non voler dare alcun senso alla propria presenza in Parlamento.
Ben più realistico è che alla fine l'accordo decisivo venga siglato fra il Pd renziano e Forza Italia, tanto per suggellare con l'ennesima nota grottesca questi tempi strani in cui mezza opposizione sostiene il governo e mezza maggioranza lo contrasta.
In ogni caso, nella partita per il Quirinale, il vero contrappeso di cui tenere conto non è interno alla nostra politica. Dopo le elezioni greche di fine gennaio, il voto per il nuovo Presidente italiano è la seconda voce nella lista delle preoccupazioni di Bruxelles.L'idillio che ha legato i tecnocrati comunitari a Napolitano - quasi un ambasciatore della Commissione Ue in Italia - è difficilmente ripetibile. Eppure è illusorio pensare che le esigenze (e le pressioni) europee non entreranno in gioco quando le Camere dovranno votare in seduta congiunta.
In questo contesto fanno quasi tenerezza Germania e Gran Bretagna, che sostengono la candidatura al Colle di Mario Draghi (il quale si è prontamente smarcato) con l'unica e fin troppo smaccata intenzione di allontanarlo dalla Bce. La City e la Bundesbank dovranno mettersi l'anima in pace, perché questo loro sogno è destinato a non realizzarsi.
Se una manovra europea ci sarà, quindi, non potrà che essere molto più sotterranea. In particolare, l'interesse di Bruxelles nei confronti del nostro nuovo Presidente è duplice e riflette perfettamente il rapporto di amore e odio che l'eurocrazia ha con Renzi.
In ottica comunitaria, il nuovo Capo dello Stato dovrebbe appoggiare (anzi, accelerare) le riforme di cui sopra, che all'Ue fanno venire l'acquolina in bocca, ma al contempo dovrebbe lavorare per ridurre la smania di protagonismo del nostro Premier, che ultimamente chiacchiera un po' troppo di flessibilità e di limiti del Patto da rivedere. Si tratta, beninteso, di semplici parole destinate al nulla e pronunciate da Renzi solo per accreditare se stesso. Ma i maestri esigono che, mentre fanno i compiti, gli alunni stiano zitti.
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di Alessandro Iacuelli
E' arrivato l'annuncio: Roma candidata ad ospitare le olimpiadi del 2024. Con tanto di profonda enfasi da parte di telegiornali e quotidiani già in edicola. Lo annuncia con altrettanta enfasi Matteo Renzi, in una conferenza stampa con tanto sapore di cerimonia ufficiale per la candidatura. Nessuna enfasi, anzi una totale cancellazione, per la conferenza stampa di un illustre predecessore di Renzi, quel Mario Monti che tutti ricordiamo bene, tenuta il 14 febbraio 2012, quella in cui il presidente del Consiglio dei ministri annunciava il ritiro della candidatura di Roma per le olimpiadi 2020.
Se la memoria non inganna gli italiani, quella stessa memoria seppellita dai telegiornali italiani che in queste ore lanciano servizi su servizi dedicati alle imprese eroiche dell'Olimpiade romana del 1960, appena nel 2012 successe che dopo un’attenta valutazione dei costi e dei benefici legati all’operazione nel suo complesso, il premier Mario Monti decise che “non esistono le condizioni perché il governo offra le garanzie dello Stato alla candidatura per i Giochi”.
Monti spiegò come stanno le cose: “Il Comitato olimpico internazionale richiede al governo del Paese ospitante i Giochi una lettera di garanzia finanziaria... tra le altre cose il governo del Paese ospitante deve farsi carico di ogni eventuale deficit della manifestazione”. Poi sottolineò: “Non possiamo correre rischi”.
Cosa è cambiato da due anni ad ora? In meglio, praticamente nulla. In peggio, abbastanza: altre imprese che hanno chiuso, altri posti di lavoro perduti, altre attività migrate in Cina o nell'Est Europa, crisi galoppante. In questo quadro abbastanza fosco, l'attuale premier Renzi, prendendo troppo a spunto l'idea berlusconiana di mandare avanti l'Italia a suon di spot pubblicitari sulla bravura del governo, inventa questa non nuova idea dei Giochi Olimpici. Soldi da spendere, e perdite cui lo Stato dovrà far fronte, magari attraverso l'IRPEF dei lavoratori dipendenti che devono per forza pagare le tasse.
I precedenti storici parlano chiaro, e spiegano a chiare lettere il perché della scelta di Monti, opposta a quella di Renzi. Atlanta 1996, la prima Olimpiade-flop della storia: voluta dallo sponsor Coca Cola, che però preferì imporla senza investire soldi di tasca propria, realizzata con una copertura finanziaria quasi interamente pubblica (6 dei 7 miliardi di dollari totali); flop totale, con appena 218 milioni di dollari “rientrati” attraverso i diritti TV, e un bilancio profondamente in rosso.
Andiamo avanti di 8 anni: Atene 2004. 8,9 miliardi di euro di spesa, soltanto 1,7 dai privati. Gli introiti derivanti dai diritti TV furono di 1,2 miliardi di Euro, piuttosto pochini rispetto alla spesa, spesa alla quale vanno aggiunti 1,23 miliardi di euro spesi in sistemi di sicurezza, con 45mila uomini impegnati.L'effetto immediato sull'economia greca, ricorda il Corriere, fu ottimo con un incremento del Pil dello 0,3% e un aumento del turismo sul breve termine. L'onda lunga di quelle spese folli, però, si è fatta sentire dopo pochi anni. La crisi economica della Grecia è nata proprio dalle spese, e dai bilanci truccati, dell'epoca dei Giochi Olimpici, e quella crisi ha travolto l'Europa intera.
Probabilmente, non è un caso se negli ultimi mesi molte città, come Cracovia, Stoccolma, St. Moritz e Monaco hanno rinunciato ad ospitare le Olimpiadi, sia estive sia invernali. Come ha scritto nel maggio scorso il Washington Post, queste città “non vogliono trovarsi nella situazione di Atene, Pechino o Sarajevo, che dopo diversi anni sono ancora piene di rovine inutili e strutture abbandonate che sono costate alle amministrazioni locali moltissimi soldi”.
Le critiche ai grandi eventi, negli ultimi tempi, fioccano abbondantemente da più parti. I grandi eventi non sono necessariamente sportivi, ma tutti richiedono enormi investimenti iniziali sulla base di una speranza, spesso delusa, di un ritorno economico sotto forma di turismo e di “immagine”. In Italia ad esempio Roberto Perotti, professore di economia all’Università Bocconi, ha pubblicato una serie di articoli in cui critica duramente EXPO 2015. Le sue argomentazioni non sono affatto diverse da quelle utilizzate per criticare le Olimpiadi. Scrive Perotti che “il vero problema è che EXPO non avrebbe dovuto esistere. La decisione di intraprenderla è derivata da una ubriacatura retorica collettiva supportata e legittimata da stime economiche azzardate”.
In questo quadro, l'unica voce fuori dal gregge pare essere proprio quella di Renzi che all'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, pontifica in diretta TV sul fatto che “l'Italia deve provarci”. Provarci in cosa? Ad ottenere i Giochi Olimpici a Roma nel 2024, fare una marea di gare d'appalto per lavori di realizzazione e manutenzione di impianti sportivi che dopo le Olimpiadi non serviranno più a nulla, a spendere un mare di miliardi di soldi pubblici, perché in Italia i finanziatori privati non sono certo tanto sprovveduti da mettere a rischio i propri capitali in un'impresa più a rischio delle altre.
Un mare di miliardi destinati ad essere accaparrati dai soliti privati che in Italia mangiano e prosperano sulle grandi opere e sulle cattedrali nel deserto. Un mare di miliardi per un'operazione “a tempo”, che terminerà con la fine dei lavori per le Olimpiadi, e non certo in grado di dare sviluppo duraturo all'Italia, alla quale rimarrà solo l'onere delle spese e dei debiti accumulati.
Per cosa, poi? Per dare una parvenza di “grandezza” al Paese, dimostrando che è in grado di ospitare i Giochi Olimpici? Per dare lustro ad un Paese in declino? Probabilmente, anzi certamente, non è di questo che l'Italia ha bisogno. Di sicuro non ha bisogno di fare fin dal 2015 dei debiti che dovranno essere sanati poi dai nostri figli dopo il 2024.
Non è delle Olimpiadi, che l'Italia ha bisogno, ma di ben altro che le dia una speranza di futuro stabile. Matteo Renzi certamente lo sa, non essendo sprovveduto, ma sta garantendo ad una parte privilegiata d'Italia, quella che costruisce strade, edifici, stadi e impianti sportivi, una sopravvivenza che si tradurrà in un futuro appoggio elettorale. Un calcolo politico pericoloso per l'intero Paese, che Renzi non sa salvare.