di Fabrizio Casari

Due milioni di persone, forse più, hanno partecipato alla manifestazione di Parigi, la più grande della storia della Francia. Prima ancora che il ripudio del terrorismo e oltre che solidale con la sorte dei giornalisti uccisi e delle altre vittime, la piazza ha voluto testimoniare con forza una identità culturale e il bisogno di sentirsi uniti contro una paura fino ad ora sconosciuta. Semmai stonavano, alla testa dell manifestazione, politicanti degni di comparire in scenari di ben altra natura, vista la partecipazione dei loro rispettivi paesi alle operazioni belliche che, ogni giorno, flagellano l’intero Medio Oriente.

Sentire invocare la pace a esponenti di governo che sono in guerra permanente della prima invasione dell’Iraq, sembra per certi versi più comico di alcune delle vignette di Charlie Hebdo.

Sulla ferocia assassina dei fratelli Kouachi, adepti dell’Isis (pur se al-Queda ha provato ad addossarseli) non ci sono dubbi. In molti ritengono che quel giornale fosse dotato di cattivo gusto a vendere e che le sue vignette, in realtà, fossero una manifestazione ricorrente di volgarità gratuita e rappresentasse una costante offesa all’Islam per la quale proteste e minacce si erano accavallate. Ovvio, persino ridondante sottolinearlo, che nessuna presunta colpa del giornale può comunque prevedere una simile vendetta; nessun ipotetico affronto può vedere la violazione del corpo e lo scorrere del sangue come reazione. La colpa di risultare fuori luogo non può prevedere la pena di morte. Qui deve alzarsi un muro invalicabile. Se così non fosse, tutto sarebbe spiegabile e, di per sé, giustificabile. Ma così non è, non può e non deve essere.

Ma è un altro l’aspetto su cui soffermarsi ora. Legittimo chiedersi: è vero che la satira non può avere censure? E’ vero che la libertà di dire, disegnare o scrivere qualunque cosa su chiunque e su qualunque argomento non possa essere mai messa in discussione? Forse non è così; anzi, certamente non è così. La libertà d’espressione, come tutte le manifestazioni di libertà, esiste in quanto capace di autoregolamentarsi per evitare di tracimare nell’insulto gratuito, nella più totale mancanza di rispetto e di buon gusto; deve finire dove comincia la libertà e la sensibilità di chi di quell’espressione di “libertà” può ritenersi vittima.

La libertà da rispettare non è anche quella di chi non vuole sentir offesa la propria religione, il proprio credo spirituale? E quella libertà come la si garantisce? Non si può certo pensare d’imporre per legge il buon gusto e di sanzionarne penalmente la sua assenza, ma certo non si può nemmeno ritenere che le libertà degli altri (da noi) possano essere ignorate mentre le nostre vadano difese.

Ci si chiede, insomma, se Charlie Hebdo avesse o no il diritto inviolabile di poter ironizzare (pesantemente) anche su una religione come l’Islam, che tra i suoi precetti annovera il divieto di citare Allah e Maometto (Dio e il suo Profeta) per ironizzare. Si può ritenere ciò eccessivo, sbagliato, ingiusto e via dicendo; ma il fatto è che così stanno le cose e che non è possibile disegnare il mondo a piacere nostro.

Fanatici musulmani? Anche altre religioni, pur meno rigide dell’Islam (o, forse, più che dell’Islam delle sue interpretazioni e letture radicali) non consentono di nominare Dio se non per la preghiera, e il reato di vilipendio alla religione c’è nella nostra “liberissima” Italia e non solo nei paesi islamici. E provate a ironizzare sulla religione nel Giappone scintoista o nell’India induista e vedete a cosa andate incontro.

Il terrorismo è ributtante e l'estremismo islamico rappresenta il ritorno dell’essere umano al Medioevo, anzi all’età della pietra. L’adesione alle leggi coraniche comporta la generale riduzione delle libertà individuali e collettive, dunque nessuno può pensare di un riconoscimento verso quel modello. Ma né l’Islam, né Maometto c’entrano niente con i terroristi autori della carneficina di Parigi (con cui invece c’entra - e non poco - l’Isis, che con l’aiuto anche della Francia, combatte in Siria contro Assad, presidente laico). Non a caso l'Islam vero, anche quello più radicale (dall'Iran a Hezbollah, ad Hamas) non ha esitato a condannare la barbarie dei fratelli Kouachi.

Alcune delle vignette pubblicate da Charlie Hebdo con l’ironia avevano poco a che fare: esprimevano invece un malcelato divertimento nella derisione dei musulmani, accarezzando il venticello razzista, tipicamente francese, che vede “les arabes” come un corpo estraneo per quanto integrato; buono per fare baguette, ma ottimo solo se vive nelle banlieue. Quando infatti si disegna una vignetta il cui testo è “l’Islam è merda”, dove sta l’ironia? Quando si disegna Maometto crivellato di colpi dov’è il divertimento? Non c’è nessuna ironia, solo razzismo e islamofobia. Alla vista di quelle vignette viene da ridere solo a un imbecille o a un lepenista, praticamente la stessa cosa.

C’è poi un punto non secondario: davvero si ritiene legittimo, per le nostre ansie di ricchezza e di potere, bombardarli, ucciderne a milioni, sbatterli nei campi profughi, condannarli alla deriva nelle carrette dei mari, rinchiuderli in ghetti o prigioni e poi, per buona misura, insultarli e dileggiarli, senza che trovino mai la voglia di reagire? E davvero è possibile ammazzarli come arabi e chiedergli però di reagire come britannici?

Deve esserci un limite a eurocentrismo ed occidentalismo. Mentre s’ironizza e si disprezza l’Islam, ogni salvaguardia delle norme, scritte e non, che attengono ad usi e costumi del cattolicesimo, viene vista con sguardo benevolo e comprensivo. Ad esempio, è parte del senso comune ritenere inappropriato un abbigliamento sexy in una chiesa, ritenuto giustamente non consono alla sacralità del luogo che merita rispetto anche da parte di chi non crede. A nessuno verrebbe in mente di difendere in nome della libertà una donna in minigonna e scollata dentro San Pietro ove essa fosse oggetto di rimostranze da parte dei fedeli o dei sacerdoti. Allo stesso modo, si ritiene imperdonabile una bestemmia in radio o in tv e la mannaia della censura è scattata in automatico ogni qual volta ciò si è verificato.

Si riconosce, insomma, che c’è un limite di buon gusto e di rispetto che non può essere fatto regolarmente deragliare sui binari della presunta libertà assoluta dell’espressione, corporea o verbale che essa sia. Si ritiene, in sostanza, che la “libertà” di dire o fare ciò che vogliamo, vada ricondotta comunque nell’alveo del rispetto per chi ci circonda. La libertà senza norme e senza rispetto è arroganza pura.

C’è poi il capitolo, questo sì comico, della nuova leva di difensori della satira che, qui da noi, come sempre diventa una boutade all’italiana con dosi massicce di melassa. Destino ciclico il nostro. Non appena un tema rischia di diventare serio, arriva il carrozzone dei twittaroli alla Gasparri o Santanchè e in automatico tutto diventa farsa all’italiana. Quando non bastano arriva Battista.

Benché gli indignati d’Occidente si dichiarino fedeli difensori della libertà d’espressione, non c’è da dargli credito, perché quando la satira tocca la religione cattolica, gli stessi difensori di oggi della libertà d’espressione, insorgono contro la satira. E non solo: tra gli inquisitori di comici e giornalisti italiani figurano molti degli arnesi della destra oscurantista e beghina italiana che oggi si trasformano in emuli di Voltaire.

Sono quelli che s’indignarono per una battuta di D’Alema all’indirizzo di Brunetta o per le vignette di Vauro all’indirizzo del cavaliere, ma che di colpo, se si tratta d’insultare i musulmani, si scoprono libertari.

E a chi dovesse credere a questa nuova ventata di liberalità a piene mani verso il diritto all’espressione, sappia che questo Parlamento di corrotti ed incapaci vota norme liberticide sulla libertà di espressione per i giornalisti: dunque con quale faccia tosta si presenta ai microfoni per difendere la libertà d’espressione quando si tratta di satira? Perché se la satira ha libertà totale non altrettanta libertà si riconosce - ad esempio - alla stampa? Perché non la possono avere le idee, le parole e i gesti, per i quali invece sono previste sanzioni?

Politicanti e ipocriti. Sono ignobili cialtroni che strumentalizzano la tragicità di quanto accaduto, dal momento che molti di essi hanno plaudito alle epurazioni berlusconiane alla Rai, alle minacce contro le trasmissioni d’inchiesta e, incuranti di mettere in discussione la propria casta, insorgono contro le professioni che non siano la loro. Un destino malefico ce li impone dal 1994. Fortunati i popoli che non hanno bisogno di eroi, diceva Bertold Brecht: ma qui non c’è da stare allegri: di fortuna e di eroi non se ne vedono tracce.

di Antonio Rei

A Matteo Renzi serve che il prossimo Capo dello Stato non sia un uomo di sinistra. O meglio, che magari dica di esserlo, ma non lo sia davvero. Un po' come Giorgio Napolitano, l'ex Pci che ha fatto di tutto per smantellare il sistema di tutele a favore dei lavoratori italiani. La necessità numero uno del Premier è proprio questa: il prossimo inquilino del Colle dovrà continuare a supportare il processo riformatore in corso, favorendo la precarizzazione definitiva del mercato del lavoro e la metamorfosi centripeta del sistema istituzionale, che per il combinato composto di Italicum e castrazione del Senato rafforzerà ulteriormente l'Esecutivo, riducendo il Parlamento a poco più di una camera di ratifica.

Chiunque abbia letto la Costituzione potrebbe obiettare che un ruolo simile non spetta al Presidente della Repubblica, il quale deve rappresentare una figura di garanzia super partes. Dopo l'era Napolitano, però, questo principio appare superato e assai difficile da ripristinare. Nel corso del suo ultrasettennato, l'attuale numero uno del Quirinale ha sempre agito come un politico e mai come un garante, svolgendo il ruolo dell'arbitro che parteggia per una delle squadre in campo.

E' vero, ha potuto farlo perché si è ritrovato a gestire Parlamenti e governi mai così deboli (si potrebbe obiettare che del resto nominati erano da lui, che ha pervicacemente ignorato il ricorso alle urne e ha imposto i suoi uomini a Palazzo Chigi). Ad ogni modo il punto è che ormai ha sdoganato la forzatura delle funzioni che spettano alla prima carica dello Stato, spianando la strada alla creatività dei suoi successori.

Per queste ragioni Renzi non può permettersi di puntare su presunte figure di garanzia. Sa benissimo che anche il nuovo Presidente - poco importa se di provenienza tecnico-accademica - sarà presto o tardi sedotto dalle sirene della politica e reciterà una parte decisiva nel determinare gli assetti delle maggioranze e gli indirizzi dei governi.

Ma quali sono le alternative verosimili? Poche, in effetti. Ragionare sui singoli nomi è un esercizio tanto diffuso quanto inutile, visto che fino alle votazioni vere e proprie gli attori in campo pronunciano nomi solo per bruciarli. Ha più senso quindi concentrarsi sul profilo generale del nuovo Presidente.

E' evidente che un costituzionalista o un uomo autenticamente di sinistra ostacolerebbero il progetto Renzi, segnando l'inizio della fine del Premier. Per eleggere una figura simile, tuttavia, dovrebbero mettersi d'accordo perlomeno la minoranza Pd e il Movimento 5 Stelle, due accolite che per vocazione si ostinano a non voler dare alcun senso alla propria presenza in Parlamento.

Ben più realistico è che alla fine l'accordo decisivo venga siglato fra il Pd renziano e Forza Italia, tanto per suggellare con l'ennesima nota grottesca questi tempi strani in cui mezza opposizione sostiene il governo e mezza maggioranza lo contrasta.

In ogni caso, nella partita per il Quirinale, il vero contrappeso di cui tenere conto non è interno alla nostra politica. Dopo le elezioni greche di fine gennaio, il voto per il nuovo Presidente italiano è la seconda voce nella lista delle preoccupazioni di Bruxelles.

L'idillio che ha legato i tecnocrati comunitari a Napolitano - quasi un ambasciatore della Commissione Ue in Italia - è difficilmente ripetibile. Eppure è illusorio pensare che le esigenze (e le pressioni) europee non entreranno in gioco quando le Camere dovranno votare in seduta congiunta.

In questo contesto fanno quasi tenerezza Germania e Gran Bretagna, che sostengono la candidatura al Colle di Mario Draghi (il quale si è prontamente smarcato) con l'unica e fin troppo smaccata intenzione di allontanarlo dalla Bce. La City e la Bundesbank dovranno mettersi l'anima in pace, perché questo loro sogno è destinato a non realizzarsi.

Se una manovra europea ci sarà, quindi, non potrà che essere molto più sotterranea. In particolare, l'interesse di Bruxelles nei confronti del nostro nuovo Presidente è duplice e riflette perfettamente il rapporto di amore e odio che l'eurocrazia ha con Renzi.

In ottica comunitaria, il nuovo Capo dello Stato dovrebbe appoggiare (anzi, accelerare) le riforme di cui sopra, che all'Ue fanno venire l'acquolina in bocca, ma al contempo dovrebbe lavorare per ridurre la smania di protagonismo del nostro Premier, che ultimamente chiacchiera un po' troppo di flessibilità e di limiti del Patto da rivedere. Si tratta, beninteso, di semplici parole destinate al nulla e pronunciate da Renzi solo per accreditare se stesso. Ma i maestri esigono che, mentre fanno i compiti, gli alunni stiano zitti.

di Alessandro Iacuelli

E' arrivato l'annuncio: Roma candidata ad ospitare le olimpiadi del 2024. Con tanto di profonda enfasi da parte di telegiornali e quotidiani già in edicola. Lo annuncia con altrettanta enfasi Matteo Renzi, in una conferenza stampa con tanto sapore di cerimonia ufficiale per la candidatura. Nessuna enfasi, anzi una totale cancellazione, per la conferenza stampa di un illustre predecessore di Renzi, quel Mario Monti che tutti ricordiamo bene, tenuta il 14 febbraio 2012, quella in cui il presidente del Consiglio dei ministri annunciava il ritiro della candidatura di Roma per le olimpiadi 2020.

Se la memoria non inganna gli italiani, quella stessa memoria seppellita dai telegiornali italiani che in queste ore lanciano servizi su servizi dedicati alle imprese eroiche dell'Olimpiade romana del 1960, appena nel 2012 successe che dopo un’attenta valutazione dei costi e dei benefici legati all’operazione nel suo complesso, il premier Mario Monti decise che “non esistono le condizioni perché il governo offra le garanzie dello Stato alla candidatura per i Giochi”.

Monti spiegò come stanno le cose: “Il Comitato olimpico internazionale richiede al governo del Paese ospitante i Giochi una lettera di garanzia finanziaria... tra le altre cose il governo del Paese ospitante deve farsi carico di ogni eventuale deficit della manifestazione”. Poi sottolineò: “Non possiamo correre rischi”.

Cosa è cambiato da due anni ad ora? In meglio, praticamente nulla. In peggio, abbastanza: altre imprese che hanno chiuso, altri posti di lavoro perduti, altre attività migrate in Cina o nell'Est Europa, crisi galoppante. In questo quadro abbastanza fosco, l'attuale premier Renzi, prendendo troppo a spunto l'idea berlusconiana di mandare avanti l'Italia a suon di spot pubblicitari sulla bravura del governo, inventa questa non nuova idea dei Giochi Olimpici. Soldi da spendere, e perdite cui lo Stato dovrà far fronte, magari attraverso l'IRPEF dei lavoratori dipendenti che devono per forza pagare le tasse.

I precedenti storici parlano chiaro, e spiegano a chiare lettere il perché della scelta di Monti, opposta a quella di Renzi. Atlanta 1996, la prima Olimpiade-flop della storia: voluta dallo sponsor Coca Cola, che però preferì imporla senza investire soldi di tasca propria, realizzata con una copertura finanziaria quasi interamente pubblica (6 dei 7 miliardi di dollari totali); flop totale, con appena 218 milioni di dollari “rientrati” attraverso i diritti TV, e un bilancio profondamente in rosso.

Andiamo avanti di 8 anni: Atene 2004. 8,9 miliardi di euro di spesa, soltanto 1,7 dai privati. Gli introiti derivanti dai diritti TV furono di 1,2 miliardi di Euro, piuttosto pochini rispetto alla spesa, spesa alla quale vanno aggiunti 1,23 miliardi di euro spesi in sistemi di sicurezza, con 45mila uomini impegnati.

L'effetto immediato sull'economia greca, ricorda il Corriere, fu ottimo con un incremento del Pil dello 0,3% e un aumento del turismo sul breve termine. L'onda lunga di quelle spese folli, però, si è fatta sentire dopo pochi anni. La crisi economica della Grecia è nata proprio dalle spese, e dai bilanci truccati, dell'epoca dei Giochi Olimpici, e quella crisi ha travolto l'Europa intera.

Probabilmente, non è un caso se negli ultimi mesi molte città, come Cracovia, Stoccolma, St. Moritz e Monaco hanno rinunciato ad ospitare le Olimpiadi, sia estive sia invernali. Come ha scritto nel maggio scorso il Washington Post, queste città “non vogliono trovarsi nella situazione di Atene, Pechino o Sarajevo, che dopo diversi anni sono ancora piene di rovine inutili e strutture abbandonate che sono costate alle amministrazioni locali moltissimi soldi”.

Le critiche ai grandi eventi, negli ultimi tempi, fioccano abbondantemente da più parti. I grandi eventi non sono necessariamente sportivi, ma tutti richiedono enormi investimenti iniziali sulla base di una speranza, spesso delusa, di un ritorno economico sotto forma di turismo e di “immagine”. In Italia ad esempio Roberto Perotti, professore di economia all’Università Bocconi, ha pubblicato una serie di articoli in cui critica duramente EXPO 2015. Le sue argomentazioni non sono affatto diverse da quelle utilizzate per criticare le Olimpiadi. Scrive Perotti che “il vero problema è che EXPO non avrebbe dovuto esistere. La decisione di intraprenderla è derivata da una ubriacatura retorica collettiva supportata e legittimata da stime economiche azzardate”.

In questo quadro, l'unica voce fuori dal gregge pare essere proprio quella di Renzi che all'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, pontifica in diretta TV sul fatto che “l'Italia deve provarci”. Provarci in cosa? Ad ottenere i Giochi Olimpici a Roma nel 2024, fare una marea di gare d'appalto per lavori di realizzazione e manutenzione di impianti sportivi che dopo le Olimpiadi non serviranno più a nulla, a spendere un mare di miliardi di soldi pubblici, perché in Italia i finanziatori privati non sono certo tanto sprovveduti da mettere a rischio i propri capitali in un'impresa più a rischio delle altre.

Un mare di miliardi destinati ad essere accaparrati dai soliti privati che in Italia mangiano e prosperano sulle grandi opere e sulle cattedrali nel deserto. Un mare di miliardi per un'operazione “a tempo”, che terminerà con la fine dei lavori per le Olimpiadi, e non certo in grado di dare sviluppo duraturo all'Italia, alla quale rimarrà solo l'onere delle spese e dei debiti accumulati.

Per cosa, poi? Per dare una parvenza di “grandezza” al Paese, dimostrando che è in grado di ospitare i Giochi Olimpici? Per dare lustro ad un Paese in declino? Probabilmente, anzi certamente, non è di questo che l'Italia ha bisogno. Di sicuro non ha bisogno di fare fin dal 2015 dei debiti che dovranno essere sanati poi dai nostri figli dopo il 2024.

Non è delle Olimpiadi, che l'Italia ha bisogno, ma di ben altro che le dia una speranza di futuro stabile. Matteo Renzi certamente lo sa, non essendo sprovveduto, ma sta garantendo ad una parte privilegiata d'Italia, quella che costruisce strade, edifici, stadi e impianti sportivi, una sopravvivenza che si tradurrà in un futuro appoggio elettorale. Un calcolo politico pericoloso per l'intero Paese, che Renzi non sa salvare.

di Antonio Rei

Quando una coppia in crisi si rivolge a un terapista, in molti casi il risultato è un'accelerazione della rottura. E non si tratta di un esito negativo, perché arrivare il prima possibile all'unica soluzione del problema vuol dire evitare altri anni di sofferenze. Purtroppo, questa logica della terapia di coppia non è accolta con favore in casa Pd, visto che ieri, durante l'Assemblea, nessuno ha avuto il coraggio di pronunciare la parola "scissione".

Eppure, come sul divano di uno psichiatra, lo Psico-Dramma del Partito Democratico ha prodotto la rappresentazione di un conflitto. Dal palco del Nazareno, Stefano Fassina ha puntato letteralmente il ditino contro Matteo Renzi: "E' inaccettabile la delegittimazione morale e politica di chi ha posizioni diverse dalle tue - ha strillato con la voce del coniuge trascurato -. Io non sto in Parlamento per gufare, ma per esprimere un punto di vista costruttivo. Non ti permetto più di fare caricature di chi la pensa diversamente da te, è inaccettabile. La minoranza non fa diktat. Se vuoi andare a elezioni dillo, assumiti le tue responsabilità e smettila di scaricarle sugli altri".

Il Premier-Segretario, nelle vesti del partner sotto accusa, si è difeso attaccando: "Non credo che ci siano caricature - ha detto -. Non credo sia una caricatura quando vengo definito una 'Thatcher de’ noantri', quando si dice che il Jobs act è fascista o che il Pd ha la linea economica della troika. E’ bello discutere e approfondire ma poi c’è un principio, a un certo punto si decide. Non sono affezionato al principio di obbedienza, mai stato. Ma un partito sta insieme sulla base di lealtà. Le prossime elezioni sono nel 2018, l’unico modo perché non lo siano è che il Parlamento ci mandi a casa".

La domanda che ci si pone in questi casi è sempre la stessa: quando l'amore finisce, perché mai è tanto difficile separarsi? Nelle coppie interviene spesso la preoccupazione per i figli, oltre all'umana paura di rimanere soli. Nel Pd, invece, il ruolo della prole è svolto dagli elettori: che fine farebbero, in caso di scissione? Debole o forte che sia un nuovo partito dei vari Civati, Fassina, Cuperlo e Bersani, è ovvio che il centrosinistra perderebbe terreno nelle percentuali dei sondaggi.

La livella dell'Italicum, con il suo doppio turno iper-maggioritario, potrebbe rimediare in parte alla dispersione dei voti, ma al momento nessuno ha intenzione di votare la nuova legge, perché ciò significherebbe spalancare la porta alle elezioni anticipate. D'altra parte, anche con l'Italicum in vigore, se il centrosinistra si presentasse diviso alle urne il timore della sconfitta sarebbe più che fondato. Renzi sa che la sua popolarità continua a calare, mentre la minoranza Pd è consapevole di non avere al proprio interno alcun cavallo vincente, a meno di non arruolare uno come Maurizio Landini, che però sta bene alla Fiom e non sembra avere impulsi masochisti.

Questo scenario è chiaro a tutti, ma la paura di un futuro incerto non basta a risolvere lo Psico-Dramma. La minoranza Pd ha le sue ragioni: Renzi governa in Parlamento con i voti presi da Bersani e si permette di trattare come feccia petulante chiunque osi dissentire dal suo orientamento di centro-sinistra-destra. Dice che "il dialogo è bello" e "il confronto importante", ma fin qui l'unico interlocutore che abbia accettato è Denis Verdini.

Su alcuni punti, però, nemmeno il Premier ha tutti i torti. In fondo, non è segretario per caso: il congresso ha votato per lui, la maggioranza è sua. Certo, questo non giustifica il suo decisionismo solipsistico, ma la minoranza Pd dovrà prima o poi rassegnarsi al fatto di aver perso, e non solo all'interno del partito. Nessuno ha il diritto di autoassolversi, tantomeno Bersani, che è certamente molto più a sinistra di Renzi, ma prima ha mandato al governo Mario Monti, poi ha "non vinto" le elezioni più imperdibili della storia repubblicana, infine ha condotto in modo disastroso la partita per il Quirinale, spianando la strada per la rielezione di Giorgio Napolitano.

Insomma, è proprio come in una normale crisi di coppia: la distinzione fra colpevoli e innocenti è inutile e le due parti sanno benissimo che la separazione sarebbe l'unica strada per tornare a vivere, ma proprio non riescono a rassegnarsi. E lo Psico-Dramma continua.     

di Giovanni Gnazzi

La cosa triste è che hanno ragione entrambi, anche se solo in parte. Ha ragione Maria Elena Boschi quando si dice preoccupata dal fatto che Matteo Salvini incontri Marie Le Pen, "leader di un partito che tecnicamente si richiama al fascismo". E ha ragione il segretario della Lega quando definisce "allucinante" il fatto che la Boschi, una "Cappuccetto Rosso che ha paura del lupo", sia "quella che deve fare le riforme in Italia".

L'arguto scambio di battute ha avuto luogo domenica, in un rimpallo televisivo fra Skytg24 e Rai3, ed è una sintesi tragicamente efficace del livello raggiunto dal dibattito politico italiano. Basti pensare che tutto è iniziato con una domanda di Maria Latella alla Boschi sulle inquietanti foto senza velo di Salvini, immortalato a torso nudo sulla rivista Oggi.

Da una parte del ring c'è il ministro della Repubblica che condanna la memoria storica del fascismo. "E grazie - viene da pensare -  la Costituzione l'avrà letta". Casomai, è meno rassicurante che dica di farlo perché glielo "hanno insegnato" nella sua famiglia (i libri mai, eh?), ma forse la battuta si può ricondurre a quell'umorismo antartico che affligge una certa sinistra.

Dall'altra parte c'è il gelatinoso condottiero padano che ha buon gioco a liquidare l'avversaria paragonandola alla protagonista di una nota narrazione per bambini (in realtà, non c'è fiaba più sordida di Cappuccetto Rosso, ma quasi certamente Salvini lo ignora). E' una sparata volgare e facile. In fondo, stiamo parlando di un ministro donna giovane e attraente (qualità non sempre vantaggiosa in un Paese di trogloditi), che fin qui ha dato prova di avere la statura politica di un comodino, limitandosi a far risuonare dalla propria cavità orale il verbo renziano.

C'è un unico punto su cui questi due giganti dello Stato cadono entrambi in fallo, ovvero la rappresentazione di Matteo Salvini. E l'errore più grave è quello della Boschi, perché accredita il leghista di una struttura che non gli compete. E' vero, il Front National francese è un partito neofascista, per cui il discorso del ministro non è affatto campato in aria. Il problema è che la Boschi lo tira fuori perché pensa che agitare lo spauracchio del fascismo sia un modo per screditare l'avversario. E' un autogol tipico dei radical chic, una trappola in cui i sinistroidi snob cascano regolarmente da decenni.

Per quanto liberticida, contraddittorio, violento ed esecrabile, autentica tragedia del secolo passato, in Italia il Fascismo è stato qualcosa. Se non altro, un'ideologia totalitaria con una precisa idea dello Stato e della società, fornita di un complesso apparato istituzionale e simbolico che, fra le altre cose, puntava a irreggimentare la vita delle persone, a pervadere ogni aspetto della loro vita, compreso il modo stesso di articolare il pensiero.

Purtroppo nella nostra epoca il termine "Fascismo" ha perduto ogni connotazione storica e viene usato costantemente a sproposito. Con intenti goffamente denigratori, i sinistroidi bollano come fascista ogni manifestazione della destra più becera. Con due risultati, entrambi controproducenti.

Primo: ridimensionano nel sentire comune la vergogna del Ventennio, associandolo a personaggi-macchietta che sanno parlare alla pancia delle persone (Berlusconi e Grillo prima di Salvini). Secondo: anziché spaventare l'elettorato, in molti casi lo inducono a spostarsi verso gli stessi macchiettoni da cui lo vorrebbero distogliere: non sono poche le persone che si sentono rassicurate da riferimenti elementari a cui associano storie e tradizioni (spesso familiari). Chi non conosce almeno un genio che ragioni con il sistema binario degli imbecilli, qualcosa del tipo "meglio i fascisti dei comunisti, Stalin ha fatto più morti, si stava meglio quando si stava peggio"?

In realtà la Lega, come Forza Italia, non è mai stata fascista. Se la prende con gli stranieri, ma questo non basta per issare il vessillo littorio. Salvini ha rivitalizzato miracolosamente un movimento massacrato dal magna magna della prima dirigenza, e lo ha fatto sostituendo le parole d'ordine della tribù: non più "secessione", ma "no euro"; non più "Roma ladrona", ma "maledetta Bruxelles". Salvini raccatta i voti persi dagli altri parlando di cose che non conosce, facendo leva sullo stomaco più che sulle sinapsi. Tutto qui. Il Duce, per fortuna, non c'entra nulla, e nemmeno il sinistro e virile lupo di Cappuccetto Rosso. Almeno a giudicare dalle foto su Oggi.


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