di Fabrizio Casari

Lascerà dunque oggi il Quirinale il presidente Napolitano. Una scelta annunciata da diversi giorni e politicamente in agenda da diversi mesi. Lascia senza aver portato a compimento l’ultima operazione politica che aveva in mente, in condominio con Renzi: la riforma istituzionale che, nel riassetto delle istituzioni in funzione delle esigenze di dominio delle elites, chiudesse una volta e per tutte con la storia delle istituzioni repubblicane così come fino ad ora conosciuta.

Una riforma, quella di Renzi, che contiene dei tratti di incostituzionalità che avrebbero dovuto spingere il Presidente della Repubblica, nel suo ruolo di garante massimo della Costituzione, ad una ferma opposizione al progetto, ma che invece lo hanno visto come uno dei principali sostenitori, forse nella speranza di vederla approvata con la sua firma in calce. Troppo tardi.

Niente a che vedere con l’altro Presidente della Repubblica venuto dalle file della sinistra, Sandro Pertini. L’alterigia ingessata di Napolitano mai ha avuto similitudini con l’informalità e la passione di Pertini e né sotto il profilo ideale, né sotto quello politico, tantomeno nella comunione sentimentale con il suo popolo, Napolitano ha mai ricordato in minima parte la meravigliosa eredità del partigiano socialista che diede lustro al Colle e che ricevette la stima e l’affetto sincero di quasi tutti gli italiani.

Proprio questo scarto assoluto tra due personaggi così diversi, agli antipodi quasi, illustra meglio di qualunque analisi la profonda mutazione genetica che ha caratterizzato la progressiva involuzione del centrosinistra italiano.

Lontanissimo dalla connessione sentimentale con le ragioni dei deboli, Napolitano è stato invece, per eccellenza, il Presidente garante soprattutto delle elites politiche e finanziarie che governano l’Europa e la stessa Italia. Agitando lo spauracchio dell’antipolitica e il rispetto di impegni sul pareggio di Bilancio che hanno violato la sovranità nazionale oltre che la logica delle compatibilità, ha sapientemente governato la crisi di credibilità della casta agendo come il più ligio dei funzionari della Commissione Europea.

Piuttosto indifferente all’indignazione popolare di fronte ad una crisi economica e morale permessa e favorita da una classe dirigente incapace e corrotta, Napolitano è stato lo strenuo difensore, oltre ogni decenza, del quadro politico che lui per primo ha voluto determinare. Andando oltre i limiti del suo mandato, ha sostanzialmente impedito la soluzione elettorale della crisi politica, imponendo di volta in volta alla guida del governo i personaggi che lui riteneva funzionali al suo progetto politico, che si è sempre identificato con gli interessi della UE.

Decise infatti di forzare per l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi quando il cavaliere andò allo scontro con Bruxelles, non prima. Ma il disegno europeo non prevedeva scossoni violenti del quadro politico e di governo e quindi, a seguito della crisi del governo Berlusconi, quando i sondaggi non lasciavano margini d’incertezza circa la netta vittoria del PD nelle urne, diede il suo primo colpo di mano e nominò Mario Monti.

Figura gradita a Bruxelles, stretto osservante del rigore di Bilancio e dell’ipoteca europea sulla sempre minore sovranità dei singoli Stati, l’ex rettore della Bocconi era soprattutto l’uomo che serviva per impedire un governo di centrosinistra con il PD all’epoca ancora legato ad una cultura progressista.

La nomina di Monti fu un sigillo di garanzia offerto all’eurocrazia ed uno stop chiaro a un disegno che poteva anche solo parzialmente mettere in discussione i diktat della Commissione e limitare il comando di Bruxelles sull’Italia.

Identica linea venne seguita dopo le elezioni che videro il fenomeno Monti fare la fine di quelli di Mariotto Segni prima e di Gianfranco Fini poi. In particolare rifiutò di assegnare a Bersani la formazione del governo dopo le elezioni.

Sebbene l’ex segretario del PD non avesse sulla carta la maggioranza certa al Senato, l’aveva alla Camera e il PD era il partito con più parlamentari nelle due camere, ma Napolitano rifiutò il mandato, impedendo così che il PD, ancorato a SEL e con la possibilità di dialogare con una parte del M5S, potesse formare un governo sgradito a Bruxelles ed ai poteri forti italiani.

Si apre ora la partita per la sua successione, con la manina di Renzi ancora dolente per via della contrattura intervenuta a guastargli l’operazione di rimessa in circolazione del suo socio nel patto del Nazareno. Lo scenario non è semplice e il governo si gioca buona parte della sua stessa sopravvivenza. Ovvio che Renzi veda come un incubo le candidature di uomini affezionati alla Costituzione, dal momento che il suo disegno di riforma costituzionale per il quale è stato spedito a Palazzo Chigi ha bisogno per forza della complicità dell’inquilino del Colle.

Si possono quindi escludere le figure più prestigiose di costituzionalisti, poco propensi a farsi dettare la materia dalla Boschi, così come di coloro che sono dotati di un impianto politico solido, poco inclini dunque a fare i passacarte dell’ambizioso premier.

Cosa aspettarsi? Non sembrano esserci le condizioni politico-parlamentari per un presidente di garanzia per gli italiani, invece che per i soci del patto osceno del Nazareno. Ma un nome scelto in comune con il centrodestra non sarà mai votato da SEL e Cinque Stelle, oltre che dalla minoranza del PD.

Renzi sarà così costretto a puntare su una figura del corpaccione PD che eviti a tutti i costi il voto contrario della sua minoranza e che possa andar bene anche al centro destra, sperando che, votazione dopo votazione, quel nome regga ai peones in cerca di collocazioni. Vista ormai la marcia del PD verso il partito della nazione non dovrebbe essere difficilissimo. Difficile semmai, quale che sia il nome che PD e altri sceglieranno, che il risultato possa peggiorare il quadro fin qui avuto con Napolitano.


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