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di Fabrizio Casari
Non fosse visibilmente strumentale, risulterebbe ozioso il dibattito interno al PD circa i suoi tesserati o candidati finiti nell’occhio del ciclone causa mazzette e consorterie stipate su diverse latitudini. Quello che appare certo è che il PD, pur provenendo dalla storia del Partito Comunista Italiano, non ha nemmeno vagamente l’odore e le sembianze della solidità etica che caratterizzava il comportamento pubblico del PCI.
Con la fine del PCI, per la quale molti degli esponenti del PD si sono battuti alacremente, la sinistra ha perso ogni primato etico insieme - e forse in parallelo - alla rappresentanza del mondo del lavoro. La sua diversità, orgoglio di milioni di militanti ed elettori di numerose generazioni, è finita nelle anguste stanze della Bolognina, lascito penoso del Novecento italiano.
Alcuni degli esponenti della cosiddetta generazione dei quarantenni, che presero in mano il PCI per portarlo rapidamente al suo scioglimento, hanno lavorato per disossare in profondità il sistema valoriale che chiunque, anche chi non vi militava, gli riconosceva. Stanchi di mantenersi eretti, avevano fretta di sedersi su comode poltrone e pensarono che solo ripudiando l’idea di un altro modello potevano arrivare a governare il modello in voga. Invece di portare al governo le istanze dei lavoratori, hanno preferito cercare di portare le loro personali.
E sono proprio alcuni di questi che più hanno tratto vantaggi personali dal disarmo della sinistra. Salotti più o meno buoni, appetiti voraci, ambizioni decisamente superiori alle proporzioni lecite, piroette di sigle e dismissioni continue, ansia di sostituirsi a quella Balena Bianca che, sebbene etero diretta da fuori, dirigeva il Paese. Salvo poi, un bel giorno del 2013, vedersi surclassare da chi la storia del PCI non l’ha letta nemmeno nei libri di Spriano, che si è iscritto al PD per militarvi prima e conquistarlo poi. Al PD, non al PCI: ad un partito cioè che tenta di costruirsi una identità post-ideologica, attratto non dal sogno di una società più equa e più giusta ma solo da una meno inefficiente.
In questo senso la discussione tra le responsabilità dei singoli dirigenti del PD è falsata. Perché non si tratta di capire se Greganti o Orsato siano iscritti o no al PD, giacché il partito che ha deciso di annettere tutto e il contrario di tutto, di porsi al centro dello schieramento politico e di ogni intrigo governista, è comunque una comunità nella quale quegli uomini, a diverso titolo, agiscono. Coerentemente sono arrivate le larghe intese, che più che una necessità del governo del Paese rappresentano un modello di gestione politica e, allo stesso tempo, un’idea delle relazioni industriali basata sulla dipendenza della politica dalle imprese.
Renzi tenta di scrollarseli di dosso ancor prima dei riscontri probatori dei loro reati con la speranza di assestare un colpo non tanto alla corruzione, quanto alla minoranza interna che fa riferimento al blocco di potere precedente a quello installato dal Premier-Segretario. Non c’è nessuno scontro ideologico, nemmeno di programma: la questione è solo relativa al governo della “ditta”, come ebbe a definire Bersani il partito, indicando involontariamente la natura ideale della compagine. Ma Renzi, che non vuole perdere l’occasione per prendersi il partito nei gangli più delicati, visto che è diventato Segretario senza un congresso e Premier senza elezioni, deve stare attento a menare fendenti, un giorno non lontano potrebbe succedere che alcuni dei suoi vengano colti con le manine nella marmellata.
E soprattutto, invece di sparare giornalmente a palle incatenate contro i sindacati, sarebbe ora che dedicasse alcune delle sue dichiarazioni quotidiane alle associazioni padronali. Si è sostenuto con vigore, dai media di proprietà o comunque finanziati dalle imprese, che la politica fosse il collettore della corruzione. Non senza ragione, intendiamoci, ma non in via esclusiva andrebbe detto. A testimoniare come non fosse il finanziamento illecito ai partiti l’unico scopo della corruzione in Italia, ecco che il sistema prosegue anche oltre le necessità e gli appetiti dei partiti.
E’ facile infatti accusare la politica, sapendo che tanto si raccolgono facili consensi. D’altra parte, è talmente deprimente lo spettacolo che la politica offre quotidianamente, che a nessuno viene in mente di approfondire eventuali responsabilità dei partiti nelle truffe, verificando cioè se il denaro truffato e rubato finisce poi nelle casse dei partiti o, come si vede, in conti off-shore intestati a faccendieri e capitani d’industria.
Stime ultramiliardarie indicano il costo dalla corruzione. Non potrebbe essere altrimenti. In lungo e largo per il Paese, ovunque le grandi opere vedano i cantieri aperti, la corruzione si erge a perno del sistema e assume le dimensioni della truffa continuata ai danni delle casse pubbliche. Siamo in presenza di un sistema misto con al centro le imprese che vede i gruppi di soci intrecciarsi sì con i partiti, ma che, diversamente dal passato, ha nei partiti un elemento a volte alleato e a volte ignaro, non il destinatario del denaro. Che invece viene spartito tra soggetti che, con i partiti, hanno poco a che spartire.
L’elemento di novità rispetto agli anni ’80 e ’90 non sta tanto nel ruolo delle imprese nella rete della corruzione in Italia, quanto nel fatto che i loro soci nell’illecito non hanno più nemmeno il bisogno di giustificarsi indicando i partiti quali destinatari finali.
Ci sono alcune grandi imprese che ricorrono ormai abitualmente negli scandali di corruzione che vengono alla luce. Magari i loro rappresentanti tuonano dalle assemblee di Confindustria contro i partiti ma, quale che sia il colore dei governi, loro non mancano mai all’appello e rappresentano il centro del sistema corruttivo in Italia. Un tempo usavano versare soldi ai partiti e ora, pur di accaparrarsi appalti e guadagni, spostano volentieri i loro fondi sui personaggi in grado d’influenzare assegnazioni di lavori, commesse e forniture senza preoccuparsi minimamente se lo facciano nell’interesse del partito o del loro personale. I partiti sono per i gonzi, i soldi sono per loro.
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di Fabrizio Casari
Dopo una campagna elettorale dove tra i protagonisti sono stati avvistati Dudù, Hitler, Stalin, la peste rossa e una robusta dose di insulti che hanno coperto programmi e contenuti, le urne europee in Italia hanno lasciato di stucco tutti, almeno visti i sondaggi dei giorni precedenti che indicavano in un avanzamento del M5S e nella tenuta del PD il dato saliente del possibile risultato elettorale. Tutt’altro invece emerge dallo scrutinio. Renzi ha stravinto, sia nelle percentuali elettorali italiane, sia in confronto con il dato europeo che vede ovunque i partiti dell’area del socialismo europeo in calo, in alcuni casi in crollo (vedi GB e Francia).
L’impressione è che, se al vertice del PD e al governo si fossero trovati gli esponenti del Nazareno succedutisi negli ultimi anni, anche in Italia si sarebbe registrato lo stesso fenomeno di Francia e GB. Invece da noi, l’effetto Renzi ha cambiato completamente le carte in tavola, ottenendo un risultato che nemmeno nei suoi sogni migliori l’ambizioso premier avrebbe vissuto.
Intanto nello scenario europeo, dove il PD risulta essere l’unico partito membro del PSE ad aumentare i consensi e dove la destra non ottiene un avanzamento significativo (ma qui si deve dare merito a Grillo). Nello specifico italiano, mai nella storia i derivati del PCI avevano raggiunto il 40 per cento e mai, nella vicenda politica degli ultimi 30 anni, il partito di governo aveva ottenuto un trionfo invece di un ridimensionamento nelle urne. Renzi vede confermarsi l’elemento chiave della sua strategia elettorale: prendere i voti nel bacino elettorale della destra, a maggior ragione in presenza di un elettorato orfano della leadership persa tra le minorenni di Arcore e gli anziani di Cesano Boscone.
I voti al PD non vengono dalla destra in quanto tale, visto che la somma di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e NCD risulta essere quanto il dato del PDL unito; i voti in più al PD arrivano invece dallo smottamento dell’area moderata orfana di rigor Montis e di quell’elettorato che, in fuga dalla destra, si era rifugiato nell’area centrista. Non va poi nascosta una possibile trasfusione di consensi dallo stesso M5S da parte di chi ha visto deluse le speranze d’incisività politica dei grillini a causa del comportamento della coppia Grillo-Casaleggio.
In fondo bisogna riconoscere non solo che la strategia dello sfondamento nell’area moderata ha pagato ma anche che, condivisibile o meno, questa strategia elettorale risulta coerente con l’identità e la linea politica del PD che Renzi aveva ed ha in mente: un partito centrista con venature progressiste sempre meno accentuate, frutto di un’identità culturale e politica indefinita rispetto alle grandi famiglie delle scuole di pensiero politico europee, semmai incline ad un impianto simile a quello dei democratici americani, non per caso grandi sponsor del premier italiano.
Difficile che la vittoria porti suggestioni elettorali in Italia; Renzi si è dimostrato abile ed intelligente e sa che per capitalizzare meglio dovrà darsi un immagine di cambiamento e stabilità politica al tempo stesso. Peraltro, tra poco l’Italia avrà la presidenza di turno dell’Unione Europea, e tutto può fare meno che esercitarla in campagna elettorale.
Una campagna elettorale a base di minacce e presunzione è stata invece fatale per il M5S. Prefigurare vittorie assolute e, subito dopo, dimissioni del Presidente della Repubblica, del governo, istituzione di tribunali popolari via web ed altre idiozie simili, ha contribuito alla flessione pesante registrata dai grillini.
La sensazione è che la cosiddetta terzietà nel quadro politico, l’equidistanza e la sottrazione dai processi di aggregazione politica destinati a innescare processi riformatori, con la rivendicazione di un purezza che sembra piuttosto incapacità politica in quasi tutti i sui esponenti, ha reso il M5S un aggregato politicamente inutile, asserragliato nel castello della sua diversità ma inutilizzabile politicamente.
A questo si è accompagnata la consapevolezza di come la gestione scellerata del processo politico ed organizzativo interno abbia reso il M5S una entità proprietaria di una coppia di amici che, con estrema disinvoltura nell’applicazione di metodi antidemocratici nascosti dietro esempi di democrazia, rischiano di consegnare all’auto avvitamento un percorso politico che dovrebbe e potrebbe essere diverso. L’importanza del Movimento 5 Stelle è evidente, si tratta ora di fornirlo di utilità politica; la testimonianza, da sola, non serve e comunque non basta.
Significativo il successo dell’Altra Europa con Tsipras, dal momento che nonostante il leader di Syriza fosse sconosciuto ai più e che le risorse a disposizione fossero men che esigue. Come sempre, all’opera di occultamento ha contribuito energicamente il sistema di potere mediatico che ha sostanzialmente cancellato i volti e le ragioni dell’unica lista di sinistra presente nella competizione elettorale.
Ad ogni modo l’esperimento è riuscito e saranno tre gli europarlamentari dell’Altra Europa che troveranno nel GUE il luogo per far viaggiare proposte sane di riconversione complessiva della linea economica e politica dell’Unione Europea.
La speranza è che il processo di riaggregazione della sinistra faccia un ulteriore salto in avanti, eliminando rapidamente appartenenze e settarismi che non hanno senso e consegnando la leadership del percorso a quegli intellettuali che hanno dato vita all’appello che diede inizio alla nascita della lista. Le ragioni della sinistra non possono essere affogate tra il fanatismo mercatista dei funzionari di Bruxelles e l’euroscetticismo degli euroscettici, apprendisti stregoni improvvisatisi economisti.
L’Europa, intasata da blocchi di potere e nazisti di ritorno, può e deve avere davanti a sé una prospettiva diversa, se non altro per quanto sia diversa quella disegnata dal Manifesto di Ventotene e quella realizzata dal quarto reich di Frau Merkel.
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di Rosa Ana De Santis
I giornali online del lunedi aprono con la notizia di un barcone che affonda a pochi passi dalle coste di Lampedusa. Erano 400 i migranti a bordo, provenienti dalla Libia. Il guardasigilli Orlando, immediatamente, lamenta una scarsa partecipazione e cooperazione da parte dell’Ue che chiede un nuovo summit. Gli sbarchi sono inarrestabili e i morti accertati 14, i dispersi 200. Martedi scorso, ancora vicini alla Libia, un’altra imbarcazione di disperati era finita a picco nel mare.
Anche in quest’ultima tragedia l’azione delle Capitanerie di Porto per il soccorso è stata solerte ed encomiabile. Ma il dramma rimane aperto e 25.000 sbarchi dall’inizio dell’anno rappresentano un numero che mette paura. Aldilà delle soliti voci che mettono sotto accusa l’operazione “Mare Nostrum”, è anche il PD che finalmente alza la testa chiedendo all’Europa interventi politici diretti sulla presa in carico dai porti di partenza e sulla gestione delle domande di asilo che può essere dirottata su più paesi della Comunità e non sul primo approdo geografico, qual è l’Italia, che i migranti trovano lungo il loro viaggio.
E’ la candidata alle europee, Bonafè, a dirlo, e ancora Renato Soru, che accoglie la richiesta di aiuto del Sindaco di Lampedusa, Nicolini, che chiede canali umanitari speciali per una terra che ormai non è più in grado di fronteggiare un’emergenza umanitaria vera e propria che molti si rifiutano di riconoscere come tale.
Al di sopra della bagarre elettorale, che come solito si è consumata sulle vittime del mare, il Ministro Orlando ha presentato due risoluzioni specifiche contro il traffico dei migranti, nel contesto della 23a sessione della Commissione delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e la giustizia penale. Ha parlato di “deficit di cooperazione” al Direttore Esecutivo dell'Unodc (United Nations office on drugs and crime) Yury Fedotov, che ha assicurato massimo impegno.
La speranza è che la debolezza geopolitica del nostro Paese che ha ormai collezionato diversi insuccessi nella scena internazionale (vedi il caso dei Marò), possa almeno su un dramma di cosi vaste proporzioni spuntare qualche tangibile risultato che non sia più la commedia della stretta di mano tra un Presidente e un rais, ma una mozione europea in grande stile.
La consapevolezza di una tragedia che va oltre i confini di leggine e propagande elettorali di stagione, ciò che non comprendono i detrattori “qualunque” del Mare Nostrum, dai leghisti in su, è la molla che deve bastare. A sedersi in Europa con il vanto e il primato di aver condotto da soli la regia di un’azione internazionale nobile e prestigiosa sotto il profilo morale prima che politico.
L’Europa che ci apprestiamo a scegliere, fatta di moneta unica, di incomunicabilità culturali e di finanza speculativa, dovrà pur ripartire da un’idea. Lampedusa, nonostante gli sforzi di eliminare dalla coscienza comune e istituzionale internazionale la ferita aperta, ricorda all’Europa lo sforzo di esserci, prima che di fare qualcosa.
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di Carlo Musilli
Lo potremmo chiamare “Porcelet”, in francese, visto che serve a scegliere gli italiani che ci rappresentano a Bruxelles e a Strasburgo. Certo, il nickname “Porcellum” era più efficace, ma stavolta sul banco degli imputati è finita un’altra legge elettorale del nostro Paese, quella per le europee.
Sulla natura suina della norma dovrà esprimersi la Corte Costituzionale, dopo che venerdì scorso il Tribunale di Venezia ha giudicato ammissibile il ricorso presentato da Felice Besostri, avvocato milanese ed ex senatore socialista, lo stesso che aveva impugnato il beneamato “Porcellum”, poi bocciato dalla Consulta.
La legge in questione, di stampo proporzionale, è stata approvata dal Parlamento nel lontano 1979, in occasione del primo voto diretto per l’Europarlamento. Il sospetto d’incostituzionalità, tuttavia, non riguarda l’impianto generale, bensì la modifica introdotta il 20 febbraio 2009 con i voti di Pdl, Pd, Lega, Udc e Idv, che un paio di mesi prima delle scorse europee ha imposto una soglia di sbarramento al 4%.
Le barriere di questo tipo sono una passione tipica dei grandi partiti - non a caso l’Italicum, attualmente in gestazione, prevede tetti ancora più alti - e di solito i limiti imposti alla rappresentatività vengono giustificati con il superiore interesse del Paese, cui va assicurata la massima governabilità.
Nel caso del “Porcelet”, però, la scusa suona un po’ deboluccia, visto che in gioco c’è l’elezione dei parlamentari europei e la governabilità dell’Italia non c’entra più un’acca. Non sarà forse che - a 30 anni dall’adozione della legge - i partiti minori si sono inventati la storia del 4% per spartirsi tutte le poltrone senza la scomoda intrusione delle formazioni più piccole? Alla Consulta l’ardua sentenza.
Intanto, i giudici di Venezia hanno scritto che l’introduzione di una soglia "non appare sostenuta da alcuna motivazione razionale che giustifichi la limitazione della rappresentanza. Il Parlamento europeo, infatti, non ha il compito di eleggere o dare la fiducia ad alcun governo dell’Unione, al quale possa fornire stabilità di indirizzo politico e continuità di azione".
Nemmeno Besostri ha molti dubbi: "E' solo un problema di tempi per la decisione - sostiene -, per questo avrei preferito che il quesito fosse sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Ue. L'esito, invece, è certo, anche per i precedenti del Tribunale Costituzionale Federale tedesco. Le norme costituzionali sul diritto di voto sono uguali nella Costituzione tedesca (articolo 38) e italiana (articolo 48) e la giurisprudenza costituzionale tedesca in materia elettorale è un riferimento anche per la Consulta, che ne ha fatto uso nella sentenza sul Porcellum".
Il precedente citato da Besostri risale allo scorso febbraio, quando la Corte di Karlsruhe ha dichiarato incostituzionale uno sbarramento al 3% nella legge elettorale per le europee proprio perché non legato al principio di governabilità del Paese. I cittadini tedeschi, pertanto, voteranno il 25 maggio con un sistema proporzionale puro, dal momento che non esiste alcun motivo per tutelare l'Europarlamento dal cosiddetto "eccesso di rappresentanza".
La soglia di sbarramento, insomma, sarebbe solo una violazione dei principi costituzionali dell’eguaglianza del voto di ciascun cittadino e dell’eguaglianza di opportunità dei partiti. Il discorso è diverso per le elezioni politiche: in quel caso, il sistema della Repubblica federale prevede uno sbarramento al 5% per evitare l'eccessiva frammentazione del Parlamento nazionale.
Se i nostri giudici seguiranno questa interpretazione, "gli italiani saranno più liberi di votare per le liste di gradimento - chiosa Besostri -, senza paura di sprecare il voto". Peccato che ci siamo posti il problema a meno di 20 giorni dalle europee, pur sapendo che la Consulta impiegherà dei mesi a pronunciarsi. E dire che il Tribunale veneziano è stato perfino solerte, essendosi pronunciato per primo dopo che vari ricorsi contro la stessa legge erano stati presentati anche a Roma, Napoli, Milano, Cagliari e Trieste.
La morale della favola è presto detta: con ogni probabilità la Corte Costituzionale italiana boccerà anche il “Porcelet”, ma a quel punto avremo già votato e i parlamentari europei eletti con la legge incostituzionale rimarranno al loro posto, perché le decisioni della Consulta non hanno valore retroattivo. I parti rimasti sotto al 4% ricorreranno al Tribunale amministrativo, ma è improbabile che si arrivi a ricalcolare l'assegnazione dei seggi. In sintesi, si tratta dello stesso, identico meccanismo che ha già salvato il posto agli attuali deputati e senatori della Repubblica. Tale “Porcellum”, tale “Porcelet”.
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di Fabrizio Casari
I cinque minuti di vergognosi applausi del Sap ai suoi affiliati condannati sono la cifra reale di chi ritiene che l’Italia sia una sorta di fattoria degli animali di sapore orwelliano, dove tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri. Quel qualcuno indossa un’uniforme e plaude ai colpevoli della morte di una persona innocente. Sono diversi i casi ormai nei quali l’abuso reiterato di potere si esprime con l’uso incontrollato della violenza su singoli malcapitati fermati dalle cosiddette forze dell’ordine.
Federico Aldrovandi, 18 anni, fermato e pestato fino a morirne da quattro poliziotti a Ferrara la notte del 25 Settembre 2005; Stefano Cucchi, 31 anni, letteralmente ammazzato di botte durante il fermo il 22 Ottobre del 2009; Giuseppe Uva, 43 anni, muore dopo una notte in caserma a Varese il 14 Giugno 2008; Michele Ferrulli, 51 anni, morto per arresto cardiaco mentre quattro poliziotti lo stanno arrestando a Milano; Riccardo Magherini, 40 anni, morto a Firenze mentre i carabinieri lo stanno arrestando, sono solo alcuni, i più eclatanti e recenti casi di morti sotto le mani di agenti che avevano il totale controllo dei rispettivi arrestati.
Non è più un caso isolato ormai: troppo spesso accade che i fermati da inermi si trasformano in inerti. A questo già insopportabile elenco potrebbero poi aggiungersi altri nomi, luoghi e nazionalità, per non parlare di persone pestate a sangue che sono però in qualche modo sopravvissute all’incubo.
E ancora, si può elaborare una lunghissima lista di morti e feriti in operazioni di piazza, quasi sempre destinatari di un livello di violenza completamente inutile ai fini dell’allontanamento dei manifestanti ed al ripristino del controllo di strade e piazze e alla loro agibilità, che dovrebbe essere la funzione primaria delle forze di polizia impegnate nel servizio d’ordine pubblico. Da anni non c'è corteo che non veda protagonisti agenti maneschi, armati di odio e impunità, scagliarsi con inaudita violenza contro chi non può reagire.
Quei cinque minuti d’infamia durante il congresso del Sap, dimostrano però che l’annosa lamentela sulle difficilissime condizioni in cui operano (ma quali sarebbero mai?) che porterebbe ad eccessi incontrollati i tutori dell’ordine pubblico, regge poco. In quella riunione sindacale non c’era nessun pericoloso nemico a fronteggiare “gli eroi”. L’applauso liberatorio e solidale verso i colleghi accusati di omicidio ribadiva invece, oltre al fastidio per la madre di Aldrovandi, un sentiment fascistoide dello spirito di corpo, che quando viene messo in violazione delle leggi, sia chiaro, diventa spirito di casta.
Della protezione della comunità, della tutela dei cittadini a quei convenuti plaudenti non interessa affatto: interessa invece ribadire che nessuno può giudicarli, che le loro azioni e i loro eccessi debbono godere di impunità e le ridicole dichiarazioni a discolpa assumano valore d’intangibilità. Pagati da tutti noi, si "sentono" contro di noi.
Nessuno si sarebbe adombrato se il Sap avesse voluto offrire sostegno alla vicenda giudiziaria degli agenti coinvolti nell’uccisione di Federico Aldrovandi: certo non sarebbe stato possibile applaudire all’iniziativa, ma sarebbe rimasta nella cornice dello scontro processuale e della tutela del sindacato nei confronti dei propri iscritti. Invece no.
L’applauso è stato diretto non a presunti agenti innocenti, ma ad agenti colpevoli, così come dichiarato da una sentenza del tribunale. Colpevoli di aver ucciso un ragazzo innocente che dunque, a detta del Sap, sarebbe morto per pura casualità mentre veniva fermato.
Con l’eccezione di Giovanardi, che è il lato macchiettistico della politica, la dimostrazione di come questa sia ormai da tempo relegata nei bassifondi dell’intelletto, il resto del sistema politico ha in qualche modo espresso il suo sdegno per quei cinque minuti che gettano vergogna sull’insieme delle forze dell’ordine. Dal Presidente Napolitano al Ministro dell’Interno Alfano, fino al Capo della Polizia Pansa, non si può negare che le affermazioni di condanna verso i plaudenti si siano manifestate ampiamente.
Ma la questione, qui ed ora, non è quanto possa essere netta bensì concreta la condanna. Indicare cioè cosa fare per invertire il cammino dell’immunità di fatto. E allora bisognerebbe avere il coraggio di dire alcune cose in maniera chiara, la prima delle quali è che la democratizzazione della polizia è stato un percorso compiuto a metà e rapidamente abbandonato nel ventennio delle destre che hanno guidato governi e scritto leggi votate a ristabilire l’accanimento contro la devianza sociale e l'ultragarantismo verso i potenti. Sì è rafforzato l’impianto giustificazionista e perdonista verso gli abusi del potere, mentre si è alzata a livelli cileni la durezza delle sanzioni per chi manifesta idee e comportamenti giudicati “antagonisti”.
In questo quadro ideologico, che ha riproposto in buona sostanza una concezione di classe della giustizia, sono cresciute due leve di agenti e carabinieri. Ed è impossibile non notare come l’accanimento violento di alcuni agenti di pubblica sicurezza nei confronti dei fermati, dei manifestanti, di qualunque cittadino essi ritengano vada controllato, indica che il sottofondo “culturale” nel quale vengono educati preveda considerare chi l’uniforme non l’indossa, come altro da loro, come un potenziale pericolo, un possibile nemico.
Dunque i responsabili degli abusi non sono solo gli agenti che li compiono, ma anche chi ha indicato un’area d’impunibilità per loro, chi li ha istruiti alle maniere spicce nei confronti di chi si trovano di fronte, chi ha spiegato loro che l’autorità non può essere discussa e che il solo manifestare sia già in qualche modo un atto d’insubordinazione sociale che va represso.
Per cambiare questo stato di cose serve una formazione qualificata dal punto di vista culturale e non solo tecnica e vanno stabilite norme molto più stringenti e severe nei confronti di chi, ignorando i doveri che comporta l’indossare una divisa, possa dar luogo ad abusi coperti dal diritto de facto ad esercitarli.
Nessuno può morire o venire pestato quando si trova nelle mani delle forze dell’ordine. La condizione di fermato non può diventare quella di ostaggio. Servono sanzioni amministrative e penali, servono provvedimenti chiari che indichino la violazione dei compiti di tutela dei cittadini come elemento d’incompatibilità con la divisa.
Non esiste autorità che non abusi senza la minaccia delle leggi che li sanzionano. Per fortuna i poliziotti che svolgono degnamente il loro lavoro sono la grande maggioranza. Se il convincimento di svolgere il proprio lavoro con passione e professionalità è il merito degli agenti migliori, sarà il timore di essere giudicati con almeno pari severità di ogni altro cittadino a fermare le ansie bellicose dei bulli in uniforme.
Di fronte alla violazione delle leggi e agli abusi di potere l’uniforme non può essere un’attenuante, semmai un aggravante. Se non altro per uscire da un paradosso di un Paese in gran parte in mano alla criminalità, nel quale però gli abusi delle forze dell'ordine sono contro gli innocenti.