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di Carlo Musilli
Dal 2001 siamo arrivati a 14. In media, una legge incostituzionale l'anno sul capitolo giustizia. L'ultimo pronunciamento in ordine di tempo è arrivato sulla norma della Fini-Giovanardi, che dal 2006 equiparava droghe leggere e pesanti, livellando verso l’alto le pene. Giovedì scorso la Consulta ha bocciato questa assurdità, ripristinando la distinzione precedente. Risultato: circa 10 mila persone attualmente in carcere per reati connessi alla droghe leggere potrebbero tornare presto in libertà. Nel frattempo, per molti di loro la vita è diventata un inferno e per l'insieme della giustizia un aggravio di costi pesante e inutile.
Prima della geniale assimilazione di marijuana ed eroina, tuttavia, la galleria degli orrori parlamentari italiani aveva già collezionato una serie di exploit. Il più noto è l'abominio elettorale del Porcellum, dichiarato incostituzionale lo scorso 4 dicembre per le maxi-liste bloccate e lo sterminato premio di maggioranza alla Camera senza alcuna soglia da raggiungere.
La sezione più ampia riguarda però varie leggi ad personam che Silvio Berlusconi ha tentato di far passare negli ultimi anni per risolvere i propri guai giudiziari. Su questi provvedimenti si è espressa pochi giorni fa anche la Commissione europea, che - in uno studio sulla corruzione - li ha definiti un "ostacolo ai tentativi" di produrre norme per garantire processi efficaci.
Fra le trovate ad Cavalierem abolite dalla Corte costituzionale, la prima fu il lodo Schifani del 2003, nella parte che garantiva l'immunità penale alle cinque più alte cariche dello Stato. Seguirono il quasi analogo lodo Alfano del 2008, che sospendeva i processi alle quattro più alte cariche dello Stato, e la legge sul "legittimo impedimento" del premier e dei ministri firmata nel 2010 ancora una volta dall'attuale leader del Nuovo centrodestra, che fu dichiarata parzialmente illegittima dalla Consulta e poi abrogata in toto via referendum. Intanto, era stata giudicata in massima parte contraria alla Costituzione anche la legge Pecorella del 2006, che sanciva l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado.
La falce della Corte si è abbattuta poi su una sfilza di altri provvedimenti: da alcuni aspetti della ex Cirielli alla legge per escludere il pm Giancarlo Caselli dalla corsa alla Direzione nazionale antimafia, da parti della Bossi-Fini sull’immigrazione all’aggravante della clandestinità inserita nel "pacchetto sicurezza" targato Roberto Maroni, da una norma dell'indulto del 2003 alla legge che concedeva ai sindaci troppo potere in materia di pubblica sicurezza.
In uno sforzo di suprema ingenuità o smemoratezza, potremmo anche considerare questi scempi legislativi come reperti di una stagione buia ormai alle nostre spalle. Eppure, le persone che li hanno prodotti sono le stesse che oggi vorrebbero vestire i panni dei nuovi padri costituenti, abolendo il bicameralismo perfetto con la trasformazione del Senato e rimettendo mano al titolo V della Carta, quello sugli enti locali. Il tutto in accordo con il Pd (e fra poco il governo) di Matteo Renzi.
Non solo: sabato scorso, dopo esser stato ricevuto al Quirinale dal Capo dello Stato per le consultazioni, il pregiudicato Berlusconi ha anche rilanciato la propria battaglia contro "l'oppressione giudiziaria" che, a suo dire, tormenta non solo lui, ma tutti i cittadini italiani.
A questo punto bisognerebbe porsi alcuni interrogativi. Il primo riguarda la principale riforma istituzionale proposta dai renziani e accettata dai berluscones. Come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, in quasi tutte le leggi bocciate nell'ultimo decennio dalla Consulta le ragioni d'incostituzionalità erano state più volte segnalate nel corso dell'iter parlamentare.
Molti di quei provvedimenti, tuttavia, sono stati approvati in tempi brevissimi, dimostrando che il legislatore - quando vuole - non è affatto ostacolato dal bicameralismo perfetto. Al contrario, è stata proprio la struttura bipartita del nostro Parlamento ad aver scongiurato in diversi casi l'approvazione di leggi inique o contrarie alla Carta.
Inoltre, allargando lo sguardo ad una prospettiva più generale, dovremmo chiederci di quale credibilità possa godere una classe politica che in pochi anni è incappata tante volte nel giudizio negativo della Consulta. E per quale motivo stiamo dando ancora una volta a loro il potere di riformare la Costituzione e la giustizia.
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di Fabrizio Casari
Nella relazione che Matteo Renzi presenterà alla Direzione del PD al fine di ottenere il mandato per il prepensionamento del governo Letta e nei colloqui che da giorni s’intrecciano tra i diversi partiti e con il Quirinale, il tema della formazione del prossimo governo è sostanzialmente limitato alla staffetta tra Letta e Renzi. Ora che anche Alfano, vicepremier e stampella di destra del governo centrista ha mollato senza alcun garbo Letta, il certificato di morte per il governo del conte zio è già stilato.
Nessuno ne soffrirà, ci sentiamo di escludere un momento di cordoglio nazionale per la scomparsa di un Esecutivo tra i più inutili della seconda Repubblica. Il rilancio che il premier ha promesso è quasi più saporifero e inutile di quanto fatto finora, ma che Letta s’impunti sulla sfiducia in Parlamento è mossa di abilità democristiana. Sfida Renzi a proporre qualcosa e non collabora all’operazione, pur conscio che il margine di manovra è inesistente. Alfano lo ha mollato, il PD firmerà una cambiale in bianco al suo segretario e né Renzi, né Napolitano, vogliono andare ad una conta in aula. Letta junior ha capito bene e la sua stessa conferenza stampa ha avuto il tono dei saluti; non alzerà le barricate ma le richieste sembrano ben più che l’onore delle armi.
La mossa di Letta, infatti, in qualche modo mette Renzi all’angolo. Non può tornare indietro per non dimostrare debolezza, ma andare avanti significa infilarsi in uno dei riti più antichi e penosi per la politica italiana: la staffetta. Per chi si vende come il nuovo che rottama il vecchio, è l’inizio peggiore. Non a caso un sondaggio di Sky indica il parere contrario di oltre il 65% degli italiani. Forse il vanitosissimo giovanotto dimostrerà da solo come sia stato fin troppo sopravvalutato. Appassionato di volo sembra aver smarrito la lezione di Icaro.
Ma aldilà delle schermaglie procedurali e delle dichiarazioni di possibili mosse ammantate di strategie, utili solo per riempire i tg e dare in pasto all’opinione pubblica la sensazione di un momento serio nella vita della Repubblica, le questioni future riguardano la compagine governativa, le possibili alleanze e le eventuali scadenze istituzionali. Renzi, nel caso deciderà di andare fino in fondo, otterrà un voto di fiducia ampio, garantendo agli eletti che continueranno a ricevere stipendio e accessori fino al 2018, ma si guarderà bene dal proporre soluzioni di continuità nelle politiche economiche e sociali che da Monti a Letta hanno steso l’Italia al tappeto. Parlerà di flemma e insipienza da parte di Letta ma non dirà cose diverse.
L’obiettivo è Palazzo Chigi, sia come sia. L’appetito del sindaco di Firenze è noto ed un boccone come il semestre italiano di presidenza UE lo ingolosisce assai. D’altra parte non è l’unico piatto apparecchiato, dal momento che ha già detto che manterrà comunque sia la carica di Sindaco di Firenze che quella di Segretario del PD. Ma non c’è rischio di sovraccarico di lavoro: i fiorentini nemmeno si ricordano cosa sia un sindaco dai tempi di Dominici e il PD si sgoverna da solo, non c’è nemmeno bisogno di evocarlo se non nelle sedute spiritiche.
L’accelerazione di questi ultimi giorni indica che Renzi ha deciso di ridisegnare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. Con la consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.
Si tratta però di vedere come si riassettano i poteri forti; come cioè il subentro di correnti ed aree rispondenti a precise lobbies d’interessi possa darsi senza infliggere colpi mortali agli attuali inquilini. In questo senso la rottura troverà comunque una continuità nella rappresentazione degli interessi che governano il paese.
Perché una cosa è certa: l’eventuale governo Renzi non porterà nessun radicale cambio di politiche economiche e sociali, meno che mai di politica internazionale. Non indicherà nessuna inversione nell’indirizzo dei flussi di spesa pubblica e nessun cambio di marcia nella politica economica, nonostante, nel suo ultimo rapporto, l’Istat racconti bene il disagio e la fatica di vivere in Italia per chi non fa parte di quella quota di rendita parassitaria, imprenditoria vincente e professionismo ultra retribuito del Paese.
Il 35,6% dei giovani non ha lavoro, una famiglia su quattro vive una situazione di disagio economico e sociale (ma al Sud la quota arriva al 41%) e la tassazione è ormai arrivata al 44,1%, cioè il 3,6% in più della media europea. L’evasione fiscale ci pone al primo posto nel mondo e il costo della corruzione è circa il 50% di tutta quella europea.
Il lavoro nero aumenta a dismisura e il 65% delle imprese usa irregolari, contribuendo non poco al totale, enorme, dell’evasione contributiva. La spesa per l’istruzione e l’innovazione è ferma al 4,2% del PIL contro la media europea del 5,3, mentre aumentano furti (più 15%) e rapine (più 5%). L’emergenza è ormai la caratteristica complessiva del nostro welfare, con la sanità che subisce tagli su tagli, la cultura che viene trasformata in variabile decimale invece che volano straordinario del nostro Paese (che da solo detiene quasi il 50% del patrimonio artistico di tutto il mondo), il finanziamento della ricerca scientifica ridotto ormai a barzelletta e l’assistenza definitivamente consegnata ai privati e che incide pesantemente in una popolazione che ha un numero di anziani seconda solo alla Germania in Europa. E dunque che sia Letta o Renzi cosa mai può importarci se le politiche sono le stesse?
L’inversione brusca, ormai non più rinviabile, di una politica economica che sposti dal lavoro alla movimentazione dei capitali il peso della tassazione, consentendo così con la riduzione drastica del cuneo fiscale la ripartenza dell’occupazione e, con essa, quella dei consumi, non ha licenza d'esistere nel pensiero unico. La costruzione di una politica industriale, l'immissione di investimenti pubblici e privati che riapra il circolo virtuoso di riorganizzazione della produzione, distribuzione e consumo interno e permetta anche la conseguente riduzione delle importazioni a tutto vantaggio della bilancia commerciale, sembra però non riuscire ad essere nemmeno immaginata.
L’idea di ridurre le spese militari e gli sprechi della politica e della pubblica amministrazione e d’investire in un grande piano di riqualificazione del Paese attraverso il riassetto idrogeologico del territorio, potrebbe produrre non solo sicurezza dei cittadini e occupazione ma anche la drastica riduzione dei miliardi di euro annualmente spesi per gli interventi emergenziali.
Il governo Renzi, come quello Letta e prima del suo Monti, sarà invece impegnato a misurare nella quota di spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi le cifre delle strategie economiche. Addirittura è allo studio un progetto di legge che con il denaro pubblico garantisce le banche che non dovessero riprendersi dalla quantità di titoli spazzatura tutt’ora detenuti. Non ci sarà nessuna rinegoziazione del debito e meno che mai la rinuncia al fiscal compact, che prevede, ogni anno, un importo di circa 45 miliardi di Euro come quota di restituzione del debito. La cifra non è raggiungibile e rende, semplicemente, impossibile tracciare qualunque futuro per i prossimi venti anni del nostro paese.
Renzi ci parlerà però di riforme istituzionali e di legge elettorale; ci proporrà l’Italicum, versione appena meno peggiore del Porcellum ma ugualmente lesiva della Carta costituzionale. Nella peggiore tradizione democristiana, chi ha vinto il congresso eredita Palazzo Chigi. Più che Obama, sembra Don Camillo.
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di Rosa Ana De Santis
Una città semi blindata tra la sicurezza pre derby e l’annunciata marcia dei forconi per una domenica che è stata invece di ordinaria tranquillità. Le tifoserie hanno rischiato di diventare più incandescenti delle protesti presunte popolari. I primi lanci di agenzia parlano di una manciata di una decina di persone e di un breve corteo partito da Piazzale dei Partigiani dove era previsto il presidio. Il leader del Movimento, Danilo Calvani, arriva a parlare di un 3.000 persone radunatesi nei giorni anche precedenti alla domenica della marcia, ma il flop di partecipazione arriva nonostante le conte aritmetiche.
Certo è che, per fortuna, il clima di tensione che sembrava i forconi potessero portare per le strade della Capitale non c’è stato e persino il presidio è stato smantellato per motivi logistici non ben chiariti. Qualche blitz nella città, l’arrampicata scenografica sulla Piramide e una delegazione spedita a Montecitorio con il manifesto di un’opposizione spontanea e forsennata contro “tangentisti e corrotti” di Governo, recitando il ritornello del “popolo è sovrano”.
La protesta della domenica bestiale si è conclusa con una pesante spaccatura all’interno del movimento tra il leader, contestato, e chi voleva osare di più contro il cordone delle forze dell’ordine e sotto le sedi istituzionali. A Piazzale dei Partigiani quindi, la sera della domenica tanto attesa della marcia su Roma, i forconi hanno iniziato a pagare il prezzo di una forte disorganizzazione interna che altro non è se il segno di una non chiara identità.
Un manipolo di esasperazione popolare, uno sfogatoio improvvisato e aggressivo che non fa che accendere il potenziale di malcontento senza aggiungere nulla allo scenario della crisi nazionale. Non fosse intriso di personaggi davvero squalificati, potremmo considerarlo la versione destrorsa di un Movimento Cinque Stelle che però, per quanto populista nell’anima, ha scelto la strada dell’alfabeto politico e degli strumenti che pur con tutte le derive plebiscitarie online che conosciamo, rimangono democratici almeno all’esterno del movimento.
I manifestanti cantano l’Inno nazionale e sventolano il tricolore, ma non ci stanno ad essere etichettati come contigui all’estrema destra di ogni fattura. Eppure non sfugge a qualche fotografo un braccio teso che richiama il saluto fascista, se pur smentito subito dopo come mal interpretato.
Nella giornata di lunedì la protesta si sposta sotto il Palazzo di governo e una folla non ben governabile rimane sotto le finestre ad urlare e, non si capisce bene il perché, a tentare di oscurare le telecamere dei giornalisti presenti. Il flop dei numeri, aldilà dei tentativi di malcelarlo da parte del leader che parla di “persone vere”, viene offuscato dalla ideazione spot di nuovi presidi, imprevedibili, disorganizzati e rischiosi per l’ordine pubblico, che muovono poliziotti e stampa. A coronare l’alto tasso di confusione c’è stato addirittura, nei due giorni della protesta, l’appello allo Stato del Vaticano con l’occupazione di Santa Maria Maggiore.
La protesta dei forconi è certamente il prodotto doc di un paese flagellato, ma nella sua pochezza programmatica che non risparmia nemmeno le forme di protesta più aggressive e confusionarie, produce, almeno ad oggi, più folclore che timore. Quali possano essere le evoluzioni è difficile da prevedere, quali echi risveglino, se pur con un’organizzazione maccheronica e una leadership fiacca e sprovvista di qualsiasi pathos oratorio che possa plasmare gli animi, è altrettanto semplice immaginarlo. Oggi, questo è il dato sicuro, invece dei forconi che bloccano strade e riempiono Tg, bastava Pasquino.
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di Fabrizio Casari
Sdegno diffuso quanto generalizzato e, obiettivamente, comprensibile. Le intemperie verbali dei grillini, cui si aggiungono le cialtronerie del web, generano fastidio. Difficile separare forma e contenuto quando la prima prevale mediaticamente e altrettanto difficile è associarsi a battaglie, alcune giuste, che vengono condotte però nel peggiore dei modi. Non vi sono dubbi che in una politica che non può fare a meno della comunicazione, il come ha molto a che vedere con il cosa e viceversa, l’intreccio è inevitabile.
Difficile, però, associarsi alla levata di scudi sulla mancanza di garbo senza tenere conto delle questioni di contenuto che vi sono sotto, sopra e anche ai lati. Stabilire chi ha cominciato prima è di scarso interesse se non si vuole concorrere ad una nuova edizione dello Zecchino d’oro. Se dunque si vuole superare la dialettica del “colpa mia- colpa tua” si deve per forza cercare di capire chi muove cosa e con quali scopi.
Cercare invece di far passare la forma come sostanza è un trucchetto di regime per celare la sostanza di alcuni provvedimenti, decisamente molto più violenti e non meno volgari della forma di alcune proteste. E allora servirebbe un sussulto di ragionevolezza e proporzionalità nel proseguire della polemica politica: perché se da sempre bruciare libri ricorda orrori nazisti, scambiare la goliardia volgare per il fascismo è roba da apprendisti stregoni. Spiace che alcuni colleghi ci caschino con tutte le scarpe. Confondere la marcia su Roma con il marcio su Roma non è sbagliare genere, è sbagliare mestiere.
La Presidente Boldrini, contro la quale i grillini si scagliano, deve quindi trovare la solidarietà di tutti contro le aggressioni verbali di cui è vittima, ma con altrettanta chiarezza deve avvertire il dissenso profondo per la gestione da dirigente politico del suo ruolo istituzionale. La scelta di utilizzare la ghigliottina contro l’ostruzionismo parlamentare è gravissima, perché priva i parlamentari di una delle più importanti prerogative e consegna al governo la direzione legislativa. Non a caso nemmeno altre presidenze, pure esercitate con piglio autoritario, mai erano arrivate all’utilizzo di questo strumento.
Gli insulti sessisti e volgari sono inaccettabili, certo: ma la terzietà e il ruolo di garanzia istituzionale del Presidente della Camera va ricordato sia che ai suoi avversari che a lei stessa. Se lei per prima vi rinuncia per intraprendere una battaglia politica che non andrebbe svolta, non si può poi chiedere il rispetto di quel ruolo da lei stessa non rispettato (la difesa dei parlamentari) e la solidarietà si ferma quindi allo stile, ai modi, ma non arriva alla sostanza del suo agire.
I grillini non sono certo avvezzi a battaglie parlamentari e la politica nel senso classico del termine non trova applicazione nel loro quartier generale. Non sembra esserci, nel M5S, contezza piena della posta in gioco e, anzi, la ricerca della maggiore visibilità possibile sembra entrare in contraddizione con la capacità di attrarre il numero maggiore di consensi. Rimettere in sesto i sondaggi con le provocazioni è dopante, non lungimirante.
Il dissenso è cosa seria. In alcuni casi addirittura serissima, a volte drammatica. Dissentire rappresenta il primo passaggio all’età della consapevolezza, lo si potrebbe definire come l’infanzia dell’opposizione. Ma dissentire, opporsi, è anche - forse soprattutto - costruire consenso, generare adesioni e simpatie diffuse. Il fine è quello di ampliare il numero di chi non resta in silenzio, di chi protesta, di chi rifiuta l’obbedienza come rito salvifico ed ipocrita del rispetto dei ruoli prestabiliti tra governanti e governati.
La costruzione di un’area più vasta di opposizione dovrebbe essere quindi anche l’obiettivo del M5S. Che però, per ora, sembra privilegiare la dialettica dell’insulto, dell’aggressione verbale, della volgarità dei toni e dei contenuti che sposta più sulla cultura delle curve negli stadi che nel linguaggio delle organizzazioni politiche il bilanciere della sua esistenza. E’ anche vero, però, che quello del M5S lo si può definire in molti modi tranne che un progetto politico classicamente inteso, dunque sarebbe pretenzioso accollargli responsabilità e funzione pedagogica di massa proprie di tale dimensione.
Il solco culturale nel quale si muove il M5S non esalta, diciamo. Dire alle deputate del PD che la loro carriera è stata costruita sulle prestazioni sessuali dimostra come la volgarità si sia impadronita dei neuroni. Rilanciare battute fetide a sfondo sessista denuncia la carenza seria di argomenti, l’impossibilità congenita di attori di terza fila improvvisatisi star di reggere un copione.
Sostengono, i teorici del web quale nuova Agorà, che la Rete è libera, che non si possono evitare le incursioni di chiunque abbia uno schizzo d’odio da spacciare. Ma per un raggruppamento che sul modello nordcoreano fa della venerazione del capo l’alfa e l’omega della sua funzione politica, che dalla esasperazione comica del concetto di disciplina (al cui confronto il centralismo democratico sembra una sorta di anarchia organizzata) ne fa discendere carriere e ruoli, quella della mancanza di controllo è il più ridicolo degli ossimori.
E siccome separare il grano dall’oglio è affare di sapienza antica, a quelli che riescono ancora a discernere, a non provocare un frontale tra contenuti e forma, spetta però, insieme alla denuncia dello squallore verbale dei teorici oppositori, non rinunciare ad incolpare i responsabili della ragnatela velenosa governi sta che, sul nuovo mantra della stabilità, soffoca l’Italia.
Gli spetta perciò il compito si di denunciare lo schifo, senza però per questo assolvere gli schifosi veri, che da anni girano il coltello arroventato nelle ferite del paese. Non è colpa dei grillini se siamo ridotti in stracci, se l’Italia ha perso perfino la dignità di Paese, se siamo ormai considerati alla stregua di un protettorato di Bruxelles, una sorta di Puerto Rico dell’Europa. La vergogna degli ultimi governi che tutto hanno venduto dopo aver tutto comprato non va taciuta e i grillini non sono il problema, ma la conseguenza.
Sbaglia quindi chi ne denuncia il pericolo. Sia chi scambia le lucciole dell’impotenza con le lanterne della minaccia, sia chi utilizza le volgari sbrasonate per compattare un quadro politico e mediatico ormai non più sopportabile. Il potere è un Re che non si denuda mai del tutto. La malattia dell’Italia non sono i Grillo, semmai i Mastrapasqua. I grillini, ahinoi, partono per affondare ma generando ricompattazione del blocco parlamentare, risultano alla fine essere una ciambella di salvataggio.
L’assenza di una qualunque identità della sinistra nei banchi di Montecitorio e Palazzo Madama è la naturale conseguenza dell’assenza della sinistra dal Paese, a sua volta coerente ricaduta dell’assenza di una qualunque idea di sinistra. I fantasmi che si fregiano del titolo sono solo cordate furbe di ex di tutto e perenni candidati del nulla. In assenza di una sinistra capace anche solo d’immaginare un’alternativa sociale e politica davanti allo sfascio dell’Italia per gli appartenenti a quel 60 per cento che non riunisce la ricchezza del 10, è inutile dipingere il quadro con i soli colori del garbo istituzionale e del bon ton.
Non sono i grillini ad avvelenare il clima e non saranno i grillini, da soli, ad indicare la rotta per il cambiamento delle politiche pubbliche. Non hanno nemmeno loro nessuna possibilità di costruire un’alternativa perché non la sanno nemmeno immaginare. L’insulto, le sceneggiate, fanno perdere di vista le porcate in serie di provvedimenti che per decenza non andrebbero nemmeno presentati e si rivelano parte di uno show mediatico, di una iniziazione goliardica dal sapore rancido, tipico di chi usa l’odio per farsi una fama sulla quale magari costruire una carriera. Peggio che volgari, purtroppo sono innocui. E il Paese va a picco.
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di Rosa Ana De Santis
Il linciaggio è iniziato sul web con il video “ironico” sulla Presidente della Camera, come ora i grillini lo definiscono, la scorsa settimana al grido di battaglia lanciato dal leader Grillo. E la Rete si è scatenata contro Laura Boldrini. Questa volta è lei il capro espiatorio designato che in una sola notte raccoglie migliaia di messaggi, commenti e offese sessiste di assoluta gravità e una ridicola icona in baffetti hitleriani. La Rete è libera, si difende il Movimento e l’adunata convocata da Grillo è proprio su questa libertà spregiudicata che continua a fondare la propria forza e la legittimità della propria esistenza.
Esiste una libertà che è quella formale e istituzionale degli Stati nazionali moderni, quella per intenderci che non costruisce le società sull’etica, sui manifesti dei valori e sui costumi morali, e ne esiste una che è fatta di pancia e arbitrio senza contegno. Non molto diversa, per intenderci, da quella che ha di fatto autorizzato il Cavaliere Berlusconi e imboscare le sue amanti nei ruolo istituzionali o a sentirsi ab-solutus in nome della legittimazione popolare. Tirannidi sotto traccia, populismi.
Solo che nel caso di Berlusconi avevamo un amorale Re Mida, nel caso di Grillo abbiamo Savonarola e la ghigliottina. Difficile stabilire cosa sia più pericoloso. I Cinque stelle infatti, questa la pericolosa differenza, rivendicano la libertà di essere eretici rispetto a leggi e convenzioni e di poter fare e dire la qualsiasi in “nome del bene e del giusto”: la posizione in cui si trovano come sacerdoti indiscussi della moralità e del buon costume.
E’ questo a renderli estranei ad ogni simpatia: la volontà di epurare il Parlamento secondo criteri valoriali (dettati dal loro guru) e di farlo abusando degli strumenti democratici, confondendo la libertà di espressione con il “pestaggio”mediatico - come ha definito la Presidente quello contro Fazio, Augias e Daria Bignardi che le avevano espresso solidarietà.
Il caso Boldrini è solo uno dei tanti ghigliottinamenti mediatici dei grillini, con l’aggravante simbolica e non solo del sessismo: dagli inviti allo stupro, alla prostituzione, alle più volgari bassezze e violenze. In un Paese afflitto dalla piaga del femminicidio, che tutto questo abbia un’investitura dalle stanze del Parlamento dove questi signori siedono solo grazie al voto dell’esasperazione popolare, è un’aberrazione e un pericolo enorme.
Sarebbe stato opportuno prendere le distanze dalla violenza verbale e invece gli onorevoli a cinque stelle si sono sperticati nell’arringa della libertà di espressione. Il linguaggio sdoganato dai Cinque Stelle e incredibilmente legittimato ormai è un’azione di violenza a tutti gli effetti. Non si sta parlando delle ragioni del governo o delle sue inadempienze, ma di metodo democratico o meno. Al riparo dell’anonimato sul web o della tanto vituperata (per gli altri) immunità parlamentare, niente è più facile che scagliare insulti e odio, sapendo di non dover pagare il conto.
Il Movimento utilizza un linguaggio ad personam, ascrive al singolo problemi di ordine generale, alimenta - in uno stile vistosamente squadrista - la “caccia all’uomo”. Non con la camicia nera e l’olio di ricino, ma con i post su Facebook e con la difesa strenua della non censura. Perché tutti sono titolati a parlare e ad esprimere qualsiasi opinione. Questo spiega il Movimento dei signori qualunque. Quindi anche quanti scriveranno che i campi di sterminio non sono esistiti, o che gli ebrei andavano eliminati, o che i neri e gli stranieri vanno espulsi e lasciati annegare, o che le donne non hanno gli stessi diritti?
Devono fare una scelta gli uomini e le donne cooptati dal guru. Pensano di essere Savonarola nelle parole e negli emendamenti, nello stile e nella policy delle censure, ma si rivelano mandanti di una spedizione anti istituzionale attraverso cui, in nome della giustizia popolare da loro emanata, taglieranno forse un po’ di stipendi d’oro e di privilegi, ma ci lasceranno in cambio una devastazione peggiore: un governo trasformato in una piazza. Quella delle forche. Questo rimane di solito delle repubbliche degli uomini santi.