di Rosa Ana De Santis

Renzi, nel discorso sulla fiducia al Senato, il 24 febbraio, ha come previsto scosso l’uditorio e infranto molte etichette. Dalla mano in tasca, all’eloquio spigliato e diretto, all’improvvisazione preferita al discorso scritto e protocollato. Lo stile Renzi è questo e l’indubbia nota di freschezza una rottamazione di fatto l’ha portata. Tra i numerosi temi affrontati e l’appello al valore della fiducia, più che all’atto squisitamente tecnocratico di governo, Renzi è tornato sulla questione della cittadinanza. Un buon segno.

Aver azzerato il Ministero che fu della Kyenge non equivale, per sfortuna di Salvini e della banda leghista, all’aver derubricato la questione tra le azioni “fondamentali” di questo esecutivo. Renzi invita alla ricerca di una sintesi tra chi vuole una cittadinanza acquisita per nascita e chi vuole dello ius soli una forma moderata che magari la riconosca alla fine di un ciclo scolastico, magari dopo gli anni delle elementari. La questione dei figli degli stranieri apre la porta al discorso generale sui diritti civili in cui Renzi torna a fare appello alla mediazione e alla sintesi. Un passaggio di metodo che non sempre il suo partito, il PD, ha compreso, rimanendo invischiato, dalla questione dei DICO, all’eutanasia, alle coppie di fatto, nelle faide interne tra vetero cattolici e progressisti.

C’è quindi, in questo flash sulla cittadinanza, un importante manifesto di azione politica ancora poco percepito come necessario dalle forze politiche italiane e su cui tanto è da lavorare e tanto il ritardo da recuperare.

Chiude infine Renzi negando l’opposizione tra identità e integrazione e se questo principio vale per i migranti e per le generazioni figlie di questa immigrazione, vale anche quando parla di cultura europea e di anima europea del Paese da riscoprire e da non subordinare alle questioni finanziarie ed economiche, che finora hanno fatto percepire al cittadino italiano medio l’Europa come una censura, una prevaricazione, una causa di impoverimento.

Un discorso quindi lontanissimo dal tono ieratico e tecnico del pallido Letta. Un programma tutto politico che mira ad accendere gli entusiasmi e gli animi. Tutto da dimostrare, ma inopinabile nella sua voglia di rottura.

Rimane da chiedersi come si regolerà il PD che ora si fa renziano per necessità. Rimane da capire che potere eserciterà quella ridicola quota di catto-Udc che sopravvive miracolosamente alle proprie sconfitte elettorali. Ma rimane anche il valore di aver voluto parlare di coraggio, bellezza, di immigrati e donne nei giorni in cui il Paese vede, quasi scioccato,  un terzo governo in carica senza mandato elettorale. La fioritura del Paese da tutto può ripartire tranne che dalla produzione di nuove macerie, come i grillini anelano a fare, e forse il piglio di Renzi darà loro più filo da torcere di quanto non avesse fato il Letta zen. Sarà un bello spettacolo.

Dopo le figure vergognose andate in onda in mondovisione sulla reazione di tanti alla nomina del ministro congolese all’integrazione del vecchio governo, c’era anche bisogno che qualcuno riparasse i danni d’immagine. Nessuno aveva  più talento nel farlo del giovane Matteo.

di Tania Careddu

“Storie di uomini e donne presi a calci e pugni, in molti contro uno, storie di vigliaccherie nostre autorizzate e commesse di nascosto, contro ogni legge prima che contro ogni umanità (..) Mai contare gli esseri umani, mai ridurli a mucchio, sommatoria: sono singole vite, uniche e strapiene di ragioni per affrontare lo sbaraglio di deserti e mari, naufragi e schedature, impronte digitali e pestaggi.

A che grado di sbirraglia abbiamo abbassato giovani poliziotti e carabinieri coetanei di una gioventù d’oltremare da schiacciare, scacciare (…) Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati”. Così Erri De Luca, nella premessa al libro Lager italiani, parlando dei Centri di permanenza temporanea, oggi Centri di identificazione ed espulsione. I quali, secondo la normativa europea e la legge italiana, dovrebbero essere finalizzati ad agevolare il rimpatrio del cittadino straniero, e che, invece, sono risultati fallimentari nel conseguimento dello scopo, svolgendo, di fatto, la funzione di “contenitore della marginalità sociale”.

Come li definisce l’organizzazione Medici per i Diritti umani (Medu) che, negli ultimi due anni, ha effettuato diciotto visite nei cinque Cie italiani (Torino, Roma, Bari, Trapani Milo, Caltanissetta), rilevando frequenti casi di migranti trattenuti per periodi superiori a dodici mesi anche in condizioni di “estrema vulnerabilità e di grave disagio psichico”. Che il prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa non ha fatto altro che peggiorare. Di più: ha contribuito a “esacerbare la violenza e la disumanizzazione di queste strutture.

Del tutto incapaci di garantire il rispetto della dignità umana e i più elementari diritti della persona”. I Medu hanno notato che nel 2013 il ‘sistema Cie’ è sembrato “implodere motu proprio  di fronte a inefficienza, condizioni di vita disumane che alimentano rivolte e proteste disperate, tagli ai budget che pregiudicano anche i servizi più essenziali”. Vedi il Centro di Trapani Milo: al collasso. L’ente che lo gestisce non è più in grado di garantire né gli stipendi dei propri dipendenti né i servizi e i beni di prima necessità. Mancano i kit e la biancheria intima, i farmaci e la strumentazione sanitaria. Carenti gli spazi e le attività di svago. Unica attività ricreativa a portata di trattenuti: “pensare come fuggire”. Il 62 per cento di questi, costituito da un folto gruppo di cittadini del Gambia, trasferito nel Cie dopo gli sbarchi di gennaio, risulta essere richiedente asilo ma il Centro li ha accolti privandoli di ogni tutela e sottoponendoli a un’ingiustificata privazione della loro libertà personale.

Stando ai dati della Polizia di Stato, nel 2013, i migranti trattenuti nei Cie del Belpaese sarebbero 6.016, di cui 5431 uomini e 585 donne. Meno della metà di essi, per l’esattezza 2749, è stata rimpatriata, dimostrando un tasso di efficacia inferiore del 5 per cento rispetto all’anno precedente: 50,5 per cento nel 2012 versus  45,7 per cento nel 2013. Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie, durante lo scorso anno, risulta essere lo 0,9 per cento del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità che, secondo l’Ismu, sono duecentonovantaquattromila al primo gennaio 2013.

I numeri riportati dalla Polizia di Stato segnalano un tempo medio di permanenza di trentotto giorni. Ma, anche per la Caritas i conti non tornano. Dal 1998 al 2012, sono state soltanto 78.081, pari al 46,2 per cento del totale, quelle effettivamente rimpatriate. E però questa inefficienza costa cara: lo Stato spende per la gestione dei Cie non meno di cinquantacinque milioni di euro l’anno. Inoltre, si legge nel Rapporto ‘Tra crisi e diritti umani’, la decisione di prorogare i tempi di reclusione fino a diciotto mesi ha ulteriormente aggravato il sistema: si è passati dai trenta giorni della legge Turco-Napolitano, la legge che ha istituito i Centri, agli attuali diciotto mesi. Risultato: gli effetti non sono migliorati ma si sono aggravati i costi.

L’unica soluzione per il sistema dei rimpatri sarebbe “la chiusura dei Centri, fermo restando che l’identificazione e l’acquisizione dei titoli di viaggio degli stranieri pregiudicati potrebbe aver luogo durante la detenzione in carcere”. Visto che i Cie non aiutano in questa pratica piuttosto assolvono la funzione di ‘sedativo’ delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero irregolarmente soggiornante o dello straniero in quanto tale come un pericolo per la sicurezza. Calmano la paura del diverso.

 

di Carlo Musilli

Dal 2001 siamo arrivati a 14. In media, una legge incostituzionale l'anno sul capitolo giustizia. L'ultimo pronunciamento in ordine di tempo è arrivato sulla norma della Fini-Giovanardi, che dal 2006 equiparava droghe leggere e pesanti, livellando verso l’alto le pene. Giovedì scorso la Consulta ha bocciato questa assurdità, ripristinando la distinzione precedente. Risultato: circa 10 mila persone attualmente in carcere per reati connessi alla droghe leggere potrebbero tornare presto in libertà. Nel frattempo, per molti di loro la vita è diventata un inferno e per l'insieme della giustizia un aggravio di costi pesante e inutile.

Prima della geniale assimilazione di marijuana ed eroina, tuttavia, la galleria degli orrori parlamentari italiani aveva già collezionato una serie di exploit. Il più noto è l'abominio elettorale del Porcellum, dichiarato incostituzionale lo scorso 4 dicembre per le maxi-liste bloccate e lo sterminato premio di maggioranza alla Camera senza alcuna soglia da raggiungere.

La sezione più ampia riguarda però varie leggi ad personam che Silvio Berlusconi ha tentato di far passare negli ultimi anni per risolvere i propri guai giudiziari. Su questi provvedimenti si è espressa pochi giorni fa anche la Commissione europea, che - in uno studio sulla corruzione - li ha definiti un "ostacolo ai tentativi" di produrre norme per garantire processi efficaci.

Fra le trovate ad Cavalierem abolite dalla Corte costituzionale, la prima fu il lodo Schifani del 2003, nella parte che garantiva l'immunità penale alle cinque più alte cariche dello Stato. Seguirono il quasi analogo lodo Alfano del 2008, che sospendeva i processi alle quattro più alte cariche dello Stato, e la legge sul "legittimo impedimento" del premier e dei ministri firmata nel 2010 ancora una volta dall'attuale leader del Nuovo centrodestra, che fu dichiarata parzialmente illegittima dalla Consulta e poi abrogata in toto via referendum. Intanto, era stata giudicata in massima parte contraria alla Costituzione anche la legge Pecorella del 2006, che sanciva l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione in primo grado.

La falce della Corte si è abbattuta poi su una sfilza di altri provvedimenti: da alcuni aspetti della ex Cirielli alla legge per escludere il pm Giancarlo Caselli dalla corsa alla Direzione nazionale antimafia, da parti della Bossi-Fini sull’immigrazione all’aggravante della clandestinità inserita nel "pacchetto sicurezza" targato Roberto Maroni, da una norma dell'indulto del 2003 alla legge che concedeva ai sindaci troppo potere in materia di pubblica sicurezza.

In uno sforzo di suprema ingenuità o smemoratezza, potremmo anche considerare questi scempi legislativi come reperti di una stagione buia ormai alle nostre spalle. Eppure, le persone che li hanno prodotti sono le stesse che oggi vorrebbero vestire i panni dei nuovi padri costituenti, abolendo il bicameralismo perfetto con la trasformazione del Senato e rimettendo mano al titolo V della Carta, quello sugli enti locali. Il tutto in accordo con il Pd (e fra poco il governo) di Matteo Renzi.

Non solo: sabato scorso, dopo esser stato ricevuto al Quirinale dal Capo dello Stato per le consultazioni, il pregiudicato Berlusconi ha anche rilanciato la propria battaglia contro "l'oppressione giudiziaria" che, a suo dire, tormenta non solo lui, ma tutti i cittadini italiani.

A questo punto bisognerebbe porsi alcuni interrogativi. Il primo riguarda la principale riforma istituzionale proposta dai renziani e accettata dai berluscones. Come ricorda Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, in quasi tutte le leggi bocciate nell'ultimo decennio dalla Consulta le ragioni d'incostituzionalità erano state più volte segnalate nel corso dell'iter parlamentare.

Molti di quei provvedimenti, tuttavia, sono stati approvati in tempi brevissimi, dimostrando che il legislatore - quando vuole - non è affatto ostacolato dal bicameralismo perfetto. Al contrario, è stata proprio la struttura bipartita del nostro Parlamento ad aver scongiurato in diversi casi l'approvazione di leggi inique o contrarie alla Carta.  

Inoltre, allargando lo sguardo ad una prospettiva più generale, dovremmo chiederci di quale credibilità possa godere una classe politica che in pochi anni è incappata tante volte nel giudizio negativo della Consulta. E per quale motivo stiamo dando ancora una volta a loro il potere di riformare la Costituzione e la giustizia.




di Fabrizio Casari

Nella relazione che Matteo Renzi presenterà alla Direzione del PD al fine di ottenere il mandato per il prepensionamento del governo Letta e nei colloqui che da giorni s’intrecciano tra i diversi partiti e con il Quirinale, il tema della formazione del prossimo governo è sostanzialmente limitato alla staffetta tra Letta e Renzi. Ora che anche Alfano, vicepremier e stampella di destra del governo centrista ha mollato senza alcun garbo Letta, il certificato di morte per il governo del conte zio è già stilato.

Nessuno ne soffrirà, ci sentiamo di escludere un momento di cordoglio nazionale per la scomparsa di un Esecutivo tra i più inutili della seconda Repubblica. Il rilancio che il premier ha promesso è quasi più saporifero e inutile di quanto fatto finora, ma che Letta s’impunti sulla sfiducia in Parlamento è mossa di abilità democristiana. Sfida Renzi a proporre qualcosa e non collabora all’operazione, pur conscio che il margine di manovra è inesistente. Alfano lo ha mollato, il PD firmerà una cambiale in bianco al suo segretario e né Renzi, né Napolitano, vogliono andare ad una conta in aula. Letta junior ha capito bene e la sua stessa conferenza stampa ha avuto il tono dei saluti; non alzerà le barricate ma le richieste sembrano ben più che l’onore delle armi.

La mossa di Letta, infatti, in qualche modo mette Renzi all’angolo. Non può tornare indietro per non dimostrare debolezza, ma andare avanti significa infilarsi in uno dei riti più antichi e penosi per la politica italiana: la staffetta. Per chi si vende come il nuovo che rottama il vecchio, è l’inizio peggiore. Non a caso un sondaggio di Sky indica il parere contrario di oltre il 65% degli italiani. Forse il vanitosissimo giovanotto dimostrerà da solo come sia stato fin troppo sopravvalutato. Appassionato di volo sembra aver smarrito la lezione di Icaro.

Ma aldilà delle schermaglie procedurali e delle dichiarazioni di possibili mosse ammantate di strategie, utili solo per riempire i tg e dare in pasto all’opinione pubblica la sensazione di un momento serio nella vita della Repubblica, le questioni future riguardano la compagine governativa, le possibili alleanze e le eventuali scadenze istituzionali. Renzi, nel caso deciderà di andare fino in fondo, otterrà un voto di fiducia ampio, garantendo agli eletti che continueranno a ricevere stipendio e accessori fino al 2018, ma si guarderà bene dal proporre soluzioni di continuità nelle politiche economiche e sociali che da Monti a Letta hanno steso l’Italia al tappeto. Parlerà di flemma e insipienza da parte di Letta ma non dirà cose diverse.

L’obiettivo è Palazzo Chigi, sia come sia. L’appetito del sindaco di Firenze è noto ed un boccone come il semestre italiano di presidenza UE lo ingolosisce assai. D’altra parte non è l’unico piatto apparecchiato, dal momento che ha già detto che manterrà comunque sia la carica di Sindaco di Firenze che quella di Segretario del PD. Ma non c’è rischio di sovraccarico di lavoro: i fiorentini nemmeno si ricordano cosa sia un sindaco dai tempi di Dominici e il PD si sgoverna da solo, non c’è nemmeno bisogno di evocarlo se non nelle sedute spiritiche.

L’accelerazione di questi ultimi giorni indica che Renzi ha deciso di ridisegnare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. Con la consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.

Si tratta però di vedere come si riassettano i poteri forti; come cioè il subentro di correnti ed aree rispondenti a precise lobbies d’interessi possa darsi senza infliggere colpi mortali agli attuali inquilini. In questo senso la rottura troverà comunque una continuità nella rappresentazione degli interessi che governano il paese.

Perché una cosa è certa: l’eventuale governo Renzi non porterà nessun radicale cambio di politiche economiche e sociali, meno che mai di politica internazionale. Non indicherà nessuna inversione nell’indirizzo dei flussi di spesa pubblica e nessun cambio di marcia nella politica economica, nonostante, nel suo ultimo rapporto, l’Istat racconti bene il disagio e la fatica di vivere in Italia per chi non fa parte di quella quota di rendita parassitaria, imprenditoria vincente e professionismo ultra retribuito del Paese.

Il 35,6% dei giovani non ha lavoro, una famiglia su quattro vive una situazione di disagio economico e sociale (ma al Sud la quota arriva al 41%) e la tassazione è ormai arrivata al 44,1%, cioè il 3,6% in più della media europea. L’evasione fiscale ci pone al primo posto nel mondo e il costo della corruzione è circa il 50% di tutta quella europea.

Il lavoro nero aumenta a dismisura e il 65% delle imprese usa irregolari, contribuendo non poco al totale, enorme, dell’evasione contributiva. La spesa per l’istruzione e l’innovazione è ferma al 4,2% del PIL contro la media europea del 5,3, mentre aumentano furti (più 15%) e rapine (più 5%). L’emergenza è ormai la caratteristica complessiva del nostro welfare, con la sanità che subisce tagli su tagli, la cultura che viene trasformata in variabile decimale invece che volano straordinario del nostro Paese (che da solo detiene quasi il 50% del patrimonio artistico di tutto il mondo), il finanziamento della ricerca scientifica ridotto ormai a barzelletta e l’assistenza definitivamente consegnata ai privati e che incide pesantemente in una popolazione che ha un numero di anziani seconda solo alla Germania in Europa. E dunque che sia Letta o Renzi cosa mai può importarci se le politiche sono le stesse?

L’inversione brusca, ormai non più rinviabile, di una politica economica che sposti dal lavoro alla movimentazione dei capitali il peso della tassazione, consentendo così con la riduzione drastica del cuneo fiscale la ripartenza dell’occupazione e, con essa, quella dei consumi, non ha licenza d'esistere nel pensiero unico. La costruzione di una politica industriale, l'immissione di investimenti pubblici e privati che riapra il circolo virtuoso di riorganizzazione della produzione, distribuzione e consumo interno e permetta anche la conseguente riduzione delle importazioni a tutto vantaggio della bilancia commerciale, sembra però non riuscire ad essere nemmeno immaginata.

L’idea di ridurre le spese militari e gli sprechi della politica e della pubblica amministrazione e d’investire in un grande piano di riqualificazione del Paese attraverso il riassetto idrogeologico del territorio, potrebbe produrre non solo sicurezza dei cittadini e occupazione ma anche la drastica riduzione dei miliardi di euro annualmente spesi per gli interventi emergenziali.

Il governo Renzi, come quello Letta e prima del suo Monti, sarà invece impegnato a misurare nella quota di spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi le cifre delle strategie economiche. Addirittura è allo studio un progetto di legge che con il denaro pubblico garantisce le banche che non dovessero riprendersi dalla quantità di titoli spazzatura tutt’ora detenuti. Non ci sarà nessuna rinegoziazione del debito e meno che mai la rinuncia al fiscal compact, che prevede, ogni anno, un importo di circa 45 miliardi di Euro come quota di restituzione del debito. La cifra non è raggiungibile e rende, semplicemente, impossibile tracciare qualunque futuro per i prossimi venti anni del nostro paese.

Renzi ci parlerà però di riforme istituzionali e di legge elettorale; ci proporrà l’Italicum, versione appena meno peggiore del Porcellum ma ugualmente lesiva della Carta costituzionale. Nella peggiore tradizione democristiana, chi ha vinto il congresso eredita Palazzo Chigi. Più che Obama, sembra Don Camillo.

di Rosa Ana De Santis

Una città semi blindata tra la sicurezza pre derby e l’annunciata marcia dei forconi per una domenica che è stata invece di ordinaria tranquillità. Le tifoserie hanno rischiato di diventare più incandescenti delle protesti presunte popolari. I primi lanci di agenzia parlano di una manciata di una decina di persone e di un breve corteo partito da Piazzale dei Partigiani dove era previsto il presidio. Il leader del Movimento, Danilo Calvani, arriva a parlare di un 3.000 persone radunatesi nei giorni anche precedenti alla domenica della marcia, ma il flop di partecipazione arriva nonostante le conte aritmetiche.

Certo è che, per fortuna, il clima di tensione che sembrava i forconi potessero portare per le strade della Capitale non c’è stato e persino il presidio è stato smantellato per motivi logistici non ben chiariti. Qualche blitz nella città, l’arrampicata scenografica sulla Piramide e una delegazione spedita a Montecitorio con il manifesto di un’opposizione spontanea e forsennata contro “tangentisti e corrotti” di Governo, recitando il ritornello del “popolo è sovrano”.

La protesta della domenica bestiale si è conclusa con una pesante spaccatura all’interno del movimento tra il leader, contestato, e chi voleva osare di più contro il cordone delle forze dell’ordine e sotto le sedi istituzionali. A Piazzale dei Partigiani quindi, la sera della domenica tanto attesa della marcia su Roma, i forconi hanno iniziato a pagare il prezzo di una forte disorganizzazione interna che altro non è se il segno di una non chiara identità.

Un manipolo di esasperazione popolare, uno sfogatoio improvvisato e aggressivo che non fa che accendere il potenziale di malcontento senza aggiungere nulla allo scenario della crisi nazionale. Non fosse intriso di personaggi davvero squalificati, potremmo considerarlo la versione destrorsa di un Movimento Cinque Stelle che però, per quanto populista nell’anima, ha scelto la strada dell’alfabeto politico e degli strumenti che pur con tutte le derive plebiscitarie online che conosciamo, rimangono democratici almeno all’esterno del movimento.

I manifestanti cantano l’Inno nazionale e sventolano il tricolore, ma non ci stanno ad essere etichettati come contigui all’estrema destra di ogni fattura. Eppure non sfugge a qualche fotografo un braccio teso che richiama il saluto fascista, se pur smentito subito dopo come mal interpretato.

Nella giornata di lunedì la protesta si sposta sotto il Palazzo di governo e una folla non ben governabile rimane sotto le finestre ad urlare e, non si capisce bene il perché, a tentare di oscurare le telecamere dei giornalisti presenti. Il flop dei numeri, aldilà dei tentativi di malcelarlo da parte del leader che parla di “persone vere”, viene offuscato dalla ideazione spot di nuovi presidi, imprevedibili, disorganizzati e rischiosi per l’ordine pubblico, che muovono poliziotti e stampa. A coronare l’alto tasso di confusione c’è stato addirittura, nei due giorni della protesta, l’appello allo Stato del Vaticano con l’occupazione di Santa Maria Maggiore.

La protesta dei forconi è certamente il prodotto doc di un paese flagellato, ma nella sua pochezza programmatica che non risparmia nemmeno le forme di protesta più aggressive e confusionarie, produce, almeno ad oggi,  più folclore che timore. Quali possano essere le evoluzioni è difficile da prevedere, quali echi risveglino, se pur con un’organizzazione maccheronica e una leadership fiacca e sprovvista di qualsiasi pathos oratorio che possa plasmare gli animi, è altrettanto semplice immaginarlo. Oggi, questo è il dato sicuro, invece dei forconi che bloccano strade e riempiono Tg, bastava Pasquino.


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