di Fabrizio Casari

Nella relazione che Matteo Renzi presenterà alla Direzione del PD al fine di ottenere il mandato per il prepensionamento del governo Letta e nei colloqui che da giorni s’intrecciano tra i diversi partiti e con il Quirinale, il tema della formazione del prossimo governo è sostanzialmente limitato alla staffetta tra Letta e Renzi. Ora che anche Alfano, vicepremier e stampella di destra del governo centrista ha mollato senza alcun garbo Letta, il certificato di morte per il governo del conte zio è già stilato.

Nessuno ne soffrirà, ci sentiamo di escludere un momento di cordoglio nazionale per la scomparsa di un Esecutivo tra i più inutili della seconda Repubblica. Il rilancio che il premier ha promesso è quasi più saporifero e inutile di quanto fatto finora, ma che Letta s’impunti sulla sfiducia in Parlamento è mossa di abilità democristiana. Sfida Renzi a proporre qualcosa e non collabora all’operazione, pur conscio che il margine di manovra è inesistente. Alfano lo ha mollato, il PD firmerà una cambiale in bianco al suo segretario e né Renzi, né Napolitano, vogliono andare ad una conta in aula. Letta junior ha capito bene e la sua stessa conferenza stampa ha avuto il tono dei saluti; non alzerà le barricate ma le richieste sembrano ben più che l’onore delle armi.

La mossa di Letta, infatti, in qualche modo mette Renzi all’angolo. Non può tornare indietro per non dimostrare debolezza, ma andare avanti significa infilarsi in uno dei riti più antichi e penosi per la politica italiana: la staffetta. Per chi si vende come il nuovo che rottama il vecchio, è l’inizio peggiore. Non a caso un sondaggio di Sky indica il parere contrario di oltre il 65% degli italiani. Forse il vanitosissimo giovanotto dimostrerà da solo come sia stato fin troppo sopravvalutato. Appassionato di volo sembra aver smarrito la lezione di Icaro.

Ma aldilà delle schermaglie procedurali e delle dichiarazioni di possibili mosse ammantate di strategie, utili solo per riempire i tg e dare in pasto all’opinione pubblica la sensazione di un momento serio nella vita della Repubblica, le questioni future riguardano la compagine governativa, le possibili alleanze e le eventuali scadenze istituzionali. Renzi, nel caso deciderà di andare fino in fondo, otterrà un voto di fiducia ampio, garantendo agli eletti che continueranno a ricevere stipendio e accessori fino al 2018, ma si guarderà bene dal proporre soluzioni di continuità nelle politiche economiche e sociali che da Monti a Letta hanno steso l’Italia al tappeto. Parlerà di flemma e insipienza da parte di Letta ma non dirà cose diverse.

L’obiettivo è Palazzo Chigi, sia come sia. L’appetito del sindaco di Firenze è noto ed un boccone come il semestre italiano di presidenza UE lo ingolosisce assai. D’altra parte non è l’unico piatto apparecchiato, dal momento che ha già detto che manterrà comunque sia la carica di Sindaco di Firenze che quella di Segretario del PD. Ma non c’è rischio di sovraccarico di lavoro: i fiorentini nemmeno si ricordano cosa sia un sindaco dai tempi di Dominici e il PD si sgoverna da solo, non c’è nemmeno bisogno di evocarlo se non nelle sedute spiritiche.

L’accelerazione di questi ultimi giorni indica che Renzi ha deciso di ridisegnare la mappa della politica italiana, togliendo dalle mani di Napolitano la cloche del sistema. Con la consapevolezza di aver vinto le primarie degli elettori ma di non essere maggioranza assoluta tra gli iscritti, il vanitosissimo segretario sa di avere poco tempo per dimostrare di essere in grado di produrre una scossa nel paese e nel suo stesso partito, senza la quale la novità della sua elezione diverrebbe presto uno dei tanti passaggi politici metabolizzati senza traumi.

Si tratta però di vedere come si riassettano i poteri forti; come cioè il subentro di correnti ed aree rispondenti a precise lobbies d’interessi possa darsi senza infliggere colpi mortali agli attuali inquilini. In questo senso la rottura troverà comunque una continuità nella rappresentazione degli interessi che governano il paese.

Perché una cosa è certa: l’eventuale governo Renzi non porterà nessun radicale cambio di politiche economiche e sociali, meno che mai di politica internazionale. Non indicherà nessuna inversione nell’indirizzo dei flussi di spesa pubblica e nessun cambio di marcia nella politica economica, nonostante, nel suo ultimo rapporto, l’Istat racconti bene il disagio e la fatica di vivere in Italia per chi non fa parte di quella quota di rendita parassitaria, imprenditoria vincente e professionismo ultra retribuito del Paese.

Il 35,6% dei giovani non ha lavoro, una famiglia su quattro vive una situazione di disagio economico e sociale (ma al Sud la quota arriva al 41%) e la tassazione è ormai arrivata al 44,1%, cioè il 3,6% in più della media europea. L’evasione fiscale ci pone al primo posto nel mondo e il costo della corruzione è circa il 50% di tutta quella europea.

Il lavoro nero aumenta a dismisura e il 65% delle imprese usa irregolari, contribuendo non poco al totale, enorme, dell’evasione contributiva. La spesa per l’istruzione e l’innovazione è ferma al 4,2% del PIL contro la media europea del 5,3, mentre aumentano furti (più 15%) e rapine (più 5%). L’emergenza è ormai la caratteristica complessiva del nostro welfare, con la sanità che subisce tagli su tagli, la cultura che viene trasformata in variabile decimale invece che volano straordinario del nostro Paese (che da solo detiene quasi il 50% del patrimonio artistico di tutto il mondo), il finanziamento della ricerca scientifica ridotto ormai a barzelletta e l’assistenza definitivamente consegnata ai privati e che incide pesantemente in una popolazione che ha un numero di anziani seconda solo alla Germania in Europa. E dunque che sia Letta o Renzi cosa mai può importarci se le politiche sono le stesse?

L’inversione brusca, ormai non più rinviabile, di una politica economica che sposti dal lavoro alla movimentazione dei capitali il peso della tassazione, consentendo così con la riduzione drastica del cuneo fiscale la ripartenza dell’occupazione e, con essa, quella dei consumi, non ha licenza d'esistere nel pensiero unico. La costruzione di una politica industriale, l'immissione di investimenti pubblici e privati che riapra il circolo virtuoso di riorganizzazione della produzione, distribuzione e consumo interno e permetta anche la conseguente riduzione delle importazioni a tutto vantaggio della bilancia commerciale, sembra però non riuscire ad essere nemmeno immaginata.

L’idea di ridurre le spese militari e gli sprechi della politica e della pubblica amministrazione e d’investire in un grande piano di riqualificazione del Paese attraverso il riassetto idrogeologico del territorio, potrebbe produrre non solo sicurezza dei cittadini e occupazione ma anche la drastica riduzione dei miliardi di euro annualmente spesi per gli interventi emergenziali.

Il governo Renzi, come quello Letta e prima del suo Monti, sarà invece impegnato a misurare nella quota di spread tra i titoli italiani e quelli tedeschi le cifre delle strategie economiche. Addirittura è allo studio un progetto di legge che con il denaro pubblico garantisce le banche che non dovessero riprendersi dalla quantità di titoli spazzatura tutt’ora detenuti. Non ci sarà nessuna rinegoziazione del debito e meno che mai la rinuncia al fiscal compact, che prevede, ogni anno, un importo di circa 45 miliardi di Euro come quota di restituzione del debito. La cifra non è raggiungibile e rende, semplicemente, impossibile tracciare qualunque futuro per i prossimi venti anni del nostro paese.

Renzi ci parlerà però di riforme istituzionali e di legge elettorale; ci proporrà l’Italicum, versione appena meno peggiore del Porcellum ma ugualmente lesiva della Carta costituzionale. Nella peggiore tradizione democristiana, chi ha vinto il congresso eredita Palazzo Chigi. Più che Obama, sembra Don Camillo.

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