di Carlo Musilli

L’Italia ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti. Nel 1993, con un referendum. Siccome però repetita iuvant, ci siamo concessi il bis. Stavolta abbiamo cancellato i “rimborsi elettorali”, ovvero la furbata con cui i finanziamenti erano stati reintrodotti già nel 1994, aggirando la volontà degli elettori stessi. Il provvedimento è stato varato venerdì, per decreto, dal Consiglio dei ministri. 

In sostituzione dei fondi pubblici, dall’anno prossimo entrerà in funzione un nuovo sistema fondato sul contributo volontario da parte dei privati (con un tetto di 300mila euro), che andrà a regime nel 2017. Alle donazioni è collegato un sistema di detrazioni sul reddito imponibile (al 37% tra i 30 e i 20mila euro e al 26% tra i 20mila e i 70mila euro). I cittadini potranno anche destinare ai partiti il 2×1000 dell’imposta sul reddito (Ire). Il decreto prevede inoltre “l'obbligo della certificazione esterna dei bilanci dei partiti”, così da impedire che si ripetano “gli scandali degli anni scorsi”, ha precisato il premier Enrico Letta.

Domanda: perché mai è stato necessario un decreto? La Costituzione stabilisce che il Governo possa utilizzare questo strumento "in casi straordinari di necessità ed urgenza". E' difficile definire "urgente" un teatrino che dura da almeno vent’anni, ma se ignoriamo questo allegro abuso costituzionale – ormai prassi di vecchia data – scopriamo che il decreto approvato ieri ricalca quasi alla lettera il disegno di legge già approvato dal Cdm lo scorso 31 maggio. Un testo passato alla Camera, quindi impantanato in commissione al Senato.

I parlamentari, evidentemente, non erano particolarmente motivati all’idea di tagliarsi da soli i fondi, perciò l’applicazione delle misure rischiava di slittare oltre i tempi previsti. Con il decreto, il Governo obbliga deputati e senatori ad approvare il provvedimento, a meno che qualcuno non abbia il coraggio di votare contro la conversione del testo in legge. Un'eventualità remota: ormai ogni tentativo d'opposizione sarebbe solo controproducente sul fronte elettorale.

In effetti, è proprio su questo piano che si misurano i maggiori benefici dell’abolizione del finanziamento pubblico. E’ significativa l’orgia di tweet che si è scatenata venerdì, a Cdm ancora in corso, con politici di ogni schieramento prontissimi a esultare e a intestarsi il merito di questa “promessa mantenuta”. Il tema è di quelli sensibili, perché parla alla pancia della gente. Non a caso è da sempre uno dei (pochi) vessilli elettorali sbandierati da Matteo Renzi, neoeletto segretario del Pd. Ma siamo davvero sicuri che ci sia tanto da esultare?  

I soldi risparmiati dallo Stato sono certamente un aspetto apprezzabile, ma non particolarmente significativo in termini finanziari. Anche l'obbligo della certificazione esterna dei bilanci è positivo, e anzi viene da chiedersi come sia stato possibile andare avanti decenni senza che a nessuno sia venuto in mente di mettere sul tavolo un requisito minimo di trasparenza come questo. D'altra parte, il decreto consegna il destino economico dei partiti ai privati.

Per quanti militanti generosi e animati da sincera passione politica possano esistere in Italia, è evidente che non sarà il loro contributo a tenere in piedi le macchine burocratiche del potere politico. La gran parte delle risorse arriverà da aziende, consorzi, cooperative, imprenditori e consorterie varie. Quante possibilità ci sono che le loro donazioni, benché volontarie, non siano anche interessate?

Quel tetto di 300mila euro non è affatto basso, e senz'altro non scoraggia chi cerca la scappatoia legale per ungere il politicante di turno. Quando parliamo di partiti non ci riferiamo soltanto a quel migliaio di persone sedute in Parlamento, ma anche ai loro ben più numerosi colleghi che occupano le poltrone dei consigli comunali, provinciali e regionali. E gli scandali a ripetizione degli ultimi anni raccontano di quali amenità siano capaci.

I finanziamenti o rimborsi elettorali sono senz'altro antipatici, ma hanno una funzione precisa: fare in modo che la sopravvivenza dei partiti non dipenda dalle tasche di chi persegue un tornaconto particolare. Il tutto con un corollario non da poco in termini di democrazia: i soldi pubblici aiutano le formazioni minori, quelle con poco appeal per gli sponsor esterni. E' ovvio che se un gruppo di cittadini qualsiasi decidesse di formare un nuovo partito contando solo sulle donazioni private avrebbe molte meno speranze di sopravvivere rispetto agli avversari.

Sulla base di questi principi, altrove il sistema dei finanziamenti pubblici funziona benissimo. In Italia no, perché davanti a una tavola imbandita molti non riescono proprio a trattenersi. Le scorribande con soldi statali dei vari Trimalcioni di provincia sono state possibili finora per la mancanza di un sistema di controllo minimamente severo ed efficace, in grado di esporre al pubblico disprezzo il primo amministratore con in mano una fattura sospetta. Se fossimo riusciti ad imporre regole rigide, certamente avremmo potuto ridurre drasticamente la spesa per i partiti, evitando al contempo di favorire il loro legame con gli interessi dei privati. Abolire in toto i finanziamenti, invece, è stato come ammettere la sconfitta.  

di Maura Cossutta

Il 23 dicembre la legge 833 compie 35 anni: è la legge che ha istituito il servizio sanitario nazionale, pubblico e universalistico, una conquista di civiltà che ci stiamo perdendo. Una legge bellissima, che tutto il mondo ci invidia, figlia dell’articolo 32 della Costituzione e sorella della legge 180 sulla salute mentale e della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Tutte del 1978.

Annata speciale, segnata dalle lotte del mondo del lavoro, dei movimenti ambientalisti e dal movimento delle donne, da una cultura critica che ha costruito soggettività individuali e collettive, che ha cambiato il modo di vivere e di pensare di ognuno di noi.

Ma quella legge è stata tradita, da decenni di rimozioni, errori, ritardi. Era la legge del cambiamento, quello vero, non quello della cosiddetta modernizzazione che accetta le disuguaglianze e la devastazione sociale delle politiche di austerità. Quel cambiamento non è mai avvenuto. La salute doveva essere al centro di tutte le politiche, misura per l’equità e l’efficacia delle scelte, perché il diritto alla salute era considerato il diritto “forte” capace di riconoscere e promuovere tutti gli altri diritti: del lavoro, sociali, civili, politici. La salute come bene comune, capace di opporsi alle logiche del profitto e della speculazione

La sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente erano compiti precisi dell’istituzione sanitaria pubblica, che doveva controllare, che aveva il primato  della responsabilità di fronte ai cittadini. Oggi? Il rischio è stato monetizzato, è vincente il ricatto “o la salute o il lavoro”, i territori - come la Terra dei fuochi - sono avvelenati.

Oggi il diritto alla salute declina le vecchie e nuove disuguaglianze, quelle del censo e della vulnerabilità sociale, quelle del paese di origine. Sono ormai milioni che rinunciano alle cure perché non possono permettersi di pagare il costo dei ticket. E troppi non accedono alla qualità delle cure, perché non conoscono i servizi, o perché sono stranieri senza permesso di soggiorno, o perchè sono costretti ad aspettare i tempi lunghissimi delle liste di attesa.

Altro che qualità e appropriatezza, parole abusate perché mai realizzate.  La tempestività delle cure (che di queste dovrebbe essere un indicatore) segue ormai il ritmo di in una sanità diventata a due velocità:  intramoenia subito per chi può pagare, tempi biblici per chi non può. 

Il nostro sistema sanitario nazionale è devastato dalla scure dei tagli, dallo sperpero delle risorse pubbliche, dall’illegalità. L’ultimo dato: ogni anno la corruzione assorbe alla sanità oltre 1,5 miliardi all’anno, quanto basta per costruire 5 nuovi grandi ospedali modello.

Invece anche Zingaretti decide di tagliare dal prossimo anno 900 posti letto nella città di Roma, mentre i malati al Pronto Soccorso restano anche 10 giorni  sdraiati su una barella, in condizioni indegne di un paese civile, in attesa di essere ricoverati perché i posti letto non ci sono.

Mentre la programmazione resta una parola vuota e l’integrazione socio sanitaria resta solo un capitolo di relazioni ai convegni, saltano tutti i percorsi di cura, lasciando i malati soli a rincorrere gli sportelli delle ASL.

Allora, basta chiacchiere. Chi doveva agire è rimasto fermo e chi invece doveva restare fermo, si è mosso fin troppo. I tecnici cosiddetti “neutrali” oggi dettano il verbo: la sanità pubblica non è sostenibile, serve il soccorso dei fondi privati. E ormai il refrain è canticchiato da tutti: “Non si può più dare tutto a tutti, bisogna cambiare”. A 35 ani di distanza dalla legge 833, la speranza del cambiamento è stata manipolata da questo furore. Chi parla ancora di 833 è ideologico, chi sceglie i sistemi assicurativi è riformatore.

Per questo non bisogna dimenticare, bisogna far ricordare a chi c’era e far conoscere a chi non c’era; bisogna riprendere un pensiero, valori, principi, le ragioni di quella conquista che restano più che mai attuali, ma più che mai inascoltate.

Per il 14 dicembre, proprio per ricordare questa legge, per difendere la sanità pubblica “Se non ora quando? Sanità” ha lanciato on line una petizione e ha organizzato un flash mob davanti all’ospedale San Camillo (circonvallazione Gianicolense 87, ore 12 ndr). Tutte e tutti in movimento! Questo è il nostro slogan. Donne e uomini, giovani, associazioni, operatori, artisti, pazienti si ritroveranno, ognuno con le proprie storie, ognuno con i propri linguaggi, perché per la sanità pubblica il tempo è scaduto. Se non ora, quando? 

di Carlo Musilli

Ancora Imu, ma non dovevamo non vederci più? Purtroppo, ci s'incontra di nuovo. Quello sull'imposta municipale unica è probabilmente uno dei più caotici guazzabugli che la storia fiscale italiana ricordi. Come l'araba fenice, o meglio come uno zombie, ciò che sembrava morto - almeno per il 2013 - torna magicamente in vita. Il peccato originale risiede in una dimenticanza inverosimile: ci si è resi conto solo ora che nel 2013 l'Imu sarebbe stata più salata rispetto al 2012, e quindi le coperture calcolate in base ai versamenti dell'anno scorso risultano insufficienti.

Morale della favola: i possessori di prima casa dovranno pagare qualcosa nei Comuni che hanno aumentato le aliquote. La lista comprende gran parte delle maggiori città: Roma, Milano, Napoli, Bologna, Genova, Palermo e via elencando. In tutto, parliamo di circa 3mila Comuni. E quelli che ancora non hanno messo mano alle percentuali hanno tempo fino al 5 dicembre per farlo.

Il conto finale dovrebbe aggirarsi fra un minimo di 40 e un massimo di 150/200 euro per ogni contribuente, escluse le varie detrazioni. Il calcolo è il seguente: si prende l'importo dell'Imu 2013 (con aliquote superiori allo 0,4% di base), gli si sottrae l'importo dell'Imu 2012 (pagata con le aliquote base) e la differenza la mette per il 60% lo Stato e per il 40% il cittadino. Una spartizione che ha messo sul piede di guerra un po' tutti (sindaci, Caf, commercialisti, sindacati), poiché per mesi il Governo aveva garantito che le casse pubbliche si sarebbero fatte carico di tutti gli oneri sulla prima casa.

In propria difesa l'Esecutivo ricorda che verserà cifre supplementari in favore dei Comuni per compensare il gettito della seconda rata (2,16 miliardi di euro, di cui 1,7 in arrivo entro 20 giorni). I Caf però lanciano l'allarme: fra la pubblicazione del decreto, firmato sabato dal Capo dello Stato, e la scadenza per il pagamento, spostata al 16 gennaio 2014, il tempo è troppo poco.

Intanto, si riaccende il faro sulla prima rata, quella che credevamo di avere ormai sepolto. Il ministro all'Economia, Fabrizio Saccomanni, ha firmato il decreto ministeriale che fa scattare la clausola di salvaguardia a garanzia dell'incasso, con la quale saliranno gli acconti Ires e Irap per le imprese e dal 2015 anche le accise su gas, energia elettrica e alcolici (per una volta, è esclusa la benzina).

In origine era previsto che le coperture per la cancellazione della prima rata arrivassero dalle maggiori entrate Iva legate al pagamento di debiti della Pubblica Amministrazione per 7,2 miliardi di euro, mentre altri 600 milioni erano attesi dalla sanatoria in favore delle concessionarie dei giochi.

Peccato che fino alla settimana scorsa, stando a quanto certificato dal Tesoro, di quei 7,2 miliardi di debiti ne fossero stati pagati poco più di due (circa il 28% del totale). Quanto al capitolo giochi, secondo indiscrezioni apparse in questi giorni sulla stampa specializzata, l'Erario avrebbe riscosso poco più della metà del gettito previsto. Risultato: le previsioni erano sballate e per cancellare una tassa sarà necessario alzarne altre.

Calcolatrice a parte, rimane la politica. Per mesi il Pdl ha fatto dell'abolizione dell'Imu la propria bandiera elettorale, ma dopo la scissione fra Forza Italia e Nuovo Centrodestra le carte in tavola sono cambiate. I primi adesso si producono in un agile colpo di reni, addossando ai partiti con cui hanno governato fino alla settimana scorsa l'intera responsabilità del "pasticciaccio brutto", come lo ha definito il letterato Renato Brunetta. I destrorsi governativi, invece, si barcamenano: il vicepremier Angelino Alfano si è detto "contento" di quanto ottenuto per il 2013, ma non ancora pienamente soddisfatto, annunciando ulteriori ritocchi alla Camera per migliorare il risultato.

Ai Comuni infuriati, invece, Saccomanni ha replicato con la voce del tecnico: "Capisco le vostre ragioni - ha detto - ma lo Stato non poteva che calcolare i rimborsi da pagarvi sulle aliquote base. Se avete deciso per il rincaro, devono pagare i cittadini". Magari, ma è solo un'ipotesi, sarebbe stato meglio accorgersene prima di essere con l'acqua alla gola.

Ora il Parlamento dovrebbe riuscire nell'impresa di trovare una soluzione a tempi di record. Considerata la prassi abituale, anche se la mini-Imu 2013 fosse cancellata, è assai probabile che si trasformi in qualche forma di rincaro per il 2014. Perché, a quanto pare, non esiste un antidoto efficace contro il Fisco-zombie. 


di Fabrizio Casari

Il Senato della Repubblica ha votato la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi. Un voto che rappresenta una prassi consolidata, un esercizio dovuto a seguito di condanne penali o civili che implichino l’interdizione dai pubblici uffici. La sceneggiata delle donne di Forza Italia vestite a lutto, con lui che associa la magistratura alle Brigate Rosse è il degno epilogo di una avventura politica e di costume che del paradosso e della sfacciataggine, dell’ignoranza e del vittimismo, ha fatto il suo marchio di fabbrica.

Comincia ora una nuova fase politica, con la destra italiana sempre più desiderosa di una crisi parlamentare a breve, che consenta di consumare possibili vendette pur a fronte di incerte vittorie. Dal momento però che comunque Berlusconi non potrà essere eletto nella prossima legislatura, la voglia di tornare alle urne vive solo dello sfruttamento emotivo in un arco temporale breve della vicenda berlusconiana, ieri trasformatasi da storia di successo in storia di persecuzione.

La persecuzione, il complotto, le trame e i tradimenti. Questi gli ingredienti della tragedia di un uomo privo del senso del ridicolo, ultra potente che si è cosparso di ridicolo. Un personaggio che ha dimostrato come le condizioni avverse del quadro di sistema rendano impossibile l’elaborazione di una strategia politica capace di ribaltare il piano. Affidatosi ai pasdaran, primi della fila Santanchè e Sallusti, (sempre più identificati come i Rosa e Olindo del biscione), il risultato non poteva essere migliore di quel che è stato. Scarsa lucidità, incapacità di lettura politica, assenza di ragionevolezza nel trattare la vicenda interna sono stati i caratteri principali dell’avventura dal sapore donchisciottesco consumatasi in queste ultime settimane.

A voler ascoltare o anche solo leggere quanto Silvio Berlusconi ha affermato alla vigilia del voto, c’era da domandarsi davvero dove finiva la realtà e cominciava la fantasia, cioè dove il terreno del diritto individuale cedeva il passo all’ego ipertrofico del cavaliere quasi decaduto. Giacché se per il primo aspetto il condannato annunciava un ricorso per la revisione del processo (che a giudicare da quanto anticipava sembrava però una solenne patacca, diffusa al solo scopo di evitare il voto sulla decadenza), su quello della personalità malata si è assistito al tanto peggio tanto meglio.

Lancio di appelli a deputati e senatori affinché non si macchiassero di quello che deve tuttora sembrargli, fondamentalmente, un regicidio. Le ha provate tutte. Alla vigilia ha persino chiesto a tutti di votare in suo favore "in modo da non doversi un giorno vergognare di fronte ai propri figli", ricalcando così la scenetta mediatica di quando giurò sulla testa dei suoi a meri fini elettorali. E pensare che aveva sempre definito le istituzioni politiche come un “teatrino”, salvo non voler a nessun costo veder scendere il sipario.

Deve essere proprio il convincimento che l’applicazione delle norme e delle sentenze giudiziarie, quando riguardino la sua persona, siano un regicidio, dal momento che in un delirio ormai inarrestabile condito con grida manzoniane, il cavaliere di Arcore denunciava un ridicolo colpo di Stato, omettendo che, letteralmente, un colpo di Stato mira a ribaltare un sistema e a cacciare chi lo rappresenta istituzionalmente; nella storia non si è mai saputo che un colpo di Stato viene realizzato per ridurre il margine di manovra di un oppositore.

La stessa pretesa per la quale Napolitano avrebbe dovuto concedergli la grazia è parte del suo convincimento malato di essere al di sopra di tutti e della stessa legge. Perché oltre a rappresentare un atto individuale di clemenza a totale discernimento del Capo dello Stato, sentito il parere del Ministro di Grazia e Giustizia, la grazia non può essere concessa se la persona cui è destinata è sottoposta ad altri procedimenti giudiziari in itinere (e Berlusconi ha altri tre processi aperti).

Oltre a ciò, la grazia viene concessa in presenza di un evidente ravvedimento del condannato, non certo mentre lo stesso accusa magistratura, presidenza della Repubblica, Senato e Camera dei Deputati di colpo di Stato ai suoi danni. Men che meno quando il condannato esalta la figura del suo stalliere mafioso, cui dedica parole di stima per non essersi pentito come già in precedenza aveva fatto Dell’Utri.

Utilizzando l’arcinota metafora del marziano che fosse sbarcato sulla terra e che avesse letto quanto avviene in questi giorni sulla vicenda Berlusconi, ascoltando o leggendo quanto egli affermava e afferma, avrebbe potuto pensare di trovarsi di fronte ad un uomo che, rinchiuso nel braccio della morte, si proclama innocente alla vigilia dell’iniezione letale. Invece, si trattava solo del voto sulla decadenza da senatore del condannato Silvio Berlusconi. Voto che, addirittura, è un ulteriore passaggio garantista verso l’applicazione della sentenza definitiva del quale ha usufruito solo in quanto parlamentare della Repubblica.

Andrebbe semmai evidenziato come, nonostante le reiterate sentenze di colpevolezza, che lo identificano quale diretto responsabile di alcuni dei peggiori reati amministrativi, civili e penali, Berlusconi verrà solo privato del titolo di Senatore della Repubblica, ma non conoscerà né prigioni né confino, non dovendo scontare altro che una leggerissima condanna ai servizi sociali. Per qualche tempo, insomma, dovrà diventare una persona normale colpito da una leggerissima condanna

Sosteneva ieri, in conversazioni private fatte filtrare alla bisogna: “Ricevevo gli uomini più importanti del mondo ed ora mi trovo a dovermi figurare come portatore di vassoi in qualche centro di recupero o di assistenza”. Insomma si è dipinto come statista (dipinto di chiara impronta onanistica) e ha il terrore di diventare un cameriere, ha vissuto tra i ricchissimi e teme di dover incrociare i poverissimi.

La fine dell’immunità, per chi si è arricchito all’ombra di poteri tenebrosi e amicizie politiche, che ha acquistato soprattutto con mezzi illeciti tutto ciò che valeva la pena possedere, coprendosi così con un manto di potere che avvolgeva ogni ganglo del corpo del Paese, rende il momento particolarmente difficile.

Dover abbandonare i sogni monarchici procura in soggetti come Berlusconi la tipica sindrome abbandonica della star del cinema invecchiata e dimenticata, che senza più disporre delle platee adoranti, rivede ossessivamente i film che la videro protagonista illudendosi di esserlo ancora. Il suo amico Putin, non a caso, gli ha ricordato come il sostegno all’inizio è ampio, poi si riduce e infine svanisce.

Ci sono due livelli che s’incastrano perfettamente nella novella berlusconiana: la perdita di prestigio istituzionale e, ancor più sostanziosa, quella dell’immunità parlamentare. I suoi sicari nelle redazioni dei suoi diversi house-organ paventano ordini di cattura che sarebbero pronti ad essere emessi non appena l’immunità dovesse cessare, ma sono solo una parte della guerra mediatico-politica che dichiara un uomo impaurito dalla normalità, terrorizzato dall’associazione tra diritti e doveri riguardante ogni cittadino.

Sono mesi che la condanna definitiva è stata emessa e fin troppo tempo era passato. Ogni possibile manovra destinata a impedirne o anche solo ritardarne l’esecuzione è stata approntata. Per schivare il voto decisivo non si è risparmiato: bombardamento mediatico tramite i suoi sicari nella pubblicistica, minacce dirette e insulti ad ogni istituzione, cambiamento politico della sua formazione, ritiro del sostegno al governo Letta.

A definire ancora una volta la singolarità del caso avevano provveduto le intromissioni non richieste di chiunque, direttamente o no, sia a suo libro paga. Un ciarpame urlante di scarsa dignità. Che non ha aggiunto niente a quanto già si conosceva ma che ha confermato quanto il valore del denaro e del potere sia la condizione perché in un mondo di teoricamente uguali, qualcuno sia più uguale degli altri. Ribadendo con ciò quanto l’assioma secondo il quale “la legge è uguale per tutti” sia, nella migliore delle ipotesi, un simpatico auspicio.


di Antonio Rei

Il premier Enrico Letta inaugura una sua personale rivisitazione della "terza via". In tempi di larghe intese, non si tratta più di trovare un'alternativa tra liberismo e socialismo, o tra keynesianismo e neoliberismo. I due poli fra cui il presidente del Consiglio si destreggia, purtroppo con scarsa agilità, sono altri: rigorismo e antirigorismo. La settimana scorsa, intervenendo all'assemblea di Federcasse, Letta ha spiegato che il suo Governo deve fronteggiare due categorie di avversari: "Chi vuole più spesa e deficit e gli ayatollah del rigore". Il nostro Paese "è stretto fra questi due fronti, e non è facile: abbiamo bisogno di alleati in Italia e in Europa".

Insomma, alcuni ritengono che "il rigore non sia mai abbastanza, ma di troppo rigore l'Europa e le nostre imprese finiranno per morire"; gli altri, gli spendaccioni, non tengono conto di quanto sia importante la stabilità della finanza pubblica, anche perché "l'Italia continuerà ad essere vulnerabile finché non sarà arrivata almeno a un tasso d’interesse del 3% sui bond decennali (attualmente poco sopra il 4%, ndr)".

Il discorso denota uno zuccheroso equilibrismo democristiano, apparentemente difficile da collocare in una qualsiasi delle teorie economiche contemporanee. In realtà, quello che più conta sono le contraddizioni che contiene. Partiamo dalla fine, analizzando l'unico dato concreto fornito dal Premier, ovvero quella soglia psicologica per i rendimenti dei Btp decennali, fissata al 3%.

Forse a Palazzo Chigi non circolano molte tabelle, perché tassi d'interesse simili su quei bond non si sono mai visti, nemmeno quando il Pil era ancora in crescita. In base agli andamenti storici, un valore vicino a quello individuato dal capo del governo è il minimo storico del 3,35%, che risale al 30 settembre 2005.

Il target evocato da Letta è quindi del tutto inverosimile, oltre che inutile. L'aspetto più grave, tuttavia, è un altro. A prescindere dai numeri, il Presidente del Consiglio, di fatto, ha ribadito ancora una volta la vulgata che pone l'economia reale in posizione subordinata rispetto alle esigenze della finanza. "Andrò a Berlino a cercare di parlare all'opinione pubblica tedesca - ha continuato Letta - per spiegare perché l'Europa deve essere solidale. L'Italia ha le carte in regola perché la sua voce sia ascoltata. C'è bisogno di politiche per la crescita. Noi lo possiamo dire perché abbiamo i conti in ordine".

Il punto è proprio questo: da una parte il Premier si scaglia contro i danni prodotti dall'austerity, dall'altra si vanta di aver riportato il deficit italiano al 3% del Pil. Prima sostiene che la priorità sia riattivare una politica europea volta alla crescita, poi rimarca la necessità di tenere "i conti in ordine" e addirittura di lavorare per ridurre ulteriormente i tassi sui Btp. Quando si puntano allo stesso tempo due obiettivi così divergenti è inevitabile mancare entrambi i bersagli.

Bruxelles continua a lamentare un'azione insufficiente del nostro Governo sui conti pubblici, al punto che una decina di giorni fa la Commissione europea ci ha negato il diritto di usufruire della clausola sugli investimenti produttivi per la nostra politica deludente sul fronte del debito (salvo poi lasciare aperto uno spiraglio in vista di privatizzazioni e spending review), e anche dall'Ocse sono arrivate critiche in questo senso.

Intanto, il nostro Paese ha la certezza di un futuro desolante: nel 2014, è vero, usciremo dalla recessione, ma ad attenderci non c'è la crescita, bensì una sostanziale stagnazione, con il numero dei disoccupati destinato addirittura ad aumentare. Tutti mali considerati necessari e accettabili pur di avere "i conti in ordine", che poi in ordine non sono.

E' una storia già scritta, e non c'è lieto fine. Letta simula una qualche forma di ribellione al diktat finanziario europeo, ma nei fatti obbedisce senza nemmeno ipotizzare una protesta reale. In linea teorica, gli uffici di Bruxelles non sono fatti solo per ricevere ordini e reprimende.

Si potrebbe anche litigare, alzare di qualche decibel il tono della voce. Invece di andare in Germania a supplicare maggiore "solidarietà", il Presidente del Consiglio italiano potrebbe almeno provare a mettere sul tavolo l'unica soluzione possibile, ovvero la revisione dei trattati europei, a cominciare dai parametri finanziari stabiliti a Maastricht nell'ormai lontanissimo 1992.

Troveremmo una schiera di alleati su questo fronte, in primo luogo fra i Paesi in cui la politica a trazione tedesca ha creato vere e proprie mattanze sociali (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda). La nostra voce sarebbe ulteriormente rafforzata dal fatto che il prossimo primo luglio inizierà nel Consiglio dell'Unione europea il semestre di presidenza italiana. Purtroppo, il nostro Premier - che sostiene di avere "big balls" - non ha sufficiente carisma, né forza politica, né indipendenza dalle lobby per avventurarsi nell'unica battaglia che avrebbe senso combattere. Ammesso che ne abbia mai avuto l'interesse.


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