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di Carlo Musilli
Nella surrealtà della politica italiana può capitare che la sinistra Pd si schieri su posizioni vetero-liberiste, e che al contempo un ministro destrorso si produca in un discorso di sinistra. E' successo in relazione al caso di Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie, che venerdì ha minacciato di dimettersi se lo Stato deciderà di ridurgli lo stipendio.
A favore di questa sparata si sono espressi il rarefatto Fabrizio Barca e Massimo D'Antoni, già capo della segreteria tecnica di Stefano Fassina. A sorpresa, lo scatto di dignità più significativo è arrivato da Maurizio Lupi: “È un manager efficiente del nostro Stato, ha dimostrato di aver lavorato bene - ha detto il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture -, ma se il padrone, in questo caso lo Stato, decide che rispetto a quello stipendio bisogna dare un segnale anche nella direzione dei cittadini (perché circa 50mila euro al mese non mi sembra che siano pochi), giustamente siamo in un mercato libero. Se Moretti ha altre offerte, se vuole andare alle Ferrovie tedesche, lo può fare tranquillamente”.
Forse sarebbe ancora meglio licenziarlo, giusto per far capire che aria tira ai suoi colleghi manager pubblici, visto che siamo in periodo di nomine. Di certo non si arriverà a tanto, perché Moretti è stato confermato da poco e probabilmente - per ragioni legali - non si riuscirà neppure a toccare i suoi 850mila euro l'anno (contro una retribuzione media dei lavoratori delle Fs pari a 38.500 euro). La discussione innescata dalle parole dell'ad di Fs dimostra però quanto sia provinciale la cultura manageriale italiana e quanta confusione si faccia nel nostro Paese fra pubblico e privato.
Il discorso di Moretti è il seguente: "Credo vogliano tagliare gli stipendi dei super-manager dello Stato. Io prendo 850mila euro l'anno e il mio omologo tedesco ne prende tre volte e mezza tanto. Siamo imprese che stanno sul mercato ed è evidente che sul mercato bisogna anche avere la possibilità di retribuire, non dico alla tedesca e nemmeno all'italiana, ma un minimo per poter far sì che i manager bravi rimangano ad operare là dove ci sono imprese complicate e dove c'è del rischio ogni giorno da dover prendere. Lo Stato può fare quello che desidera, sconterà che una buona parte di manager vada via, lo deve mettere in conto".
Morale: se vuoi un manager bravo devi pagarlo a prezzo di mercato, altrimenti ti arrangi con qualcuno di più scarso. Se ci limitiamo al principio basilare del rapporto fra domanda e offerta, l'esternazione di Moretti non fa una piega. La realtà è però molto diversa, per una serie di ragioni. Almeno quattro.
Primo: l'entità astratta cui fa riferimento Moretti - il mercato - non impone regole assolute nello spazio e nel tempo. Rispetto all'ad di Fs, è vero che l'omologo tedesco guadagna molto di più, ma è anche vero che il suo collega francese guadagna circa un terzo. Ne potremmo dedurre che il manager d'oltralpe sia una mezza calzetta, peccato che il sistema ferroviario francese sia di gran lunga superiore al nostro. I conti non tornano.
Secondo: siamo proprio sicuri che, riducendo lo stipendio, non riusciremmo a trovare un manager allo stesso livello di Moretti? E' davvero un genio ineguagliabile? L'attuale amministratore delegato si attribuisce il merito di aver risanato le Ferrovie, che sotto la sua gestione sono passate dalla perdita di 2,1 miliardi del 2006 al profitto di 16 milioni già nel 2008 (quando è stato lanciato il servizio Freccia Rossa). Il ritorno all'utile è stato possibile grazie a un taglio consistente del personale e a un rincaro delle tariffe pari in media al 7%. Sennonché, ancora oggi il gruppo deve la sua sopravvivenza allo Stato, che versa alle Fs oltre due miliardi di euro (su otto di fatturato) per garantire il servizio universale. Sul fronte degli investimenti, invece, dei 3,8 miliardi stanziati dalle Ferrovie nel 2012, ben 2,4 sono arrivati dal Tesoro (dopo i 3,5 del 2011). Purtroppo, nonostante tutti questi trasferimenti, il gruppo ha un debito di nove miliardi, superiore perfino ai ricavi.
In condizioni simili, è evidente che per guidare le Fs non si richiede alcuna genialità: i risultati sono legati ai soldi che arrivano dallo Stato, mentre i manager devono concentrarsi soprattutto sul taglio dei costi. Un aspetto su cui Moretti si è rivelato piuttosto efficiente, visto che da quando è salito in sella nel 2006 ha ridotto il numero dei dipendenti da 98 a 72 mila.
Terzo: Moretti pretende uno stipendio che risponda a logiche di mercato, ma - di fatto - né lui né la sua azienda sono sul mercato. Le Ferrovie non hanno più il monopolio nel loro settore, ma non devono nemmeno operare in un vero regime di concorrenza, considerando la debolezza di Italo, che ha già un rosso da 76 milioni e un debito di quasi 700 milioni.
Quanto all'amministratore delegato, che oggi si dipinge come uno dei manager più contesi d'Europa, non ha mai lavorato altrove: è dipendente delle Ferrovie dal 1978. Non mettiamo in dubbio che, se si dimettesse, avrebbe decine di aziende del globo terracqueo pronte ad accaparrarselo a suon di quattrini. Ma negli ultimi 36 anni, a quanto pare, non si è fatto avanti nessuno.
Quarto: guidare una società pubblica non è affatto come gestire un'azienda privata. Chi lavora per lo Stato non dovrebbe avere come unico obiettivo il massimo profitto possibile, ma anche e soprattutto l'interesse della collettività, il famoso bene comune. Una meta ancora lontana per le Fs, basti pensare che il trasporto passeggeri regionale è tornato a livelli da anteguerra (chiedere ai pendolari), la sicurezza è spesso discutibile e il costo dei biglietti sale, mentre i treni sono fetidi (aver cacciato chi non sapeva tener lontano le pulci dagli scompartimenti è bastato), sovraffollati e in perenne ritardo.
Se la sente l'ingegner Moretti di affrontare queste sfide, invece di proteggere la propria rendita nel nome di un capitalismo in cui non ha mai lavorato? Se pensa di poterlo fare, probabilmente ha abbastanza senso delle istituzioni e dello Stato da capire quanto ribrezzo abbiano prodotto le sue parole in un momento simile. Altrimenti, come diceva il mitico Biagio Antonacci, "se devi andare, vai".
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di Fabrizio Casari
Il tassello che mancava alla ricostruzione di quel 16 Marzo 1978, quando il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, venne sequestrato dalle Brigate Rosse dopo l’annientamento della sua scorta, è sempre stato quello riguardante l’identità e l’appartenenza dei due individui che, a bordo di una motocicletta Honda, agirono a supporto del commando, bloccando la strada ad eventuali "intrusi".
I dirigenti delle BR, sia Mario Moretti che Valerio Morucci, all’epoca rispettivamente capo nazionale il primo e capo della colonna romana il secondo, hanno sempre negato che i due individui fossero loro militanti, benché la ricostruzione di quei momenti e la stessa testimonianza dell’ingegner Marini evidenziarono come agissero in funzione di appoggio al commando che operò in Via Fani.
I due, infatti, aprirono il fuoco contro l’ingegnere che, come usa dirsi, era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Infatti, incurante, stava entrando con il suo motorino sul teatro dell’azione. Venne accolto da spari. Una caduta salvò la vita dell’ingegnere, che vide però il parabrezza del suo motorino crivellato di colpi.
Nel corso degli anni, quei due individui a bordo dell’Honda vennero assegnati di volta in volta alla criminalità comune, alla ‘ndrangheta, ai servizi stranieri o ai simpatizzanti delle BR, nonostante il deciso e reiterato diniego posto dai capi dell’organizzazione terroristica e le serie perplessità dei magistrati che indagarono sul sequestro di Moro, mai convinti di quella ricostruzione fantapolitica, che appare oggi una ripetuta opera di depistaggio per impedire che le indagini toccassero il nervo scoperto della vicenda Moro.
Oggi però viene a galla la verità, grazie ad una lettera giunta all’ex ispettore di polizia Enrico Rossi, che racconta ora all’ANSA che “tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, a quello che guidava la moto” e che decide di rendere pubblico il contenuto della missiva dell’agente che si trovava sul sedile posteriore.
Così la lettera: “Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Camillo Guglielmi (l'ufficiale del Sismi che si trovava in via Fani all'ora della strage, ndr), con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontrarlo ultimamente...".
La lettera giunse in maniera casuale nelle mani dell’ispettore Rossi nel Febbraio del 2011. Rossi, che ha sempre svolto il suo ruolo nell’antiterrorismo, cerca di andare avanti alla scoperta della verità. Propone ai suoi superiori di andare avanti ed effettuare tutti gli accertamenti del caso, ma si trova davanti un muro di gomma quando chiede di sfogliare gli elenchi di Gladio.
“Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla - afferma l’ormai ex ispettore - predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.
“Nel frattempo - va avanti il racconto di Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche ‘incomprensione’ nel mio ufficio. La situazione si ‘congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia”.
Rossi, spinto anche da un clima fattosi ormai pesante per lui, decide di andarsene in pensione anticipatamente, a soli 56 anni di età. Sceglie di rivelare ora la notizia della lettera e quanto vi era contenuto, insieme ai fatti che seguirono, perché informato “da una voce amica” dell’avvenuta morte dell’estensore della lettera stessa; viene a sapere che le armi sono state distrutte senza che venisse eseguita la perizia balistica si sente quindi ora in dovere di divulgare quanto l’agente aveva voluto rendere noto poco prima di morire.
Fino ad ora si sapeva che il Colonnello Guglielmi si trovava vicino via Fani la mattina del sequestro Moro. A sua detta era stato invitato a pranzo da un suo amico. Sono le 9,15 del mattino. A Guglielmi, uomo dei servizi segreti, sono stati addebitati nel corso delle inchieste diversi ruoli, tra i quali addestratore di Gladio e - come si può leggere nell’archivio della Commissione stragi del Parlamento - dirigente di un gruppo operativo clandestino del SISMI che avrebbe “gestito” i giorni del sequestro Moro.
Sembra ora, con la confessione di uno dei due agenti del SISMI operativi in via Fani, trovare conferma quanto da diverse fonti e per molti anni si è sostenuto: che Moro sarebbe stato rapito era noto ai nostri Servizi. Perché? Perché Moro viene di fatto condannato a morte, prima ancora che dalle BR, dall’allora Segretario di Stato Usa Henry Kissinger, che pochi mesi prima del suo sequestro, in un incontro a Washington, gli dice con chiarezza che il suo tentativo di aprire alla collaborazione del Partito Comunista Italiano viene considerato dagli Stati Uniti un percorso ostile e che non rimarrà senza reazioni.
Non a caso Moro rientra anticipatamente dal suo viaggio negli USA e appare preoccupato e angosciato per i colloqui avuti alla Casa Bianca. Sa che per sopravvivere, politicamente e non solo, deve cambiare linea, ma decide di andare avanti, convinto della bontà e dell’utilità della sua tesi.
Negli anni successivi, durante lo svolgimento delle inchieste, agenti operativi della CIA ribadiranno il concetto: con la sua linea politica, che prevedeva l’unità nazionale e, con essa, l’ingresso del PCI nell’area di governo, Moro era diventato “oggettivamente” un nemico della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ne avrebbe pagato le conseguenze.
Che le BR fossero dotate di un loro percorso autonomo non vi sono dubbi e pensare che fossero solo un aggregato politico manovrato dai Servizi è un errore. Ma che fossero impermeabili agli stessi e che non vi fossero dei punti di convenienze coincidenti tra loro e la guardia pretoriana di quel potere che dicevano voler abbattere, è ormai chiaro da tempo.
Ancor più evidente, però, è il ruolo dei Servizi Segreti italiani, che durante tutta la storia repubblicana hanno operato sempre e solo agli ordini degli Stati Uniti e a sostegno della loro linea d’intervento sulla gestione dell’affaire Italia. Con ogni mezzo possibile, con depistaggi e coperture, con denaro e con armi, con la gestione dello spionaggio ad uso interno, con scandali e alleanze operative con chiunque, ma sempre agli ordini di chi, preso possesso dell’Italia nel 1945, a qualunque costo e con qualunque strage, non l’ha più mollata.
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di Tania Careddu
Nel 2013, centoventotto vittime tra i quindici e gli ottantanove anni. Uccise da uomini violenti. Padri, fratelli, compagni, mariti. Si, perché, secondo quanto è emerso dalla ricerca annuale "Le voci segrete della violenza", effettuata da Telefono Rosa, l’elemento di continuità con gli anni precedenti è che la violenza si consuma all’interno della coppia nel corso di una relazione affettiva (si fa per dire) nel 58 per cento dei casi e dopo la separazione nel 24 per cento.
Una violenza che, prima di essere agita, e quindi fisica nel 22 per cento delle situazioni, anche con oggetti pericolosi, è (sempre) inconscia: psicologica nel 35 per cento delle volte, manifestata con minacce e comportamenti da stalker.
Sale il numero di donne che fa risalire l’origine della violenza al periodo della gravidanza o (e) alla nascita dei figli. Che, anche quando non hanno compiuto diciotto anni, nel 29 per cento dei casi, reagiscono attivamente contro il padre per difendere la madre, facendole da scudo o affrontandolo direttamente sullo stesso piano. Figli vittime della identica violenza: il 31 per cento degli uomini violenti ha, infatti, alle spalle storie di padri violenti e il 18 per cento delle donne è stata, a sua volta, vittima in contesti in cui era sempre la figura maschile a esercitare la violenza.
Fredda e lucida: aumenta la percentuale delle vittime che ne riconducono la causa alla gelosia o alla possessività e all’aspetto economico che si manifesta con impegni finanziari imposti, appropriazione del salario della donna, negazione dell’accesso all’istruzione o al lavoro, privazione deliberata di cibo, vestiario o beni essenziali.
Tutto teso a ledere la libertà e la capacità di autonomia della donna, a esercitane il controllo puntuale. Ad annullarne profondamente l’identità femminile. C’è di buono che le vittime ormai sono più consapevoli ( nel corso del 2013 sono state 1504 le donne che si sono rivolte all’associazione Telefono Rosa) sia delle conseguenze lesive che il perpetuarsi, per anni, della violenza ha causato nella propria immagine interna sia, però, anche della personale capacità di reagire.
Così aumentano, dal 26 al 31 per cento, la somma degli elementi quali la debolezza, la vergogna e la paura di restare sola e pure la quota di quante riconoscono di sopportare la situazione per necessità di carattere economico ma si riduce, dal 18 al 14 per cento, il terrore di subire altre violenze o ritorsioni. Sebbene siano lievitati sia il tempo di esposizione alla violenza sia la ripetitività degli episodi.
Ma se l’Italia non risulta ai primi posti della classifica che l’Agenzia europea per i diritti umani fondamentali (FRA) ha stilato all’interno di una ricerca “Violenza contro le donne - Indagine a livello comunitario”, la più grande, finora, a livello mondiale, non è perché la violenza contro le donne sia in calo quanto perché è spesso considerata un affare di famiglia e c’è più reticenza a denunciarla.
Solo il 27 per cento, infatti, ha dichiarato di aver subito una violenza sessuale dopo i quindici anni. E più paura. Che vede le italiane al primo posto e che non permette di monitorare il fenomeno fino in fondo. Di più: le italiane si classificano al terzo posto nel pensare che la violenza di genere sia comune nel proprio Paese. Nel Belpaese.
Che, questo si, dopo la ratifica, a giugno scorso, della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e quella domestica, ha approvato un decreto legge contenente una serie di misure repressive nonché di tutela delle vittime della violenza. Come a riconoscere che la situazione è grave ma non adeguatamente affrontata.
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di Carlo Musilli
"L'Italia non viene in Europa a farsi dare i compiti a casa: sappiamo perfettamente cosa dobbiamo fare". Dobbiamo fare i compiti a casa. Per quanto autoritaria e indipendente possa suonare, la sparata di Matteo Renzi dopo il vertice a Bruxelles della settimana scorsa non presagisce alcun cambiamento di rotta nei rapporti internazionali del nostro Paese. Ha lo stesso peso specifico delle scenette da libro Cuore cui il Premier-sindaco dà vita ogni settimana nelle scuole.
"Non abbiamo rassicurazioni da dare. Faremo quello che dobbiamo per il futuro dei nostri figli, consapevoli che oggi le priorità sono il lavoro e la crescita". Ottime parole per i titoli dei giornali, peccato che Renzi le dica solo ai giornalisti, non ai grandi burocrati europei. In realtà, a ben vedere, avrebbe sbagliato appuntamento: l'ultima riunione Ue era dedicata agli sviluppi della crisi ucraina, mentre i temi economici saranno affrontati al Consiglio europeo in programma per il 20 e 21 marzo.
Chiacchiere a parte, i fatti dicono che dalla settimana scorsa l'economia italiana è entrata formalmente sotto lo stretto monitoraggio dell'Unione. La Commissione europea ci ha declassati nel gruppo dei Paesi con "squilibri macroeconomici eccessivi", insieme a Slovenia e Croazia. Rischiamo perfino di essere sanzionati se non adottiamo delle soluzioni che piacciano a Bruxelles.
Di fronte a questa prospettiva, c'è da scommettere che di compiti a casa ne arriveranno ancora. Lo spettro che aleggia è quello di una nuova manovra correttiva, che mal si concilierebbe con gli interventi espansivi annunciati ogni giorno da Renzi. Per risolvere il rebus non c'è molto tempo: entro fine aprile l'Italia deve presentare a Bruxelles il Piano nazionale delle riforme e il Def (Documento di economia e finanza). Poco dopo, a giugno, arriverà il giudizio della Commissione sul nostro Paese.
Le richieste dell'Europa nei nostri confronti sono chiare da mesi: ulteriore rafforzamento della correzione del deficit strutturale, ampliamento dell'avanzo primario, incremento della produttività, sostegno alla crescita per ridurre il rapporto debito-Pil. Non è affatto chiaro, invece, come Renzi voglia affrontare la partita: l'unica certezza è che non ha alcuna intenzione di rimetterne in discussione le regole. Fa la voce grossa, ma sa di non spaventare nessuno.
Conviene non farsi incantare dal suo cipiglio propagandistico, perché fra Luglio e Settembre all'Italia toccherà la presidenza di turno dell'Unione Europea, ma con ogni probabilità non sfrutteremo l'occasione per discutere possibili modifiche al trattato di Maastricht, né cercheremo di allentare il cappio del Fiscal compact, che entrerà in vigore dal 2015. Avremmo il peso economico per farlo (sembrerà assurdo, ma continuiamo a essere la terza economia dell'Eurozona). Quello che ci manca è la capacità politica. Intanto, sul fronte interno, attendiamo con ansia i grandi provvedimenti annunciati dal nuovo governo. Oltre alle norme del Jobs act, che saranno illustrate mercoledì, l'attenzione si concentra su due misure assai problematiche: il pagamento "immediato e totale" dei debiti della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese e il taglio da 10 miliardi del cuneo fiscale. In entrambi i casi non è chiaro come e con quali soldi l'Esecutivo intenda mantenere le promesse.
Per i debiti della pp.aa. manca perfino una cifra esatta cui fare riferimento. Renzi parla di "60 miliardi", ma la verità è che nemmeno il Tesoro sa a quanto ammontino i soldi dovuti, perché finora le Regioni non sono riuscite a calcolarli.
Quanto alle tasse sul lavoro, ammesso che da qualche scrigno magico spuntino le coperture, resta da risolvere il dubbio amletico tra Irpef e Irap, ovvero fra la riduzione degli oneri a carico dei lavoratori (per riattivare i consumi) o delle imprese (per favorire produzione e occupazione). Il governo è orientato verso la prima ipotesi, mentre i ministeri dell'Economia e delle Attività produttive fanno il tifo per la seconda. Al momento si può solo escludere il compromesso salomonico: tutte le risorse dovrebbero convergere su un solo tipo d'intervento.
Anche nella più rosea delle previsioni - ovvero ipotizzando che entrambi i provvedimenti abbiano successo - rimane da capire come il Premier intenda armonizzare tutto questo con il Fiscal compact, che dall'anno prossimo restringerà notevolmente il nostro margine di manovra. Le nuove regole sui bilanci europei prevedono che siano ridotte di un ventesimo l'anno le quote dei debiti pubblici eccedenti il 60% del Pil. All'Italia, che arriva quasi al 133%, si richiede perciò una correzione di 3,5 punti percentuali l'anno.
Privatizzazioni e spending review possono contribuire solo in minima parte, ed è quindi difficile ipotizzare di raggiungere l'obiettivo senza una qualche forma di patrimoniale. Speriamo che Renzi abbia le idee più chiare di quanto sembri. Non per noi, né per Bruxelles, sia chiaro. "Per il futuro dei nostri figli".
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di Carlo Musilli
E alla fine il Celeste fu rinviato a giudizio, procurando un'altra grana a Matteo Renzi. Nemmeno il tempo di accogliere con sollievo le dimissioni del sottosegretario alle Infrastrutture Antonio Gentile - il senatore Ncd sospettato di aver fatto pressioni su un quotidiano per occultare un’indagine a carico di suo figlio - che dal Nuovo centrodestra arriva un altro sgambetto a Palazzo Chigi. Il neo-Premier dovrà far digerire alla maggioranza anche l'ultima disavventura di Roberto Formigoni, ex pluri-governatore della Regione Lombardia, attuale senatore di punta degli alfaniani e presidente della Commissione agricoltura di Palazzo Madama.
A partire dal 6 maggio, per decisione del gup di Milano Paolo Guidi, l'ex sovrano del Pirellone sarà processato per associazione a delinquere e corruzione. Insieme a lui altri nove imputati, fra i quali spicca il nome del suo caro amico Pierangelo Daccò, ex consulente di varie aziende sanitarie appaltatrici della Regione Lombardia già condannato a 10 anni per il crack dell'ospedale San Raffaele.
A giudizio, fra gli altri, l'ex assessore regionale Dc Antonio Simone, l'ex direttore generale della Sanità lombarda Carlo Lucchina, l'ex direttore amministrativo della fondazione Maugeri Carlo Passerino e altri cinque imputati tra funzionari e manager sanitari. L’unico proscioglimento nell’inchiesta riguarda l’imprenditore Mario Cannata. Nei prossimi mesi saranno definiti inoltre i patteggiamenti di altri sette indagati, che hanno già trovato l’accordo con la Procura per pene comprese tra un anno e dieci mesi e tre anni e quattro mesi.
La tesi dell'accusa è che per lungo tempo Daccò abbia pagato al Celeste viaggi e comfort extra-lusso (circa otto milioni di euro in tutto), ottenendo in cambio delibere e fondi del Pirellone in favore di una struttura sanitaria a lui collegata. Si tratta dell'ormai celebre fondazione Maugeri di Pavia, che avrebbe incassato soldi regionali per circa 200 milioni di euro, da cui il faccendiere avrebbe sottratto circa 70 milioni, successivamente dirottati come fondi neri in un sistema di società off-shore. La lista delle presunte "utilità" garantite a Formigoni è un inno alla morigeratezza: dalle vacanze ai Caraibi all’affitto della villa Resort ad Anguilla, dalla disponibilità di uno yacht a biglietti aerei per 18 mila euro, fino ad un maxi sconto sull’acquisto di una villa in Sardegna.
La Procura sostiene di aver individuato "tre flussi finanziari": il primo dalle casse della Maugeri ai conti (anche esteri) di Daccò e Simone; il secondo da Daccò e Simone per garantire le "utilità" a Formigoni; il terzo erogato con delibere di Giunta dalla Regione fra 2002 e 2011 nei confronti della Maugeri e del San Raffaele. Secondo i Pm, "non c'è un'altra possibile lettura" alla ricostruzione degli investigatori, al punto che nemmeno le difese avrebbero fornito un'interpretazione diversa.
Ormai da tempo immemore il Celeste smentisce questa ricostruzione, e ieri i suoi avvocati hanno parlato di "un'accusa che non regge al vaglio critico, non solo e non tanto priva di fondamento, quanto frutto di una forzatura del buon senso, delle prove e del diritto". Formigoni sostiene di aver sempre pagato tutto di tasca propria, rimborsando l'amico ogni volta che questi gli anticipava dei soldi. Certo, bisogna credergli sulla parola, perché "quando dai dei soldi a un amico - recitava il ritornello formigoniano -, poi mica gli chiedi la ricevuta". In teoria basterebbe ripescare la documentazione sui movimenti bancari di quel periodo per dimostrare d'aver "sempre pagato", ma nessuno ha ancora visto una sola di quelle distinte.
Oggi come allora, la deduzione naturale non è molto complessa. La sentenza spetta com'è ovvio ai giudici, ma fin qui, nella migliore delle ipotesi, il Celeste non ha ritenuto che il suo ruolo pubblico lo obbligasse a telefonare in banca per dar prova d'onestà davanti ai cittadini. In questo rivela una certa coerenza: non lo pensava al Pirellone, continua a non pensarlo a Palazzo Madama.