di Tania Careddu

“Storie di uomini e donne presi a calci e pugni, in molti contro uno, storie di vigliaccherie nostre autorizzate e commesse di nascosto, contro ogni legge prima che contro ogni umanità (..) Mai contare gli esseri umani, mai ridurli a mucchio, sommatoria: sono singole vite, uniche e strapiene di ragioni per affrontare lo sbaraglio di deserti e mari, naufragi e schedature, impronte digitali e pestaggi.

A che grado di sbirraglia abbiamo abbassato giovani poliziotti e carabinieri coetanei di una gioventù d’oltremare da schiacciare, scacciare (…) Oggi si condannano senza alcun grado giudiziario degli esseri umani a scontare pena in un recinto di appestati”. Così Erri De Luca, nella premessa al libro Lager italiani, parlando dei Centri di permanenza temporanea, oggi Centri di identificazione ed espulsione. I quali, secondo la normativa europea e la legge italiana, dovrebbero essere finalizzati ad agevolare il rimpatrio del cittadino straniero, e che, invece, sono risultati fallimentari nel conseguimento dello scopo, svolgendo, di fatto, la funzione di “contenitore della marginalità sociale”.

Come li definisce l’organizzazione Medici per i Diritti umani (Medu) che, negli ultimi due anni, ha effettuato diciotto visite nei cinque Cie italiani (Torino, Roma, Bari, Trapani Milo, Caltanissetta), rilevando frequenti casi di migranti trattenuti per periodi superiori a dodici mesi anche in condizioni di “estrema vulnerabilità e di grave disagio psichico”. Che il prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa non ha fatto altro che peggiorare. Di più: ha contribuito a “esacerbare la violenza e la disumanizzazione di queste strutture.

Del tutto incapaci di garantire il rispetto della dignità umana e i più elementari diritti della persona”. I Medu hanno notato che nel 2013 il ‘sistema Cie’ è sembrato “implodere motu proprio  di fronte a inefficienza, condizioni di vita disumane che alimentano rivolte e proteste disperate, tagli ai budget che pregiudicano anche i servizi più essenziali”. Vedi il Centro di Trapani Milo: al collasso. L’ente che lo gestisce non è più in grado di garantire né gli stipendi dei propri dipendenti né i servizi e i beni di prima necessità. Mancano i kit e la biancheria intima, i farmaci e la strumentazione sanitaria. Carenti gli spazi e le attività di svago. Unica attività ricreativa a portata di trattenuti: “pensare come fuggire”. Il 62 per cento di questi, costituito da un folto gruppo di cittadini del Gambia, trasferito nel Cie dopo gli sbarchi di gennaio, risulta essere richiedente asilo ma il Centro li ha accolti privandoli di ogni tutela e sottoponendoli a un’ingiustificata privazione della loro libertà personale.

Stando ai dati della Polizia di Stato, nel 2013, i migranti trattenuti nei Cie del Belpaese sarebbero 6.016, di cui 5431 uomini e 585 donne. Meno della metà di essi, per l’esattezza 2749, è stata rimpatriata, dimostrando un tasso di efficacia inferiore del 5 per cento rispetto all’anno precedente: 50,5 per cento nel 2012 versus  45,7 per cento nel 2013. Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie, durante lo scorso anno, risulta essere lo 0,9 per cento del totale degli immigrati in condizioni di irregolarità che, secondo l’Ismu, sono duecentonovantaquattromila al primo gennaio 2013.

I numeri riportati dalla Polizia di Stato segnalano un tempo medio di permanenza di trentotto giorni. Ma, anche per la Caritas i conti non tornano. Dal 1998 al 2012, sono state soltanto 78.081, pari al 46,2 per cento del totale, quelle effettivamente rimpatriate. E però questa inefficienza costa cara: lo Stato spende per la gestione dei Cie non meno di cinquantacinque milioni di euro l’anno. Inoltre, si legge nel Rapporto ‘Tra crisi e diritti umani’, la decisione di prorogare i tempi di reclusione fino a diciotto mesi ha ulteriormente aggravato il sistema: si è passati dai trenta giorni della legge Turco-Napolitano, la legge che ha istituito i Centri, agli attuali diciotto mesi. Risultato: gli effetti non sono migliorati ma si sono aggravati i costi.

L’unica soluzione per il sistema dei rimpatri sarebbe “la chiusura dei Centri, fermo restando che l’identificazione e l’acquisizione dei titoli di viaggio degli stranieri pregiudicati potrebbe aver luogo durante la detenzione in carcere”. Visto che i Cie non aiutano in questa pratica piuttosto assolvono la funzione di ‘sedativo’ delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero irregolarmente soggiornante o dello straniero in quanto tale come un pericolo per la sicurezza. Calmano la paura del diverso.

 

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