di Fabrizio Casari

L’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori è una porcata peggiore di quella della legge elettorale. Che il decreto che vorrebbe abolirlo parli di “tutele crescenti” è poi un paradosso verbale simile a quello delle guerre umanitarie. Le tutele non s’intravedono e, a fare attenzione, si scopre che manca completamente il riferimento al numero di anni d’impiego oltre le quali scatterebbero. C’è una rappresentazione paradossale in tutta la vicenda che recita come la generazione di lavoro passi per la facilità a perderlo. E, non bastasse, i nuovi rapaci del renzismo vorrebbero convincerci che l’articolo 18 impedisce la piena uguaglianza dei lavoratori.

E’ falso, ovviamente. Renzi, da parte sua, ne fa una ragione di sopravvivenza. Se vuole evitare l’offensiva decisa di Bruxelles sui conti pubblici italiani (che da quando lui è a Palazzo Chigi peggiorano vorticosamente) deve dare qualcosa ai teorici della fine della civiltà del lavoro. D’altra parte, il senso di Renzi è qui: non solo annuncia ciò che non realizza, ma realizza quello che negava di voler fare.

Cosa prevede l’articolo 18, che a sentire i cantori del comando padronale impedirebbe un meraviglioso destino per il mondo del lavoro? Prevede che nelle imprese con più di 15 dipendenti a tempo indeterminato, il lavoratore che venisse ingiustamente licenziato possa rivolgersi al giudice che, se lo ritiene vittima di una misura vessatoria, può annullare il provvedimento e ordinarne il reintegro al posto di lavoro.

Attenzione: non sono considerati in questa fattispecie i licenziamenti dovuti a stato di crisi, comportamento illegale o sleale del lavoratore, ristrutturazioni aziendali, cessioni di ramo d’azienda, dismissione o cessione della stessa; l’articolo 18 si applica solo quando un licenziamento viene comminato con arbitrarietà, con spirito vendicativo o ricattatorio; insomma quando è privo di ragioni corrette, quando cioè è ingiusto e discriminatorio.

Abolirlo, quindi, significa in primo luogo voler azzerare la dialettica interna alle aziende tra padroni e lavoratori, abolire il confronto anche quando è ormai tra cannoni e campane, inserire l’arbitrarietà, l’ingiustizia e la discriminazione nel novero dei comportamenti leciti per il datore di lavoro (possibili lo sono sempre stati).

Infine si dice che in un paese con svariati milioni di partite Iva, essendo l’art.18 applicabile solo alle medie e grandi imprese, la sua abolizione non costituirebbe un danno poi così rilevante per l’insieme della forza lavoro impiegata. E’ vero, molte delle piccole imprese sono a carattere familiare e dunque lì il problema nemmeno si pone. Ma se davvero così fosse, se davvero la sua abolizione non avrebbe ripercussioni sostanziali, perché allora tanta pervicacia nel volerlo cancellare?

Denunciare le diverse condizioni di chi può appellarsi all’articolo 18 e chi no, è la scoperta dell’acqua calda: non solo perché ormai il contratto a tempo indeterminato è una chimera o quasi, ma anche perché in buona parte il governo Monti (la cui agenda è stata copiata e incollata da Renzi) ha già parzialmente modificato la norma, dal momento che in diversi casi l’indennizzo con 12-24 mesi di salario può sostituire il reintegro. Ma perché allora, se il fine è quello di equiparare le sorti di tutti i lavoratori proprio per quel senso di giustizia con cui Renzi si addormenta e si sveglia insieme al tweet d’ordinanza, non lo estende a tutti?

Si afferma poi che l’abolizione dell’articolo 18 potrà finalmente riaprire il mercato del lavoro, giacché le aziende, liberate dall’incubo dell’art.18, potranno  riprendere ad assumere a tempo indeterminato. E come mai, se la sostanziale abolizione del diritto al reintegro è già vigente da due anni la disoccupazione cresce? Mettere in relazione diretta la crisi occupazionale con la fine delle tutele per i lavoratori è operazione di pure propaganda ideologica.

Le aziende non assumono perché non investono, non hanno idee, non hanno liquidità, non fanno ricerca, non costruiscono innovazione di prodotto, non ottengono accesso al credito, non riescono a riscuotere i crediti che vantano dalla Pubblica Amministrazione, subiscono una tassazione del lavoro insopportabile, vengono vessate da una burocrazia onnivora e dall’assenza d’interlocuzione politica sul territorio dove operano. Non c’entra niente o quasi l’articolo 18.

E non è nemmeno vero che il datore di lavoro non ha interesse ad avere la libertà di licenziamento, perché “se il lavoratore produce è interesse dell’imprenditore tenerlo”. E’ un altro luogo comune fondato sulla falsità. Il padrone è alla ricerca continua di migliorare i margini operativi e, in assenza di qualità del prodotto, prova ad erodere i diritti dei lavoratori e i costi che li accompagnano.

Il lavoratore, pur se capace, rischia comunque di essere licenziato non appena il padrone individua la possibilità di pagare il suo stesso lavoro ad un costo più basso, sia attraverso l’assunzione di una persona diversa al posto di chi c’era prima, sia con l’introduzione di nuove tipologie di contratto ancor meno costose. Il lavoratore, a quel punto, se legalmente indifeso davanti all’ingordigia e all’arroganza padronale, avrà solo due strade: accettare riduzioni di salario e aumento dei carichi di lavoro oppure andarsene senza nessun indennizzo. La competizione vera diventa solo quella tra chi ha niente e chi solo la disperazione. La giungla è servita.

Non c’é solo, come dice la Camusso, lo “scalpo” da consegnare ai tecnocrati europei. E’ molto di più e anche senza le pressioni della Commissione europea il tormentone della destra vera e di quella travestita di sinistra sarebbe comunque in scena. Quello che si vuole cancellare è l’idea stessa dei lavoratori come detentori di diritti, delle aziende come luogo della società e ad essa soggette per leggi e norme. Il sogno è quello delle "zone franche", dove la legge non entra per legge.

Si vuole abolire la possibilità che di fronte ad una ingiustizia ci si ribelli, che si possa ricorrere alla giustizia; c’è dietro l’idea non confessata (ma basta aver pazienza e l’ascolteremo) della sostanziale inutilità di tutto lo Statuto dei lavoratori in quanto anacronistico. Perché frutto dei rapporti di forza tra le classi di quando esistevano sinistra e sindacati, dunque inutile oggi che le due entità sono rispettivamente scomparse o in crisi profonda.

Questo è il momento della rivincita storica dei padroni e dei politici a loro libro paga: approfittare delle definitiva scomparsa delle idee, dei progetti e dei sogni d’uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale seppelliti sotto il cadavere della sinistra per rimettere il lavoro sotto il tallone del padronato, unico delle componenti sociali a poter disporre di scelte, diritti e privilegi.

Del resto, è quanto già successo con il welfare: una costruzione di sistema di garanzie individuali e diritti sociali a carattere universale che il padronato dovette ingoiare solo per fermare le spinte progressiste e rivoluzionarie che dal dopoguerra alla fine degli anni ’70 correvano per l'Europa. Il welfare era concepito dal padronato come un obbligatorio strumento di battaglia ideologica contro la minaccia dell’estensione sempre più ampia dell’idea di un socialismo possibile. Venuto meno il mondo bipolare, scomparsa dall’orizzonte “la grande minaccia” e scomparsa la sinistra, di quel sistema universale di garanzie si fa volentieri a meno smontandolo progressivamente.

Anzi, proprio sulle ceneri del sistema di garanzie pubbliche s’innesta nei servizi l’irruzione delle nuove forme di accumulazione per aziende private: istruzione, trasporti, salute, pensioni, assistenza, sono ogni giorno meno pubbliche e più private, meno universali e più di censo. Ma togliendo dai diritti pubblici le prestazioni, non viene meno l’esigenza delle stesse, solo le si appaltano ai privati che vi lucrano. Il principio di accumulazione, nella crisi determinata dalla guerra del capitale contro il lavoro, ha proprio nella privatizzazione dei servizi una delle leve maggiormente significative per i profitti. E’ questo il fulcro su cui si regge il nuovo patto sociale.

Non sarà comunque, se passerà, l’abolizione dell’articolo 18 a riuscire a trasformare un capitalismo senza capitali in imprenditoria capace di generare lavoro. Non sarà l'italico capitalismo di relazione (così si chiama quello degli squattrinati che si sentono signori) a poter ricollocare l’economia italiana sotto il segno della crescita. Solo un grande piano d’investimenti pubblici e un’inversione brusca della pressione fiscale tra attività finanziaria e produzione industriale potrebbe innescare la marcia giusta. Quello sull’articolo 18 non è altro che odio di classe.



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