di Fabrizio Casari

Ignazio Marino si è dimesso. L’annuncio del ritiro della fiducia da parte della sua maggioranza consiliare e di alcuni dei suoi assessori ha messo fine all’avventura romana di un Sindaco certamente onesto ma ancor più incapace, una sorta di Forrest Gump all'amatriciana. Non poteva esserci epilogo diverso. La campagna mediatica e politica orchestrata da uno schieramento trasversale non gli ha risparmiato niente e lui, da parte sua, non si è fatto mancare niente.

Dalla sua Panda ai viaggi, alle finte spese di rappresentanza, l’imperizia amministrativa, l’incapacità di governare i processi di modernizzazione della città, la ripetuta, sfacciata reiterazione della sua autoreferenzialità, persino il rifiuto di ammettere come i suoi comportamenti furbetti male, molto male, si sposassero con il rigore etico che andava professando, sono stati l’epitaffio della sua giunta.

Ma non si tratta di imperizia da gaffes ripetute, di noncuranza, di gestione ridicola della sua comunicazione; non solo almeno. Per la scarsa conoscenza dell’amministrazione pubblica in generale e di Roma in particolare, per non cercare le risorse necessarie alla sfida della discontinuità nel personale politico più avveduto e fuori dai giochi, Marino non è riuscito a formare una squadra di persone capaci e politicamente allineate ed ha subito una controffensiva da parte da interi blocchi dell’apparato amministrativo e finanziario della città. Palazzinari e gruppi imprenditoriali che con gli appalti pubblici si sono gonfiati le tasche ed hanno schiantato quelle dei romani, non potevano tollerare che il business del Giubileo non prendesse la strada delle loro aziende.

Per una città con 9 miliardi di Euro di debiti e nessuna intenzione da parte del governo di farvi fronte, Marino era diventato un lusso intollerabile. Vuoi per una città lurida, per il suo sistema ormai in panne, per i suoi problemi ulteriormente aggravatisi durante la sua giunta, era ormai diventato oggetto di scherno in tutti e 22 i municipi della città. Che si divide tra coloro che pensano che sia scemo ma onesto e chi crede che sia onesto ma scemo. E questo è stato possibile sia per la gogna mediatica e politica, sia perché egli stesso ha aggiunto gaffes di comunicazione imperdonabili, riuscendo persino a farsi smentire da Papa Francesco, molto prima e più autorevolmente dei ristoratori della Capitale.

Un Papa che certo non ha gradito l’impegno del Sindaco sui matrimoni gay e più in generale sui diritti civili, che nella città di San Pietro assumono ovviamente un livello di sfida maggiore che in qualunque altro posto e che, proprio per questo, dovrebbero essere supportate da solidità politica e sostegno del suo schieramento più che da foto ridanciane.

Che sia stato colto con le mani nella marmellata sui conti del ristorante e che abbia fornito la scusa che il PD cercava per farlo dimettere e sostituirlo con qualcuno più in linea con il partito di nuova foggia verdiniana, assume un significato quasi simbolico. Ai commercianti simpatico non era di sicuro, visto che la campagna contro “tavolino selvaggio” gli aveva procurato non poche ostilità in una città che ormai vede aumentare a dismisura gli investimenti nel settore della ristorazione, che trasformano lo spazio pubblico in business privato. Nemmeno i vigili urbani si sono risparmiati, dopo che il Sindaco aveva proceduto con l’iniziativa legale contro i furbetti della malattia. O i dipendenti del Comune, che ritengono di aver diritto al salario accessorio per accedere agli uffici.

Ha provato - e in minima parte c’è riuscito - a dare discontinuità, ma provare ad intaccare privilegi ed abusi non è mai semplice e in una città come Roma lo è ancor meno. Quel 63,93 per cento con cui s’impose per la successione di Alemanno, il peggiore dei sindaci della storia della città, era stata una vera e propria investitura popolare, l’esito di una battaglia contro tutto il centro destra e anche contro il suo stesso partito, il PD.

Che Marino non l’ha mai né sopportato né supportato. Presentatosi alle primarie senza che il PD lo volesse, il Sindaco riuscì ad imporsi proprio perché la base elettorale della sinistra vedeva con piacere un personaggio lontano dagli interessi di bottega del partito romano. Interessi che, mesi dopo, con l’inchiesta su mafia capitale, ebbero a palesarsi anche agli occhi di chi si ostinava a non vedere quanto era chiaro da anni.

Con quegli interessi Marino non ha avuto nulla a che fare e sebbene alcuni dei suoi assessori siano rimasti coinvolti nell’inchiesta su Mafia capitale, la sua distanza con l’intreccio criminale tra la malavita e la politica romana non può essere discussa o ridimensionata.

In questo senso, davvero gli spiccioli spesi da Marino in cene familiari che suscitano la finta indignazione nel presidente del PD e nel gruppo consiliare romano, esibiscono una dose d’ipocrisia davvero indigeribile. Finge d’indignarsi un partito in buona misura corrotto e colluso, che ha co-governato con la destra e con il malaffare la gestione degli interessi occulti della città e ha sporcato per sempre l’immagine della buona amministrazione. Peccato mortale per un partito che, quando era di sinistra, a Roma seppe dare un nuovo volto fino a diventare negli anni 80 e 90 un modello per tutti. Oggi, quel che rimane di quel partito avrebbe potuto officiare il rito del ritiro della fiducia al Sindaco con più discrezione.

Perché persino in questo rito consumatosi in una città stremata dai protagonisti del suo sottobosco si sente forte la puzza di bruciato, di collusione e di vendette verso un uomo che, vuoi per onestà o per imperizia, non aveva accettato di mettere nelle mani dei potentati di partito l’Amministrazione comunale. Questo e altro paga Marino. Che a mo’ di Forrest Gump fu Sindaco suo malgrado.

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