di Fabrizio Casari

Il voto del Senato che ha approvato il Ddl Boschi sulla riforma costituzionale ha esaurito il primo dei tre passaggi che dovrebbero sancire la sua entrata in vigore. La riforma, anche da un punto di vista lessicale, ben documenta l’analfabetismo politico dei Renzi boys, e sebbene alcuni singoli punti del testo siano accettabili, è l’impianto generale della riforma che risulta pernicioso e pericoloso. L’assenza delle opposizioni dal voto è un grave errore, dal momento che anche solo in via di principio non prendere parte ad un voto sull’assetto costituzionale tradisce in radice il mandato elettivo.

Politicamente, poi, un risultato che avesse visto l’esito finale con pochi voti di scarto avrebbe minato in profondità la stessa autorevolezza della riforma; ma i tatticismi di bottega hanno avuto, come sempre, la prevalenza. Non sono ipotizzabili modifiche sostanziali alla Camera, mentre è invece auspicabile un rifiuto secco dal referendum popolare che dovrà tra un anno confermare o annullare la riforma.

Renzi twitta entusiasta ricordando che i tempi sono stati rispettati. Già, i tempi. Ci si dovrebbe chiedere il perché di tanta fretta. Perché un governo di comparse e neofiti si ostina a spostare lo sguardo dai problemi economici e sociali di questo Paese per indirizzarsi invece sulle architetture istituzionali? Peraltro il contesto di legittimità nel quale la riforma è stata votata è quanto meno discutibile. Il premier, mai votato, è stato insediato da una manovra di Palazzo e il Parlamento tutto, che ha votato le modifiche alla Costituzione, è illegittimo, giacché eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Di ben altra legittimità politica ci sarebbe stato bisogno per procedere ad una modifica sostanziale dell’architettura istituzionale.

I commenti sono diversi, sia da parte dei cantori del renzismo che dai pochi critici ammessi da un’informazione ormai a ranghi serrati. Nel merito, si può facilmente argomentare come la modifica dei criteri d’eleggibilità, delle funzioni e dei poteri del Senato, rappresentino un pastrocchio inutile, ma sarebbe limitante concentrarsi solo sulla discussione concettuale circa il bicameralismo perfetto o sull’uso che i diversi partiti potranno fare dei posti a disposizione per i consiglieri regionali che, entrando in Senato, diverrebbero titolari di immunità. Il contestuale arresto del forzitaliota Mantovani racconta ironicamente il futuro che incombe.

Il tema centrale è l’alterazione profonda degli equilibri istituzionali. Il venir meno dei poteri di controllo che garantiscono il sistema di pesi e contrappesi che rappresenta il senso della relazione tra potere e controllo dello stesso, unica misura, in fondo, del tasso di democraticità di ogni sistema. La fine dei poteri del Senato (primo tra tutti quello di sfiduciare il governo, ma altrettanto importante è anche quello di non poter più intervenire sulla legge di Bilancio e nella modifica delle leggi di spesa approvate dalla Camera) porta con sè il potere abnorme della Camera.

Un potere che diventa abnorme sia per l’assenza della funzione di controllo senatoriale, sia perché con la riforma elettorale (l’Italicum) - che è parte indissolubilmente legata - la Camera dei deputati sarà formata da una maggioranza assoluta espressione del partito che vincerà le elezioni, magari al secondo turno e con il solo 25% dei voti espressi.

Una Camera blindata a sostegno del Premier, senza nessun contrappeso in termini numerici e politici, semplicemente consegna al Presidente del Consiglio un potere assoluto che non si vedeva dai tempi dell’aula “sorda e grigia”.

E allora è qui che la lettura di questa riforma deve allarmare. Non solo sul piano della cultura democratica, che la scrittura della Carta, intervenuta proprio dopo la sconfitta della dittatura fascista, aveva interpretato come partecipativa e bilanciata negli equilibri istituzionali, ma anche per una legittimità democratica incerta che un governo privo di controlli inevitabilmente rappresenta.

A meno di voler iscriversi alla macchina propagandistica del governo, non si può pensare che la riforma Boschi sia un tentativo di riscrittura delle regole in funzione di snellimento dei processi legislativi e, con questo, dell’affermazione della volontà popolare. Emerge invece, ad una lettura attenta e contestualizzata in un quadro europeo, come la riforma sia sostanzialmente pensata e voluta proprio in direzione contraria.

Abolire il Senato corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. L’operazione politica che vi soggiace, ma che ne rappresenta il senso politico più profondo, è l’indebolimento crescente e progressivo dei poteri dello Stato e rappresenta la volontà di smantellamento del sistema della rappresentanza popolare.

La progressiva dismissione degli organi elettivi, accompagnata ad una reiterazione di governi mai votati, indica con chiarezza come il governo del Paese si ritenga debba essere privo di totale controllo da parte degli elettori e che il suo agire debba essere indirizzato ad una definitiva acquiescenza ai poteri economici e finanziari. Si ritiene l’interesse pubblico ostativo agli interessi dei potentati, alternativo per quanto riguarda la destinazione d’uso delle risorse ed il modello socio-economico che implicitamente prevede. Dunque, si ritiene nocivo agli interessi dei poteri forti il modello politico partecipativo e, con esso, il modello di relazione tra rappresentanti e rappresentati,

Basta vedere il testo del Trattato tra USA ed Europa, il Ttip, che in sostanziale segretezza continua a macinare strada a Bruxelles passando letteralmente sopra la testa dei parlamenti nazionali. Si deve considerare che la sostanza del Trattato prevede che le legislazioni nazionali ed europee non possano prevalere sulla libertà dei mercati e sugli interessi delle multinazionali che i mercati governano. La libertà d’impresa diventa indiscutibile e non circoscrivibile; si afferma con brutale nettezza che le leggi e le norme che disciplinano il sistema non possano mai agire in contrasto con gli interessi delle imprese.

In sostanza, se un’azienda decide d’investire in una attività che in tutta evidenza nuoce all’interesse pubblico, Parlamento e governo non possono legiferare o ricorrere a precedenti leggi per impedirlo. E se l’interesse pubblico diventa secondario, perché quello privato diventa primario, si capisce come le istituzioni deputate per definizione alla salvaguardia dell’interesse pubblico - quindi della democrazia - vengano viste come un elemento inutile o addirittura nocivo, e diventino quindi un ostacolo da rimuovere.

La riforma ha ancora dei passaggi parlamentari e popolari da affrontare. Non si può restare con le mani in mano, magari nascondendosi dietro qualunquistiche letture che vedono la politica come incrostazione normativa, o a sterili considerazioni sulla corruzione che si vorrebbe solo figlia della politica ma che, invece, abita in ogni luogo della nostra società. Serve un colpo di reni per dare il via ad una battaglia per la democrazia che veda nel NO al referendum confermativo il punto di approdo.

La battaglia per ripristinare l’interesse pubblico è la condizione necessaria per cominciare a ripristinare la democrazia in Italia. Ritenere le istituzioni superflue o addirittura dannose apre la strada ad una concezione autoritaria del sistema che in Italia ha già procurato tragedie epocali. Nessuno può chiamarsi fuori e, meno che mai, tacere ora per protestare poi. I diritti che non si difendono, si perdono.









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