L’espressione inglese “elephant in the living room”, elefante in salotto, indica una verità che, per quanto evidente, viene ignorata o minimizzata da tutti. L’immagine descrive bene quello che è accaduto sabato in Campidoglio, dove i capi di Stato e di governo dell’Ue si sono riuniti con i vertici delle istituzioni europee per celebrare i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma. Tanta retorica, tante frasi fatte, tanti impegni vaghi. E una serie di elefanti che tutti hanno finto di non vedere.

La cifra del renzismo è l’occupazione a tappeto delle caselle di potere. L’ex premier si è dedicato a questa attività per anni nelle vesti di presidente del Consiglio e di segretario del Partito Democratico, ma non ha ancora finito. Anzi. Proprio ora che non ricopre più (ufficialmente) nessuna delle due posizioni a lui più care, Matteo Renzi si è prodotto in una memorabile prova di forza. L’occasione è stata l’ultima tornata di nomine ai vertici dei maggiori gruppi a controllo pubblico. 

Con una precipitazione da fare invidia al Bianconiglio, il governo sta cercando in ogni modo di evitare il referendum sui voucher, che in teoria si dovrebbe tenere il 28 maggio. E lo sta facendo nel modo più umiliante per una compagine renziana: affannandosi pur di soddisfare ogni desiderio di chi quella consultazione l’ha promossa, la Cgil. Lo stesso sindacato deriso, marginalizzato e insultato in continuazione da Renzi nei suoi tre anni a Palazzo Chigi. La politica ha le sue nemesi.

Il garantismo non vieta le dimissioni, perché le dimissioni non sono un’ammissione di colpevolezza. Perciò chiedere un passo indietro al ministro dello Sport Luca Lotti, coinvolto nell’inchiesta Consip, non è affatto “sciacallaggio”, come vorrebbe la vulgata renziana. Nessuno nega al ministro la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio: il punto è un altro. Lotti dovrebbe dimettersi dal Governo per vari motivi, tutti politici.

Sono ore decisive per le decisioni in casa PD. La speranza della sinistra interna di trovare nel Renzi sconfitto disponibilità all’ascolto e autocritica si è presto esaurita. Prevale infatti la consapevolezza di come il capo del PD intende rafforzare e non ridiscutere la morsa sua personale e del suo gruppo di fedelissimi su partito e governo.


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