L’espressione inglese “elephant in the living room”, elefante in salotto, indica una verità che, per quanto evidente, viene ignorata o minimizzata da tutti. L’immagine descrive bene quello che è accaduto sabato in Campidoglio, dove i capi di Stato e di governo dell’Ue si sono riuniti con i vertici delle istituzioni europee per celebrare i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma. Tanta retorica, tante frasi fatte, tanti impegni vaghi. E una serie di elefanti che tutti hanno finto di non vedere.



Il più imponente, peraltro, era proprio il pachiderma inglese. La celebrazione in pompa magna dell’unità europea a soli quattro giorni dall’avvio della Brexit stride come un freno arrugginito. Che senso ha esaltare la compattezza dell’Ue proprio mentre la prima democrazia moderna abbandona la nave?

D’accordo, la Gran Bretagna è sempre stata un membro sui generis dell’Unione e il divorzio non interrompe una storia d’amore, perciò saremo in grado di elaborare il lutto senza grossi traumi. Il problema è che l’unità di cui tutti parlano non sembra esistere nemmeno fra i 27 paesi rimasti a bordo.

Mentre Germania, Austria, Danimarca e Svezia hanno sospeso gli accordi di Schengen sulla libera circolazione, l’antieuropeismo guadagna posizioni non alla periferia dell’impero, ma fra i membri fondatori dell’Europa unita.

In Olanda i fascistoidi di Geert Wilders non hanno vinto le elezioni, ma si sono comunque attestati al secondo posto, segnando il loro miglior risultato di sempre, e il liberale Rutte faticherà non poco a costruire una coalizione in grado di governare.

In Francia, a meno di un mese dalle presidenziali, danno tutti per scontato che la leader di estrema destra Marine Le Pen – nemica mortale dell’Ue – arriverà al ballottaggio contro Emmanuel Macron (un apolide non più di sinistra e non ancora di destra). Dal secondo turno Le Pen dovrebbe uscire sconfitta, ma resta il fatto che un francese su quattro è d’accordo con lei.

In Italia, invece, i sondaggi più recenti attribuiscono la palma di primo partito al Movimento 5 Stelle, che non si definisce antieuropeista, ma da anni chiede un referendum consultivo sulla permanenza del nostro paese nell’Eurozona.

In Campidoglio si è parlato poi di “solidarietà europea”, per lo più facendo riferimento alla vicinanza emotiva nei confronti di chi subisce attacchi terroristici. Nulla da dichiarare, invece, nei confronti dell’Austria e dei paesi dell’est (su tutti l'Ungheria) che si rifiutano di accogliere i rifugiati, contravvenendo agli accordi sulla redistribuzione dei migranti.

Gli stessi paesi dell’est – Polonia in testa – sono stati protagonisti del risultato politico più rilevante di sabato. A loro, naturalmente, il progetto di “un’Europa a due velocità” non piace proprio, perché sospettano (probabilmente a ragione) che nasconda la volontà di separare l’Europa di serie A da quella di serie B e temono di essere lasciati indietro. Risultato: hanno chiesto e ottenuto che nella dichiarazione finale il concetto si trasformasse nell’espressione “cooperazioni rafforzate”, che per oscurità ricorda tanto le nostrane “convergenze parallele”.

La Grecia, dal canto suo, ha meno potere contrattuale di Varsavia & Co, ma Alexis Tsipras, minacciando di non firmare il documento conclusivo, è comunque riuscito a ottenere rassicurazioni sul versante dei diritti sociali. Nulla di rivoluzionario, ma comunque un risultato degno di nota per la culla della civiltà europea, oggi ridotta a terzo mondo proprio dalle politiche di Bruxelles.

Insomma, il quadro generale non trasmette davvero un’idea di unità. È quasi una parodia del manifesto di Ventotene. E dire che le idee per invertire il processo di autodistruzione in corso non mancherebbero: “Dobbiamo restituire fiducia ai nostri concittadini – ha detto sabato il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni – C’è bisogno di crescita, investimenti, riduzione delle disuguaglianze, lotta alla povertà, politiche migratorie comuni, impegno per la sicurezza e la difesa”. La strada da percorrere è chiara. In mezzo, però, ci sono gli elefanti.

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