di Fabrizio Casari

La proposta del governo Renzi per l’anticipo della pensione ai nati tra il 1951 e il 1953, più che una soluzione rappresenta un insulto alle condizioni e all’intelligenza dei pensionati. Regali a banche ed assicurazioni da un lato e prelievo ai pensionati dall’altro, la storiella della nonna che si gode i nipotini, pietra miliare della narrazione renziana della prima ora, rischia di diventare la storia dei nipotini che chiedono l’elemosina per i nonni.

Un’intera generazione si trova esodata o rischia di divenirlo: da un lato perché ritenuta troppo anziana per convenire alle aziende, che preferiscono i salari d’inserimento e le mille forme truffaldine che consentono di pagare salari da terzo mondo ai giovani, piuttosto che sostenere stipendi con seniority importanti. Dall’altra quella stessa generazione è ritenuta troppo giovane per accedere alla pensione anticipatamente e si sceglie quindi di lasciarli in mezzo al guado senza nemmeno una scialuppa.

Non si tratta di risorse disponibili. Ci sono scelte di politica finanziaria e di business che intervengono, più che valutazioni sulla sostenibilità del sistema. In effetti, proprio l’incertezza sul quando e quanto della pensione contribuisce a spingere l’accesso dei pensionandi alla previdenza privata complementare, che si alimenta dell’incertezza e/o dell’insufficienza di quella pubblica. La pensione si allontana, quindi, anche perché se si avvicinasse il business si ridurrebbe.

L’ultima trovata del governo Renzi s’inquadra esattamente in questo contesto. Si offre l’anticipo di tre anni a chi può andare in pensione a fronte di una decurtazione pesante del già scarso assegno ma solo tramite un prestito ventennale con le banche. Non sono possibili percorsi diversi.

E qui si pone la pietra miliare del provvedimento: le banche, che hanno ottenuto dalla BCE la liquidità che va obbligatoriamente immessa nel mercato dei prestiti, troverebbero in questa manovra un modo di erogare denaro, sicure del suo rientro. Si dirà: come fanno ad esserne sicure, visto che la salute non è detto consenta a tutti di arrivare agli 85 anni ed oltre? Non a caso per i mutui ci sono solo porte chiuse e il raggiungimento massimo di 75 anni di età è considerata questione raramente superabile; come mai allora in questo caso si può arrivare agli 85 anni? Presto detto: nel caso di morte prematura o d’inadempienza intervengono le assicurazioni a garanzia! Ovvero l’altra gamba del tavolo degli istituti di credito.

La domanda è d’obbligo: ma perché non viene data la possibilità, a chi può, di anticipare i tre anni di contributi rimanenti in un’unica soluzione e, con il conseguente ricalcolo dei coefficienti, offrirgli la pensionabilità immediata? In fondo chi può pagarsi i tre anni di contribuzione volontaria non avrebbe motivo di ricorrere al prestito oneroso. No, non è possibile: il prestito è obbligatorio per l’operazione. Invece il pagamento diretto dovrebbe essere almeno considerato. Il sospetto che l’operazione sia destinata a rimpinguare le casse di banche e di assicurazioni non può essere rimosso senza dare questa possibilità.

Sono infatti banche ed assicurazioni i due soggetti che guadagnano con l’operazione. La prima erogando prestiti con interessi con il denaro ricevuto dalla BCE, le seconde assicurando lautamente il rischio d’insolvenza causa decessi prematuri. Ma i pensionati non avrebbero nulla da guadagnare nell’operazione, visto che pagherebbero per venti anni l’anticipazione di tre! E per di più pagherebbero con interessi pesanti l’anticipazione del loro denaro.

Dai calcoli dello stesso governo, la decurtazione doppia, ovvero la riduzione dell’assegno e il pagamento degli interessi, renderebbe l’anticipazione del pensionamento un salasso economico che ricadrebbe interamente sul loro reddito per venti, lunghissimi anni. Per fare un esempio, un assegno pensionistico previsto intorno ai 1500 euro al mese, diverrebbe di circa 1200. Il 30% in meno, quando in Francia e in altri paesi europei siamo intorno al 2-4% in meno all’anno.

La fascia media verrebbe privata complessivamente di una percentuale importante dell’assegno e si deve poi considerare che - dato mai sottolineato - ammesso che lo si scelga, contrarre un prestito ventennale su una pensione media, semplicemente impedirebbe di fatto ogni altra esposizione.

Quale? Per esempio un mutuo per acquistare una casa per sé o per i propri figli, come si usava quando l’Italia era un paese normale nel quale l’ascensore sociale esisteva. Questo si concretizzava anche nei sacrifici dei padri a vantaggio dei figli e l’entrata in pensione dei genitori costituiva uno snodo importante, data la certezza dell’entrata e l’arrivo del TFR maturato in una vita di lavoro.

L’incertezza congenita sui trattamenti pensionistici non può proseguire. Sarebbe ora di stabilire un principio: se si vuole rimanere al lavoro fino ai 70 anni, si è liberi di farlo, ma si può andare in pensione dopo almeno 35 anni di contributi versati, che quasi mai peraltro corrispondono agli anni lavorati (questi, di solito, sono molti di più). Ci si dovrebbe andare con i contributi maturati, eventualmente decurtati, o anche bloccandoli fino alla soglia della pensione minima prevista del ricalcolo attivo; ma va garantito che, a versamenti contributivi effettuati, corrisponda l’assegno previdenziale.

Solo il rapporto tra questi due elementi può essere considerato legittimo, espressione del patto che intercorre tra Stato e cittadino, con quest’ultimo che versa i suoi contributi previdenziali per riaverli al momento della pensione. Per 35 anni finanzia le casse dello Stato che li restituisce (in parte) spalmandoli su una media di venti anni. Il continuo allontanarsi dell’età pensionabile pone invece uno sbilanciamento grave tra gli anni di contributi e quelli della pensione e si configura come un vero e proprio scippo dello Stato ai danni dei cittadini. Che se avessero la possibilità di scegliere, ormai si guarderebbero bene dal versare contributi che mai più riceveranno.

E’ vero che la tenuta dei conti è problema serio, ma le proposte avanzate per favorire l’accesso anticipato (prima fra tutte quella dell’ex ministro del Lavoro Damiano) sono ragionevoli, compatibili e risolutive per portare in pochi anni a regime il meccanismo e garantire così il necessario equilibrio finanziario.

Riportare le norme alla corretta dinamica tra contributi versati e pensione percepita, oltre che restituire ai cittadini la certezza del diritto, consentirebbe una ripresa rapida dei consumi interni, volano strategico dell’economia e motore indiscutibile per la ripresa, condizione decisiva per la crescita del PIL e la conseguente riduzione del deficit. Ma servirebbe un governo nel vero senso della parola.

Questo assemblaggio di parvenu non lo è. Incapace di costruire una politica economica, inabile a determinare una ristrutturazione logica del sistema di welfare, il governo Renzi continua a fare solo propaganda, unica cosa alla quale si dedica ininterrottamente.

Così tenta di spacciare l’APE come un’iniziativa a favore dei pensionati, nascondendo come essi sono solo lo strumento per una ulteriore operazione speculativa del comparto creditizio e assicurativo, in nome e per conto del quale questo governo lavora senza sosta e con ogni fantasia. Dov’è la novità?



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