di Fabrizio Casari

La scelta della destra di presentare candidati a sindaco Parisi a Milano e Bertolaso a Roma può risultare ardua per certi aspetti, incomprensibile per altri o inevitabile per altri ancora. Un elemento accomuna i due candidati: nessuno dei due dispone di un profilo elettorale vincente, ovvero d un carisma e di un seguito popolare che potrebbero coagulare il consenso necessario a vincere.

E se per Parisi ci si potrebbe limitare a questo, visto che sul piano politico non è certamente più a destra di Sala, per Bertolaso c’è l’aggravante un profilo giudiziario e il tratto arrogante di un personaggio famoso soprattutto per i lavori incompiuti e gli intrecci serrati con una rete di corruttela. Un candidato sotto processo per corruzione nella Roma di Mafia Capitale è azzeccato tanto quanto proporre Erode come preside di un asilo infantile.

C’è sicuramente un tema di rapporti di forza interni al centro destra. Berlusconi non ci pensa nemmeno a mettere il suo peso elettorale e i suoi interessi nelle mani della Meloni o di Salvini, e questo già chiude il discorso delle candidature. La scelta di Parisi e Bertolaso si deve alla ritrovata leadership del Cavaliere, che ha già dimostrato con Toti in Liguria di vedere più lontano dei suoi scherani.

Resta però il dato politico sul quale vale la pena riflettere: perché Berlusconi propone ed impone candidati che, salvo terremoti (ci perdoni Bertolaso l’involontario accostamento) non possono vincere? Paola Taverna, deputata grillina che non spicca per garbo e stile, sostiene che la volontà è quella di far vincere il Movimento 5 Stelle. Motivo? Impegnarli nella gestione di una città che ha enormi problemi e mettere così in difficoltà il M5S che, alla prova del governo, evidenzierebbe i suoi limiti e lo renderebbe agli occhi degli elettori inadatto alla guida del Paese.

E’ tesi non nuova ma autocentrata, che scambia un effetto collaterale per l’obiettivo e non risulta particolarmente intelligente diffonderla, infatti il compito viene assegnato alla Taverna. Perché se questo fosse l’obiettivo - ovvero indebolire l’appeal del M5S attraverso la consegna di quella che essi stessi sembrano temere come una polpetta avvelenata così da renderli poi meno papabili per la conquista del governo nazionale - i grillini dovrebbero fare salti di gioia all’idea di una competizione in discesa. Purtroppo invece, l’incapacità di governo delle città da parte dei pentastellati non ha bisogno di trovare conferme a Roma, già i casi di Parma e Livorno (tra gli altri) risultano illuminanti.

Peraltro, i ridicoli meccanismi di selezione nel M5S, l’assenza frequente di competenza politica e la dinamica nordcoreana della vita interna, rendono il movimento di Casaleggio capace di perdere senza bisogno di contributi esterni. Semmai la Taverna dovrebbe dirci se riservano per Roma un candidato a sindaco privo di ogni qualità ed esperienza come gli autocandidati sul blog. Se ritiene cioè che si possa governare la città più antica del mondo senza aver mai amministrato nemmeno un condominio ed avendo come unica dote qualche click nella Rete, oltre alla benedizione dell’inquietante Casaleggio.

Lasciamo perdere quindi i deliri della Taverna sui complotti per far vincere i 5 stelle (anche perché non si capisce quale sarebbe la strategia per far naufragare il complotto: perdere?) la questione romana e milanese è invece altro e, oltre che ai rapporti di forza interni alla destra, ha a che vedere con il rapporto tra PD e Forza Italia.

Torniamo così al nocciolo della questione. E’ vero che la destra ha poche o nessuna possibilità di vincere grazie ai candidati che mette in campo, ma questo corrisponde all’applicazione del Patto del Nazareno. Berlusconi sceglie di non vincere proprio perché in nessun modo vuole che Renzi venga disarcionato dalla guida del PD.

Pur di mantenere in vita il patto del Nazareno, quello di perdere a Roma e a Milano è un prezzo che Berlusconi paga volentieri, peraltro le città non rivestono particolare importanza nel disegno complessivo degli interessi berlusconiani. Altro che i comuni di Roma e Milano: è il patto la garanzia per gli interessi della famiglia e, affinché esso venga rispettato, c’è bisogno di salvare il soldato Renzi.

Cosa non semplice. Seppellito dai conflitti d’interesse tra il giglio magico e il sistema bancario, privo di abilità politica nella relazione con l’Europa, alla quale si limita a chiedere benevolenza, Renzi attraversa una fase molto difficile.

Brilla per l’inefficacia dell’azione di governo che, nonostante le vessazioni su ogni settore produttivo, pur offrendo mance mentre toglie diritti e pur in presenza di una congiuntura economica internazionale straordinariamente positiva, non ha saputo costruire il rilancio della domanda interna ed aumentare il PIL migliorandone così anche il suo rapporto con il deficit. L’Italia si trova così all’ultimo posto in Europa per la ripresa economica e ai primi per disoccupazione. Le slides non bastano a ridare linfa.

E se in Europa la delusione per Renzi monta inesorabilmente, in Italia è persino peggio. Emerge un generale convincimento di come il governo Renzi sia in realtà l’espressione di un gruppo di potere emergente e assatanato, che ha deciso di arraffare il bottino a qualunque costo e che, privo di vision politica, limita il presunto profilo riformatore al riuscire mettere i suoi affiliati nei posti dove scorre il denaro e il potere.

Berlusconi sa fiutare il vento che spira dall’Europa e nel contempo conosce ancor meglio come salvaguardare i suoi interessi, primo fra tutti il mantenimento del patto con Renzi. Egli va quindi salvato sia a Montecitorio (compito delegato a Verdini, finto scissionista) per garantire il proseguo del governo, che nelle grandi città per garantirne la leadership nel PD.

Perché se Renzi, dopo aver perso Venezia e la Liguria (e apprestandosi a perdere anche Napoli) perdesse anche Milano e Roma, il bilancio della sua gestione del PD diverrebbe insostenibile. Le stesse ricadute sul governo già indebolito sarebbero pesanti, dal momento che un numero sensibile di suoi parlamentari, che di Renzi e della sua gang non ne possono più, ove il capo del governo non fosse anche il segretario del loro partito non avrebbero più remore nell’inasprire lo scontro politico interno nell’aula.

I rumors di questi giorni sembrano poi confermare un lavorio intenso verso l’uscita anticipata da Palazzo Chigi dell’usurpatore. L’appetito famelico rischia di strozzarlo. Troppa la foga impiegata nell’arraffare tutto, giungendo persino a provocare i Servizi Segreti sulla nomina del suo amico Carrai al vertice della gestione informatica, ovvero il suo cuore pulsante.

Ha dovuto fare marcia indietro, perché in questo caso non si tratta più del governo, qui si tocca il potere vero, con i suoi referenti interni ed internazionali, che è cosa assai diversa da un governicchio. Ma l’allarme è scattato e sul giglio magico è arrivata la gelata.

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