di Fabrizio Casari

La notizia è passata inosservata, com'era inevitabile vista la rilevanza, ma il fatto è che l'ex sindaco di Roma, Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio, Storace, hanno deciso di tornare insieme. Questione di decimali elettorali, certo, ma indicativo di un altro passo verso la rieggregazione dell'ex Msi, poi An. Ma ai piccoli passi di un'area seguono le grandi distanze in altre attigue. Non trova pace la destra italiana.

Quella ufficiale, s’intende, che è cosa numericamente inferiore a quella diffusa, trasversale e insinuata pressoché ovunque. Ma quella ufficiale, ovvero il corpo vedovo del berlusconismo, non ha ancora trovato una collocazione, dunque nemmeno una sigla e meno che mai un leader.

Ma è in particolare l’area di ciò che un tempo fu Forza Italia a vivere nell’incertezza, priva di una prospettiva politica a breve termine. Alla permanente ricerca del “quid”, nostalgica di ciò che fu e incerta su cosa essere, la maggioranza silenziosa che si riconobbe nel miracolo berlusconiano resta in lista d’attesa. Dopo Alfano e Toti, la ricerca del successore di Berlusconi prosegue senza successo; l’ultima investitura, quella di Parisi, come le precedenti si è convertita in una morte prematura.

Berlusconi continua a detenere, teoricamente, la quota di maggioranza del pacchetto azionario, ma le convulsioni e gli sbarramenti che a giorni alterni pongono gli ex-colonnelli di AN e gli ex cortigiani di Berlusconi, le uscite dei vari Alfano e Verdini da una parte, della Meloni e di Alemanno dall’altra, aggiungono confusione e veti incrociati e rendono opaco il tutto.

La destra radicale, da parte sua, sembra voler strappare ma non lo fa: benché l’OPA di Salvini e Meloni sul centrodestra sia ormai ufficiale, la scalata è difficile. I due pasdaran, che insieme non fanno un leader, dispongono però di una quota di controllo sull’elettorato di destra che, seppure non basta per vincere, è più che sufficiente per far perdere. Dunque impossibile tenerli ai margini della ricostruzione della destra, perché quanto avvenuto nel 1994, con il partito di Berlusconi alleato con la Lega al Nord e con An al Sud non è più riproponibile, considerati i mutamenti del quadro politico ed elettorale intervenuti, tra cui appunto, la scomparsa di Forza Italia, ovvero il collante del processo.

Ma Parisi dal suo punto di vista ha ragione: nel caso i moderati del centro-destra volessero disporre di un proprio partito, allora la scelta non potrebbe certo essere quella di seguire Meloni e Salvini.

Mantenere una diversa identità tra “centro” e “destra” è molto più che non un trattino. Possono rappresentare un programma politico in comune? Oggi è quanto mai difficile. Proprio per questo, però, proprio Berlusconi dovrebbe sostenere Parisi, ma appare ormai evidente come sia proprio il Cavaliere a non voler avviare il processo di ricostruzione del centro-destra deberlusconizzato.

In fondo Berlusconi sa che le aggregazioni politiche importanti hanno bisogno di un contesto che ne favorisca la genesi. Nel 1994 la fine della DC fu la leva per la migrazione del suo elettorato verso la nuova destra; lontani dalle suggestioni fascio-legiste, milioni di italiani ritrovarono la loro collocazione politica, perché prima di essere democristiani erano soprattutto anticomunisti e ostili alla sinistra in generale.

Oggi però la collocazione al centro degli eredi della sinistra non favorisce l’innesco ideologico che ci fu nel ’94 e la questione è tutta di architettura politica. Qui risiedono le difficoltà del Cavaliere nel dare il via libera a Parisi. Da imprenditore, sa come e quando intervenire per riempire un vuoto, per intercettare una domanda di rappresentanza. E il problema è, appunto, che lo spazio che fu di Forza Italia alle origini è lo stesso su cui di dirige il Partito della Nazione dell’accoppiata Renzi-Verdini, con Alfano e i resti del CCD a seguire.

Berlusconi non cerca un nuovo leader per i moderati perché c’è già Renzi che presidia quello spazio. A Renzi, al netto delle frasi e delle smentite di circostanza, Berlusconi riconosce una sua unicità e nei suoi confronti, anche riservatamente, esprime giudizi lusinghieri. La diaspora del centrodestra gli interessa fino a un certo punto: altro che Parisi, Salvini o Toti, il suo uomo di fiducia è Denis Verdini, autentico ufficiale di collegamento con Renzi e garante del rispetto del Patto del Nazareno.

Non è quindi un caso che il cosiddetto NO di Berlusconi arrivi tanto flebile da sembrare un SI; l’ex leader del Polo auspica la vittoria di Renzi ma non può dirlo. E’ la versione berlusconiana della politica dei due forni. Solo la permanenza di Renzi sarebbe una garanzia per lui e le sue aziende. Ma, non essendo certo di cosa potrà avvenire, se cioè il garante del Patto del Nazareno avrà o no un futuro, schiera Forza Italia per il No e Mediaset per il Si. Così si tiene aperte tutte le possibilità.

Renzi, da parte sua, oltre a far conto proprio sui voti degli elettori di Forza Italia per superare il 4 Dicembre, non fa niente per deludere il Cavaliere: da tempo è all’inseguimento del berlusconismo, soprattutto sotto il profilo della comunicazione politica, al punto che ormai diventa difficile non cogliere nei suoi atteggiamenti una continua rincorsa al modello di comunicazione che fu di Berlusconi.

Convinto che l’ex-leader di Forza Italia sia il modello vincente, utilizza l’arma della spregiudicatezza politica e l’ossessiva presenza mediatica come braccia di un corpo votato definitivamente allo stesso obiettivo del suo ispiratore. L’obiettivo è chiudere con la storia della sinistra e dei sindacati. Il maestro non vi riuscì, l’allievo ci prova.

Per questo insieme di fattori, l’appuntamento referendario sarà decisivo anche per la ricostruzione del centrodestra. Oltre alla riuscita o meno del progetto di trasformare il sistema democratico in autoritario, gli elettori in ente inutile e la sinistra in destra, il 4 Dicembre sarà forse anche data decisiva per una destra che dovrà ricontarsi per provare a rifondarsi.

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