di Antonio Rei

Il caso di Federica Guidi, che si è dimessa da ministro dello Sviluppo economico per una telefonata in cui assicurava al suo fidanzato il via libera a un emendamento che lo avrebbe favorito, dimostra perlomeno tre cose. Primo: la pretesa superiorità morale della società civile rispetto alla classe politica tradizionale è una delle panzane più grandi che ci abbiano propinato negli ultimi anni, perché l’odore dei soldi piace proprio a tutti, anche a chi si autoassegna la patente di civiltà.

Secondo: il principio per cui “bisogna essere del campo per operare nel campo” - nello specifico bisogna essere un imprenditore per governare lo Sviluppo economico - è qualunquista e miope, perché non tiene conto della molteplicità di conflitti d’interessi diretti e indiretti che si presentano a ogni passo compiuto (per non dire a ogni emendamento approvato). Terzo: la propaganda renziana de “la volta buona” e dell’Italia che “cambia verso” è una favola che non potrebbe essere più lontana dalla realtà.

Al nostro Presidente del Consiglio va riconosciuto un talento nel marketing superiore perfino a quello del fu Silvio Berlusconi. Grazie alla sua propensione al mestiere di imbonitore riesce serenamente a vendere come vittorie e prove di trasparenza persino le figure più meschine e losche. Da Washington, infilando nel calderone un riferimento all’ex ministro Cancellieri, Renzi ha avuto la faccia di presentare la Guidi come innocente martire del buon costume politico: “Non ha commesso nessun tipo di reato o di illecito - ha scandito il Premier - ma ha fatto una telefonata inopportuna, e se prima per telefonate inopportune non ci si dimetteva, ora ci si dimette. L’Italia non è più quella di una volta”.

Invece sì, Matteo, è esattamente quella di una volta. Anzi, forse è perfino peggiore, visto che nepotismo e conflitti d’interessi trovano spazio in questo governo ancor più che negli Esecutivi di Monti e Letta.

A ben vedere, le dimissioni della Guidi non sono arrivate affatto per trasparenza, ma per ben altri motivi. Innanzitutto, l’ormai ex ministro dello Sviluppo economico era un frutto del patto del Nazareno: voluta da Berlusconi per tutelare gli interessi delle imprese, Guidi non solo non faceva parte del Giglio magico, ma era probabilmente il ministro di cui Renzi avrebbe fatto a meno più volentieri.

E così sono bastati pochi secondi per imporle le dimissioni. Un passo indietro decisivo in chiave elettorale per il Pd, visto che, con le amministrative alle porte, l’eventuale tentativo di resistenza da parte della Guidi avrebbe pompato ancora più benzina nel serbatoio delle opposizioni, grillini in testa. Ma soprattutto, l’immediatezza con cui Palazzo Chigi ha imposto alla Guidi di lasciare l’incarico è servita a evitare che l’ennesimo scandalo di questo governo arrivasse a lambire per l’ennesima volta l’adorata Maria Elena Boschi.

Proprio la difesa a spada tratta del ministro delle Riforme è uno dei cavalli di battaglia in cui si manifesta tutto il talento renziano nell’arte di presentare come immacolate anche le operazioni più torbide. Secondo il Premier, Guidi sarebbe colpevole solo di una telefonata inopportuna, non di aver brigato per far passare un emendamento che favoriva la Total e indirettamente anche l’azienda del suo fidanzato: “È un provvedimento giusto - sostiene il presidente del Consiglio - perché porta posti di lavoro. Una cosa sacrosanta”.

E siccome dalla telefonata incriminata usciva fuori chiaro e tondo il nome della Boschi, Renzi si è affrettato a inventare spiegazioni: “È naturale che il ministro dei Rapporti con il Parlamento firmi un emendamento del governo”. La diretta interessata ha aggiunto il carico con la consueta arroganza: “Lo rifirmerei domani mattina”.

In realtà quell’emendamento non era affatto sacrosanto e la firma del ministro delle Riforme non era per nulla un atto dovuto. Al contrario, la misura pro-Total era stata bloccata alla Camera dal un deputato di Sel, Filiberto Zaratti, e dal presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci (Pd), che lo aveva ritenuto inammissibile. Non è perciò un caso che, nella telefonata col fidanzatino, Guidi lasci intendere che il via libera all’operazione dipenda essenzialmente dal consenso della Boschi.

Ma il nome di “Mariaele” non si può infangare, questo Renzi non lo permetterà mai. Non si è parlato di “opportunità politica” quando Boschi figlia sedeva nel Consiglio dei ministri che ha deciso il destino di Banca Etruria, l’istituto che Boschi padre ha contribuito a mandare in bancarotta, probabilmente truffando anche migliaia di risparmiatori. Se ne era parlato invece, oltre che per la Guidi, anche per l’ex ministro Maurizio Lupi, che pur non essendo mai indagato fu costretto a dimettersi dal governo Renzi per il Rolex e i lavori offerti a suo figlio dall’imprenditore Stefano Perotti, coinvolto nell’inchiesta sugli appalti delle “grandi opere”.

Insomma, il metro di valutazione cambia a seconda di quale ministro finisce nei guai. Ma nepotismo e conflitti d’interessi no, quelli davvero non cambiano mai.

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