di Fabrizio Casari

Un insuccesso senza precedenti quello registrato domenica dal Partito Democratico. Sono stati infatti solo 50.000 i votanti, ovvero la metà del minimo stabilito dallo stesso PD per poter definire un successo le primarie a Roma per la scelta del candidato a sindaco. Se si pensa che gli iscritti del PD a Roma sono oltre diecimila, si capisce subito come sia ridotta al minimo la capacità di appeal elettorale. La diserzione in massa del popolo del PD dalle primarie ha fatto sì che in un deserto di affluenza vincesse un candidato renziano.

Il fatto che Giachetti abbia ottenuto più del 60 per cento delle preferenze conta poco e, semmai, indica quello che tutti i romani sanno: ovvero che a votarlo è corso l’apparato e che con il solo apparato non vincerà le elezioni, bene che andrà arriverà secondo.

Una affluenza così scarsa indica come prima cosa che Giachetti non scalda i cuori di nessuno. più che vincere in realtà ha messo la prima pietra sulla sua sconfitta. Risulta quindi ridicolo il giubilo dell’ex sottopancia di Rutelli, che parla di vittoria e afferma di lavorare alla formazione della squadra di governo. Al più conferma la stoffa da esaltato perdente che da sempre lo caratterizza.

A ben vedere, Giachetti avrebbe dovuto riconoscere il dato politico oggettivamente inequivocabile, che associa il suo nome ad una sicura disfatta per il partito e per lui stesso e, quindi, rinunciare alla corsa. Ma l’ambizione lo divora e dunque ne verrà divorato. Pazienza, nessuno si straccerà le vesti per lui. La questione più generale certifica invece che il PD ha perso il suo popolo e la sconfitta che l’attende a Roma è solo l’ultima e più grave conseguenza dell’avvento di Renzi alla guida del partito.

Sono diversi i fattori che hanno concorso al raggiungimento del flop, che è politico, non solo numerico. Il primo di essi ha a che vedere l’immagine del PD dopo lo scoperchiamento del pentolone putrido di Mafia Capitale, nel quale le cosche del partito romano bollivano allegramente insieme all’immondizia neofascista e al clan degli affari che, trasversalmente, apparecchiava, consumava e digeriva l’indigesto banchetto. Il partito erede dell’etica berlingueriana prima e interprete forse abusivo di Mani Pulite poi, ha ampiamente dimostrato come il nuovo corso della governabilità con chiunque e comunque, con ogni mezzo, lecito o illecito, non trova sostegno in un elettorato che ha già preso le misure a questo nuovo abito e non vuole più indossarlo.

Privo di riferimenti ideali quanto si vuole, ma con ancora gli anticorpi dell’impegno civile, il popolo del centrosinistra indica con il ritiro dalla contesa la giusta distanza da un apparato di potere privo di ogni disegno che non sia quello di sopravvivere a se stesso.

Il secondo elemento che spiega la diserzione in massa dalle primarie ha invece a che vedere con quanto avvenuto con la giunta Marino, dove il PD, capitanato dal voltagabbana Orfini, passato nello sbattere di ciglia da oppositore a presidente in cambio di obbedienza, ha deciso di spodestare il sindaco eletto con una maggioranza assoluta dai romani, che prima ancora l’avevano scelto (contro il volere dell’apparato correntizio del partito) come il candidato a sindaco per una stagione di rinnovamento dopo le sconcezze della giunta Alemanno (per i romani Aledanno). La scelta di cacciare Marino è stata devastante sia nel merito che nel metodo.

Nel merito perché è stato costruito un battage politico-mediatico di sapore complottistico destinato a danneggiare l’immagine di un Sindaco che non distribuiva prebende. La goffagine di Marino aveva poi condito la polpetta avvelenata concepita a Palazzo Chigi, dove si voleva la caduta della giunta romana come prova generale del Partito della Nazione e per dare in pasto al clan composito degli affari romani i fondi del Giubileo. Nel metodo perché la scelta di recarsi dal notaio a sottoscrivere il ritiro della fiducia dei consiglieri e, così, la caduta della giunta, è apparso squallido, stupidamente burocratico da un lato e indicatore del clima di sfiducia esistente all’interno degli stessi consiglieri, che non si fidavano l’uno dell’altro.

Il terzo elemento è l’evidente risposta della base del partito alla mutazione genetica in corso nel Pd. La versione renziana del partito, il suo progetto politico centrista di co-governo con la destra di cui il bullo toscano si fa interprete, rende chiaro come a suo tempo l’accusa al governo Letta di stare in maggioranza con la destra fosse solo strumentale. Letta governava con la destra in assenza di una maggioranza alle Camere, mentre Renzi, che sposta ogni giorno di più il partito su posizioni neocentriste, vede proprio nel governo con la destra il suo orizzonte strategico.

Godono sia il M5S che Marchini, mentre il centrodestra assapora con gioia il risultato di Giachetti, ritenendolo giustamente il primo vero sondaggio elettorale. Per la sinistra romana, per quello che ne rimane, c’è ora una dead line obbligata: trovare la strada per azzerare ogni polemica e differenza, abbandonare ogni protagonismo e calcolo di bottega, scegliere un cammino unitario e un nome che sappia rappresentare una prospettiva di governo progressista per la città. Forse è già tardi, quasi certamente il tentativo è superiore alle forze disponibili, ma non si può voltare la testa altrove. Questo è l’appuntamento chiave anche per una sinistra del PD che voglia alzare la testa.

Ci si deve provare. Per non riportare Roma sotto le unghie dei fascisti che l’hanno spolpata, per evitargli figli di papà ai quali ogni idea rischia di perdersi nel vuoto della mente, e per salvaguardarla da improbabili tribuni con amicizie indebite, che hanno preferito candidarsi alla sconfitta piuttosto che rendere elastiche le regoline interne di un movimento che parla di Europa mentre vive in Corea del Nord. Roma si trova così a rappresentare i difetti peggiori della politica italiana. E non lo merita.

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