di Antonio Rei

"Qualcosa non ha funzionato". Sembra esordire bene Matteo Renzi quando sabato, durante un'intervista fiume con Ezio Mauro, inizia a parlare della riforma della scuola. Peccato che si tratti solo di quella grottesca figura retorica tanto cara al nostro Premier: la finta ammissione di colpa (un po' gigiona) che solitamente precede il colpo di frusta dirigista.

"Il colpevole sono io, riaprirò la discussione", dice il Presidente del Consiglio riferendosi alla gigantesca opposizione sindacale e sociale che si è sollevata contro la legge Renzi-Giannini. Subito dopo, però, si concede una di quelle esilaranti gag che lasciano intendere chiaramente quali siano le sue reali intenzioni di dialogo: "Non è possibile... Assumiamo 100mila persone - sottolinea -, mettiamo un miliardo in più e li abbiamo fatti arrabbiare. Io non cerco alibi, cerco soluzioni. Se è così è colpa mia. Ho fatto un capolavoro a far arrabbiare tutti...".

Come a dire: io cerco di cambiare le cose e questi comunisti ammuffiti non capiscono che sto facendo loro del bene. E' sempre questo il sottotesto ipocrita alle parole del Premier, abilissimo a non citare neanche per sbaglio i veri punti centrali della riforma e gli aspetti su cui si concentra la contestazione generale.

Di sicuro non si tratta delle assunzioni, anche perché quelle, vale la pena di ripeterlo fino alla noia, sono l'unico punto del disegno di legge che non è stato scritto dall'attuale Governo. A imporle è una sentenza della Corte europea, che lo scorso 26 novembre si è espressa contro il ricorso sistematico ai contratti a tempo determinato nella scuola pubblica italiana, stabilendo che dopo tre supplenze annuali un docente abbia diritto all'assunzione. Sotto questo profilo, quando l'Esecutivo ci ha messo del suo è stato solo per ridurre di un terzo il numero degli insegnanti da stabilizzare: inizialmente Renzi aveva promesso l'assunzione di 148mila lavoratori, numero che si è poi misteriosamente ridotto a 100mila.

Com'è ovvio, il problema della Buona Scuola non è neanche nei soldi stanziati per l'edilizia scolastica (anche se ancora non è chiaro quanti siano davvero e, soprattutto, da dove arrivino). Casomai, a voler parlare di denari, uno degli abomini previsti dalla riforma è il bonus fiscale stanziato per chi intende mandare i figli, fino alla terza media, in una scuola parificata (leggi cattolica), tanto più assurdo perché non è limitato da alcun tetto di reddito: spetterà anche ai figli di notai e chirurghi.

"Le priorità sono due: risorse per l'edilizia e stop alle classi pollaio", dice il Premier, ma non è così. Il vero cuore della riforma è la definitiva aziendalizzazione della scuola pubblica italiana alla luce del modello anglosassone, dove l'istruzione è un business, gli alunni sono clienti e gli insegnanti nulla più che impiegati aziendali chiamati a soddisfare l'utenza.

Questa prospettiva si realizza con la figura del super-preside, il top manager a cui sarà affidato il potere di scegliere i docenti e i collaboratori, assegnando incarichi e supplenze anche senza specifica abilitazione. Non ci vuole Sherlock Holmes per prevedere che una norma simile si trasformerà in un incentivo agli accordi sottobanco, una novità di cui forse non avevamo bisogno, essendo già il Paese con il tasso di corruzione più alto d'Europa.

Eppure, le cose stanno così: chiunque penserà che il preside possa chiedere  tangenti, appoggi politici o favori sessuali in cambio di un poso di lavoro nella propria scuola commetterà sicuramente peccato, ma, parafrasando Andreotti, in molti casi indovinerà.


"Rimetteremo mano al testo - ha chiosato Renzi -, ma non cederemo a chi si crede intoccabile. Io non faccio tutto bene, ci metteremo una settimana in più, ascolteremo tutte le voci e ci arriveremo". Anche questo è ormai un classico della retorica renziana, una variazione sul tema del "si discute con tutti ma poi si decide", con il sottinteso "e alla fine si fa come dico io". Peccato per il Pd che anche studenti (maggiorenni) e insegnanti abbiano diritto di voto. E che dovrebbero essere un pilastro del corpo elettorale di sinistra.

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