di Fabrizio Casari

Con l'approvazione dell’Italicum da parte del Senato, si chiude l’iter legislativo per l’approvazione di un mostro tentacolare, che in un colpo chiude con il Senato elettivo e con parte della rappresentanza popolare della Camera dei Deputati. E’ una porcata, quella di Renzi, ispirata dall’ansia di potere che ormai l’attanaglia a livelli patologici. Ma soprattutto è un sonoro “me ne frego” rivolto alla Corte Costituzionale che aveva dichiarato incostituzionale il Porcellum proprio in ordine al mancato esercizio della rappresentanza dei cittadini (vedi preferenze). Impostazione che ora l’Italicum conferma e peggiora, dal momento che nega comunque le preferenze e, nei suoi effetti, trasforma un primo ministro in un duce.

Vediamo come. L’Italicum, che riscrive anche le circoscrizioni elettorali moltiplicandole, si regge su tre pilastri: la soglia di maggioranza, i capilista bloccati, la fine del Senato elettivo. L’aspetto più importante, che determina un’alterazione incostituzionale del potere legislativo e di quello esecutivo, è rappresentato dal premio di maggioranza, cui si accede in prima battuta se si ottiene il 40% dei voti. Già questo sarebbe inaccettabile, dal momento che si chiama premio di maggioranza proprio perché dovrebbe andare a chi ha la maggioranza, e non a chi ha il 40% che, a prova di matematica, maggioranza non è.

Ma il quadro è ancor più grave, perché nel caso in cui nessuna lista raggiungesse il 40%, il premio (il 55% dei seggi) non verrebbe escluso, ma invece assegnato al vincitore del ballottaggio tra le prime due liste, solo riducendolo del 2%. Non importa con quali percentuali potrebbe concludersi il ballottaggio, comunque il vincitore godrebbe del premio di maggioranza. La lista che ottenesse la maggioranza al secondo turno, quali che siano i numeri, anche solo il 20% dei voti ad esempio, avrà comunque il 53% dei seggi in Parlamento. Per meglio comprendere la porcata appena votata, giova ricordare che nel 1953 la Legge truffa venne affossata, benchè prevedesse almeno il 50% più uno come condizione per far scattare il premio.

Non bastasse l’oltraggio al criterio della rappresentanza, i capilista (100 deputati) saranno bloccati e non sottoponibili al voto di preferenza, riducendo così fortemente la volontà dei cittadini di scegliere i loro rappresentanti. Per quanto riguarda la formazione delle liste è poi fin troppo facile intendere come quei cento saranno gli scudieri affidabili del nuovo ducetto. Potranno essere candidati in 10 diversi collegi, con la possibilità quindi di opzioni multiple, da esercitare a seconda di chi è il numero due in lista.

Si tenga conto che con un premio di maggioranza che permette numeri assoluti in un Parlamento formato dai fedelissimi dell’Esecutivo, il Primo Ministro non solo azzererebbe le opposizioni, ma determinerebbe con un piccolissimo sforzo la scelta del Presidente della Repubblica e dei giudici della Corte Costituzionale, ovvero il garante della Costituzione e l’organismo istituzionale a questo deputati. Ovvero chi, promulgandole o esaminandole, devono decidere la costituzionalità o meno delle leggi che il Parlamento vota.

Per eliminare poi il rischio di un doppio passaggio legislativo, ecco che il Senato viene tolto dai poteri elettivi dei cittadini per passare a quelli dei partiti. Abolire il Senato come organo legislativo corrisponde ad un disegno autoritario, che spinge sull’acceleratore della riduzione della dialettica politica in funzione di una maggiore agilità della struttura di comando. La sua funzione prevista è meramente decorativa. Più che lo snellimento dei processi legislativi (che normalmente giacciono molto più tempo alla Camera, sia detto) questa riforma del Senato manifesta piuttosto l’intenzione di limitare i poteri di controllo e d’intervento legislativo sugli atti di governo e sulle deliberazioni della Camera.

Che un Parlamento delegittimato dalla sentenza della Consulta voti una legge incostituzionale è il paradosso di un sistema politico ormai avviato verso la vocazione autoritaria. Che Renzi ne sia il massimo esponente non stupisce: il personaggio è un brutto arnese del sottobosco della politica democristiana che ha potuto passeggiare sui resti di un partito distrutto da chi lo aveva preceduto. Dunque a confermare che Renzi sia abile fare quello che non dice e a dire quello che poi non fa, basti vedere come questa legge elettorale sia la negazione completa di quanto aveva affermato nel suo programma alle primarie del PD.

Si dirà d’altra parte che quasi tutto ciò che promise è stato negato con forza, dal rifiuto del consociativismo al famoso “Enrico stai sereno” rivolto a Letta mentre lo pugnalava alle spalle così come aveva fatto prima con Prodi, fino all’affermazione per la quale le riforme elettorali andavano fatte con un consenso bipartisan mentre ora si mette la fiducia senza avere nemmeno il consenso di tutto il suo partito. Ma la coerenza è un inutile sofisma per l’arrivista di Pontassieve, perché la vera posta in gioco è trasformare in un duce un premier. Renzi del resto, non risente di problemi di decenza e senso delle proporzioni, vista la sua propensione a governare il paese con piglio autoritario senza essere mai stato eletto dai cittadini.

I cantori del renzismo sostengono che questa legge risolve il problema della governabilità, dimenticandosi però che la governabilità è una subordinata rispetto alla rappresentatività che è invece la principale. Le elezioni sono fatte per dare la parola al popolo, non per togliergliela. Una legge elettorale, che pure deve tenere insieme rappresentatività e governabilità, non può vedere il prevalere della seconda sulla prima. Ogni legge elettorale decente, del resto, ha insito il principio della governabilità in quello della rappresentanza, non viceversa. Una legge che invece afferma il primato della governabilità su quello della rappresentanza, prefigura un oggettivo sistema autoritario.

Nonostante gli appelli dei costituzionalisti per fermare questa legge, che rappresenta in profondità un’alterazione dell’equilibrio tra i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e che, con la riduzione dei contrappesi eleva oltre ogni decenza i pesi, difficilmente Mattarella troverà uno scatto d’orgoglio rifiutandosi di firmare una legge che in primo luogo lui, per competenze giuridiche, sa essere incostituzionale. Rimandare la legge alle Camere comporterebbe l’assunzione di un ruolo politico diretto del Presidente che il giurista siciliano, almeno per ora, non pare intenzionato a perseguire. Non ci sono allora strade diverse se non il referendum per abrogare questo sistema elettorale che nemmeno in una repubblica delle banane potrebbero trovare legittimo.

Le responsabilità di quanto approvato sono in buona misura anche della cosiddetta opposizione, dai Cinque Stelle alla minoranza interna del PD, che avrebbero potuto abbandonare il minuetto delle ridicole tecniche parlamentari per imporre sempre il voto segreto. Ma la minaccia del bulletto di andare al voto ha profilato negli onorevoli oppositori, M5S compresi, il panico per un eventuale uscita anticipata de Montecitorio con tutto quel che ne consegue. Hanno dunque parlato molto e agito poco. Sarà bene che i cittadini che si mobiliteranno per chiedere alla Consulta di bocciare l’Italicum, risentano di energie da vendere e memoria da conservare.

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