di Fabrizio Casari

La legge di stabilità 2015 presentata dal Presidente del Consiglio è sotto la lente di Bruxelles, dopo aver già ricevuto il plauso di Confindustria e le sviolinate delle corazzate mediatiche che scrivono sottovento. Eppure, dalla lettura della bozza, anche solo focalizzandosi sui titoli, non si capisce da dove arrivi tanta soddisfazione. O, meglio, si capisce benissimo. Detto che una quota parte della manovra è a deficit, emergono diversi aspetti poco rassicuranti.

Si dirà che si deve mettere ordine nei conti. Ah sì? Beh, viene previsto il debito pubblico in aumento, al 133,4% del PIL. Ci sono 835 miliardi di spese e 786 di entrate. Vengono scaricati sulle Regioni 7 miliardi da reperire, con ovvio aumento delle tassazioni locali, per pagare lo sconto Irap di 5. Investimenti pubblici in calo, TFR in busta paga ma con quasi certo aumento dell’aliquota.

Sembra una manovra di ordinaria ingiustizia sociale in un quadro normale. Eppure il Paese è in deflazione e la disoccupazione ha assunto i livelli di un dramma nazionale. Il tessuto sociale appare slabrato e i fondamentali atipici (e positivi) dell’economia italiana, in primo luogo la sua capacità di risparmio, non riescono più a sostenere una devastazione sociale che ha incaricato il tessuto familiare di sostituirsi al welfare. In questo contesto, non si vedono proprio le scelte che “cambiano il verso”.

Non c’è nessuna politica per la crescita; in sostanza la legge di stabilità è una operazione contabile che modifica gli indirizzi dei flussi di spesa, lasciando invariato il saldo e, con esso, sia le dottrine di Tremonti sui tagli lineari per i ministeri (di per se stessi allucinanti), sia altre follie, tra le quali l’aumento delle spese militari (l'acquisto degli inutili F35, ad esempio, pur se distribuito in 5 anni è un importo pari alla manovra nel suo complesso). Non vengono previsti ulteriori aumenti alle cifre necessarie per il sistema di tutele universali - il welfare - né vengono immaginate forme di ampliamento delle forme di sussidio, a partire da quello di disoccupazione.

Non viene cancellato il blocco delle assunzioni nella PP. AA. e le misure di riduzione del precariato, per quanto utili, risultano del tutto insufficienti. Meno che mai vengono ipotizzate misure come il reddito di cittadinanza, che pure nel resto d’Europa - le si chiami come si vuole - ci sono. Non ci sono operazioni urgenti, prima ancora che giuste, come quella dell’eliminazione degli enti inutili. E non c’è nessuna notizia sull’utilizzo dei 44 miliardi di Euro dei fondi strutturali europei da quest’anno fino al 2020.

In compenso viene confermato il bonus degli 80 Euro per chi però ha già comunque un reddito. Gli 80 Euro arrivano ad alcuni e lasciano completamente all’asciutto chi quel reddito nemmeno se lo sogna. Invece di affrontare a muso duro le sacche di povertà autentiche e la disoccupazione crescente, si aggiunge un rinforzino limitato ad un area comunque occupata.

La stortura dell’iniziativa appare duplice: in molti casi i redditi su cui arrivano sono due nella stessa famiglia e creano quindi un ultra bonus che lascia il sapore di un privilegio in confronto a chi non riceve niente; al contrario, in altri casi, producendosi una modifica dell’aliquota che risulta penalizzante a consuntivo, si peggiora la situazione del saldo.

Infatti si dovrebbe valutare compiutamente quanto la misura sia effettivamente a sostegno; in molti casi, si è verificato come una volta che l’inserimento degli 80 Euro viene misurato nelle modifiche delle aliquote sul reddito che inevitabilmente produce, vanifica, con il maggior prelievo fiscale, il contributo netto ricevuto.

Ma fatto salvo il banalissimo concetto per cui avere più soldi sia comunque un bene, va poi sottolineato come un provvedimento di questo tipo riguarda solo una parte delle famiglie e, comunque, proprio per la sua estemporaneità, non contribuisce in nessuna misura - come già è stato verificato fino ad ora - all’aumento dei consumi.

Risulta in sostanza un provvedimento propagandistico, inutile ai fini della ripartenza dell’economia interna e del suo ciclo virtuoso di produzione, distribuzione e consumo, mentre acuisce le differenze tra garantiti e non garantiti, come avrebbe detto Asor Rosa, in un paese con il 52 % di disoccupazione giovanile.

Ma è l’intervento sulla riduzione dell’Irap per 5 miliardi di Euro che lascia sconcertati. Invece di investire quel denaro nella riduzione del cuneo fiscale, stimolando con ciò la possibilità per le aziende di ridurre i costi per gli assunti e mettendo davvero nelle tasche dei lavoratori un aumento non sporadico, s’interviene sulla tassa sulle imprese senza vincolare l’investimento all’effettiva assunzione di personale.

Dunque si rendono felici le aziende che si vedono abbattere l’Irap ma senza che esse si sentano minimamente obbligate ad assumere. Ha tenuto a specificarlo il Presidente di Confindustria, a scanso di equivoci, rispondendo all’annunciatore che gli diceva “ora non avete alibi, assumete”.

Insomma siamo di nuovo all’epoca dei finanziamenti a pioggia per le imprese che un tempo, invece d’investirli nell’innovazione di prodotto e in nuove imprese, li portavano all’estero o li utilizzavano per le riconversioni in chiave finanziaria della loro dimensione industriale. Invece di una patrimoniale, da diversi economisti considerata inevitabile, si continua a versare l’obolo, magari sotto la slide del brand italiano. Trattasi di una regalìa, non di una politica industriale.

E non a caso Squinzi, che di una politica industriale vera ha timore, ha detto che “Renzi realizza i miei sogni”. Che sono quelli di un padrone che vorrebbe incassare e non pagare, come è naturale che sia in una imprenditoria ad alta voracità e a dimostrata incapacità. L’imprenditoria italiana, priva di idee e capitali, vede nella riduzione del costo del lavoro e delle imposte la sua unica possibilità di realizzare margini operativi. Si conferma così essere del tutto priva dei connotati di responsabilità sociale, che pure la Costituzione prevede e che i governi dovrebbero ricordargli, a maggior ragione in una fase come questa.

La sola riduzione dell’Irap sarebbe comunque stata accettabile se fosse stata prevista a consuntivo per quelle aziende che avessero assunto a tempo indeterminato. Qui sì le “tutele crescenti” avrebbero trovato una applicazione positiva. Ma l’autonomia personale e politica di Renzi dalla finanza è decisamente limitata e pensare che l’annunciatore seriale possa in qualche modo svolgere un ruolo di governo nei confronti delle pulsioni ancestrali del padronato sarebbe ingenuo, un non sense.

Ma il peggio è sul versante del risparmio necessario alla regalìa. Scaricare sulle spalle del sistema degli Enti Locali il peso dell’ennesimo regalo al padronato è opera di folle vigliaccheria. La riduzione di sette miliardi nei trasferimenti dallo Stato alle Regioni è il colpo di grazia e pone in forse persino i livelli minimi delle prestazioni sanitarie e la loro applicabilità omogenea sul territorio.

Renzi, con un trucco ereditato dal suo socio di Arcore (e dal quale ha imparato a far finta di stare all’opposizione mentre governa), scarica in basso l’inevitabile aumento delle tasse, accollando agli Enti Locali le nuove imposte mentre va in tv con le slide dei cretini del bullet-point a raccontare che il governo non aumenta le tasse. Alle proteste delle Regioni ha risposto, con la classe che lo contraddistingue, di ridurre gli sprechi, dimenticandosi che pochi mesi fa, da sindaco di Firenze, diceva l’opposto.

Inutile sperare in un soprassalto di valori da parte dei deputati del PD, tutti impegnati a garantirsi uno strapuntino sicuro nel futuro incerto. Ma l’amarezza resta e l’auspicio unico è che il 25 Ottobre la Cgil e la Fiom riempiano le piazze per dimostrare che c’è ancora un Paese che vede e che parla, che grida persino. Perché che la politica attraversi una crisi profonda di uomini e idee, di credibilità e progetti, è risaputo; ma che dopo l’illusione gravosa del cavaliere nero si sia passati a quella del bullo in camicia bianca fa pensare che gli italiani davvero si meritino quest’Italia.

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