di Antonio Rei

Da dentro a fuori, da fuori a dentro. Tutto in meno di 24 ore. E’ una piroetta degna del miglior Nureyev quella in cui si esibito ieri Silvio Berlusconi, ma a quanto pare non basta a tenere insieme i cocci del Pdl. Intervenendo al Senato, il Cavaliere ha stupito tutti con la marcia indietro della marcia indietro: “Abbiamo deciso, non senza travaglio interno - ha annunciato l’ex Premier - di esprimere un voto di fiducia a questo Governo”. 

Non ci sarà quindi bisogno del Letta bis: il Letta primus è stato promosso a Palazzo Madama con 235 voti favorevoli, 70 contrari e nessun astenuto (scontato il sì della Camera, dove grazie al Porcellum il Pd ha la maggioranza assoluta). Questa però non è una sorpresa. Che l’Esecutivo avrebbe trovato i numeri per sopravvivere era chiaro ormai da giorni, come prova l’andamento positivo dei mercati (compreso lo spread) nel corso delle ultime sedute.

Il dato politico più significativo è proprio la capriola di Berlusconi, che solo sabato scorso aveva cercato d’imporre le dimissioni ai ministri pidiellini e ancora martedì si scagliava contro la prosecuzione delle larghe intese. Il clamoroso ripensamento dell’ultimo minuto segna la resa incondizionata del Cavaliere al fuoco amico delle colombe e degli stessi ministri, contrari alla crisi.  

La spaccatura ha imboccato una strada apparentemente irreversibile: da una parte i berlusconiani fondamentalisti come Sandro Bondi e Maria Stella Gelmini, dall’altra i “diversamente berlusconiani” capitanati dal segretario Angelino Alfano, che nel pomeriggio hanno chiesto e ottenuto di formare un gruppo autonomo alla Camera, apprestandosi a fare altrettanto al Senato.

Di questo scenario si possono dare diverse letture. La prima è che Berlusconi abbia perso il controllo di una parte dei suoi uomini, e si sia convinto a votare la fiducia soltanto quando ha avuto la certezza che il sì sarebbe passato comunque, grazie ai 23 senatori pidiellini che avevano garantito il proprio appoggio. Pur ammettendo che sia così, è certamente scorretto interpretare la frattura del partito come una banale divisione fra berlusconiani e antiberlusconiani.

Il Pdl non è mai esistito a prescindere dagli interessi economici, finanziari e giudiziari del Capo di Arcore. Non si è mai visto alcun progetto politico, alcuna ispirazione ideologica: l’unica professione di fede concessa agli affiliati è sempre stata l’obbedienza alla voce del Padrone, tesa esclusivamente all’autoconservazione in cambio di favori e prebende di varia natura.

Ora, è verosimile che questo sistema di potere consolidato - e apparentemente senza alternativa nel centrodestra italiano - sia collassato in meno di una settimana? Le risposte possibili sono almeno due.

La prima ipotesi è quella dell’istinto di sopravvivenza. Da questa prospettiva, la distanza tra falchi e colombe si misura nel differente modo d’interpretare i propri interessi personali. I berlusconiani puri sarebbero individui che non vedono per il proprio avvenire alcuna alternativa disgiunta dal Cavaliere, e magari auspicano di batter cassa in futuro facendo valere la lealtà di oggi.

D’altra parte, gli alfaniani sarebbero in prevalenza parlamentari ampiamente soddisfatti della posizione che ricoprono, alcuni magari incerti sulla possibilità di essere rieletti o perfino ricandidati, in ogni caso indisponibili a rischiare tutto per una battaglia persa, ovvero la decadenza di Berlusconi.

Il fulcro della questione è proprio questo. Ora che l’Iva è aumentata (un rincaro che peraltro si poteva evitare con un decreto dell’ultimo minuto, accantonato proprio a causa del colpo di teatro berlusconiano dello scorso fine settimana), non esiste alcuna giustificazione politica o economica per un’eventuale crisi. Il discorso pronunciato ieri da Letta in Parlamento non contrasta in alcun punto con gli obiettivi del centrodestra. Far cadere il governo sarebbe stato agli occhi di tutti (elettori compresi) soltanto un gesto di reazione all’ormai inevitabile espulsione del Cavaliere dal Parlamento.

Un gesto peraltro sommamente inutile, e non solo perché Berlusconi tornerà in ogni caso a essere un comune cittadino. Cancellare l’attuale maggioranza significa in primo luogo diventare responsabili del ritorno dell’Imu, perché l'abrogazione della seconda rata e la creazione della famosa “service tax” dipendono da provvedimenti che si dovranno scrivere nei prossimi mesi. Inoltre, se Giorgio Napolitano fosse costretto a sciogliere le Camere prima della riforma elettorale, potrebbe mantenere la promessa di dimettersi, e a quel punto i pidiellini rischierebbero di trovarsi al Quirinale Romano Prodi o Stefano Rodotà. A ben vedere, quindi, il centrodestra non ha mai avuto alcun motivo razionale per far cadere il governo Letta.

La seconda ipotesi è un tantino dietrologa, ma potrebbe avere un qualche fondamento. Tutto quello che è accaduto nell’ultima settimana potrebbe essere solo una grande commedia, tesa, ancora una volta, a tutelare gli interessi di Berlusconi. Secondo Alessandro Campi, editorialista de "il Messaggero", la costituzione di un nuovo gruppo a Palazzo Madama imporrà “il ricalcolo su base proporzionale della composizione della Giunta per le autorizzazioni del Senato”, l’organo che il 4 ottobre si deve esprimere sulla decadenza del Cavaliere. Il procedimento richiederà settimane (con prevedibili ostruzionismi), facendo slittare il voto sull’espulsione dell’ex premier.

E’ possibile che per prolungare di poco la tutela dell’immunità parlamentare Berlusconi sia disposto a screditare a tal punto la propria immagine? Forse no. In ogni caso, il Cavaliere ha dato per la prima volta l’impressione di non essere il regista del centrodestra. Di essere un leader sconfitto, superato, abbandonato. Chissà se in futuro i suoi elettori saranno disposti a dimenticare anche questo. Dopo l'ultima giravolta, in effetti, manca solo di vederlo tifare Inter.  

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