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di Fabrizio Casari
Tra corteggiamenti e rifiuti, sommersi da un diluvio d’imbecillità agghiacciante, osserviamo da semplici spettatori manovre sotto banco di vecchi volponi e passeggiate romane di neofiti confusi. Grillo non fa altro che ripetere la sua indisponibilità a votare un governo che non sia a guida M5S; politico o tecnico, il governo è sostenuto da una maggioranza parlamentare (quindi politica) spiega, e questo impedisce variazioni sul tema.
Grillo, vincitore autentico, sembra sorpreso e al tempo stesso spaventato dal carico di responsabilità che gli è venuto addosso; vuoi per la difficoltà del quadro complessivo nel quale muoversi, vuoi per l’assoluta inadeguatezza del suo personale politico, autentica incognita per il futuro immediato dove a valutare non ci sarà più solo il popolo della Rete, ma l’Italia intera; governare è un po’ più complicato che postare tweet.
Il leader del M5S, che non immaginava di cogliere un successo di siffatte proporzioni, sta giocando la sua partita in modo spregiudicato e intelligente, approfittando della risaputa inerzia ed incapacità politica dei suoi competitor. Sarà meglio smetterla con il richiamarlo al senso di responsabilità: se si vuole stanare la politicanteria dei grillini è molto meglio presentargli proposte nette e senza margini d’interpretazioni sulle quali chiamarli al voto.
I margini di manovra per uscire dallo stallo, al netto delle chiacchiere, non sono molti. Il PDL, giustamente preoccupato da un possibile accordo tra PD e M5S, non cessa di ripetere come sia disponibile al governissimo, risposta unica - dicono - all’emergenza nazionale. In realtà il PDL dei destini del paese se ne frega come sempre, ma una sua partecipazione alla maggioranza parlamentare vedrebbe come moneta di scambio l’archiviazione preventiva di ogni ipotesi di legge sul conflitto d’interesse e contro la corruzione, i due capisaldi su cui si regge l’impalcatura della destra italiana.
Il suo dispositivo mediatico si è scatenato per tentare di offuscare la batosta presa dal cavaliere, ma resta un dato inequivocabile: la sconfitta poteva essere ancora più dura, ma quella che si è subita non è comunque leggera. Si tratta dunque da una posizione subalterna, anche perché nessuno sembra voglia commistioni con la destra.
Monti, dal canto suo, cerca di tenere il profilo più basso possibile per evitare che si ricordi come sia stato sonoramente sconfitto e nella speranza che dall’empasse politico-istituzionale venga fuori il suo nome come proroga dell’agonia fino alle prossime elezioni.
Si è guadagnato la poco invidiabile fama di Re Mida al rovescio, dal momento che tutti coloro che direttamente o indirettamente lo hanno sostenuto (ancor più quelli che lo hanno addirittura affiancato) sono stati le vittime illustri delle elezioni. Allearsi con Monti, anche solo pensare d’immaginare un percorso breve in sintonia con lui, può rappresentare una minaccia mortale per chi lo propone. Resterà nel sarcofago in attesa che gli altri decidano cosa fargli fare.
Dunque l’unico elemento di novità di queste ore è la riunione della direzione nazionale del PD, chiamata a decidere la linea da seguire nella trattativa con il Quirinale per la formazione del governo. Non c’è unità d’intenti, par di capire, ma questa è consuetudine per un partito che non trova l’unanimità nemmeno sulle previsioni del tempo. E’ però chiaro come, per la prima volta dalla sua nascita, il PD si trova di fronte ad un bivio decisivo, dove nasce il cammino per la sua ripresa e quello per la sua sepoltura definitiva.
Tra le strade che condurrebbero con certezza in un burrone c’è quella di una disponibilità al governissimo, pur se a tempo e scopo determinato. Intanto per una questione di etica della politica, poi perché é ovvio che nel merito le riforme istituzionali e una diversa direzione di marcia sul terreno delle riforme economiche e sociali non potrebbero, per definizione, essere condivise con il PDL né con Monti. Pensare che il tacchino si autoinviti alla cena di Natale sembra francamente troppo ingenuo.
Non a caso l’ispiratore della proposta di governicchio è Walter Veltroni, l’uomo capace in un colpo solo di far cadere il governo Prodi, dare Roma ad Alemanno e cacciare la sinistra dal Parlamento. Se non fosse notoriamente un incapace, sarebbe accusabile d’intelligenza con il nemico. Lo stesso D’Alema, che lotta disperatamente con Veltroni per accaparrarsi il titolo di distruttore ultimo della sinistra italiana, sarebbe propenso al governissimo. Tesse la tela con Letta, memore dei giorni felici delle larghe intese ma immemore di come il suo famoso “patto della crostata” finì con Berlusconi vincitore e il centrosinistra ammalato di diabete.C’è poi un fronte meno attrezzato internamente al PD, ma molto rumoroso al di fuori, che vedrebbe volentieri Renzi sul ponte di comando al posto di un dimissionario Bersani. E’ il più nitido e pericoloso degli schieramenti: nitido perché non nasconde l’intenzione di archiviare per sempre la sinistra del centrosinistra, pericoloso perché non è in grado di capire politicamente come non certo sia il gap di comunicazione ad aver punito Bersani.
Alle urne è andato un paese ridotto allo stremo, con una disoccupazione giovanile che sfiora il 40%, una media di 500 posti di lavoro che giornalmente vengono meno ed un generale smantellamento della rete di protezione sociale che espone tutti alla mercé della sussidiarietà privata.
Il collante sociale della nazione è in pezzi, la dimensione etica sembra fuorilegge e la prospettiva di crescita inesistente; questa è la base della rabbia e della disperazione sulla quale sono arrivati i voti a Grillo e allo stesso Berlusconi. Sono risultati il combinato del rifiuto e della paura che una vittoria del PD potesse in sostanza prorogare le politiche del professor Monti.
In questo senso le quotidiane dichiarazioni di Bersani su Monti e il suo pellegrinaggio a Berlino, nell’ansia di rassicurare i mercati esteri, hanno ulteriormente preoccupato gli elettori italiani. Il PD ha perso la possibilità di governare il giorno stesso che ha accettato di votare il governo tecnico guidato da Monti e ha definitivamente seppellito le speranze quando in campagna elettorale ha proposto solo una minima soluzione di continuità con le sue politiche.
Si deve allora essere capaci di leggere anche solo superficialmente le lezioni venute dalle urne, in primo luogo quelle che indicano come sia proprio l’agenda Monti, cioè l’insieme delle politiche di rigore monetarista con conseguente recessione economica senza nemmeno l’assestamento dei conti, che hanno piagato e piegato il Paese, ad aver subito una clamorosa sentenza di colpevolezza.
Ebbene, Renzi era ed è lo sponsor principale dell’agenda Monti e non a caso trova nei settori confindustriali i suoi tifosi più accaniti: in tutta la campagna per le primarie ha sostenuto con forza come la strada rigorista del funzionario tedesco alla guida dell’Italia fosse l’unica prospettiva possibile per l’Italia, la sola in grado di riproporre il Paese su un livello di gradimento accettabile per i mercati.
Si dice che con Renzi candidato il cavaliere non si sarebbe ripresentato. E’ una stupidaggine colossale: pensare che il cavaliere non si presenti in una competizione elettorale è frutto evidente di scarsa lucidità politica: Berlusconi non delega nemmeno ad Alfano la difesa dei suoi interessi, figuriamoci a Renzi. Peraltro, se Berlusconi trovasse Renzi rassicurante, sarebbero gli elettori del centrosinistra a trovare preoccupante il sindaco di Firenze.
Il quale è uomo di centro e sarà certamente la migliore guida di un partito democratico che si volesse collocare al centro dello schieramento politico; ma non può (e forse nemmeno intende) rappresentare quella sinistra che ha votato PD e che, soprattutto, ha scelto SEL o è trasmigrata verso Grillo (4% dei voti totali, secondo stime al ribasso).
Non sarà una giornata semplice per Bersani: se il PD vuole uscire a testa alta e forse da vincitore dall’empasse politico, non può che continuare a porre come obiettivo unico l’incarico a Bersani, che comunque dispone della maggioranza assoluta alla Camera, cosa che nessun’altro ha, ci pare.
Deve presentarsi da Napolitano prima (che tira il carro verso i suoi personali convincimenti e non da oggi) e alle Camere poi con un pacchetto di proposte nette, prive di ogni possibilità d’interpretazione, di ogni sfumatura di linguaggio politichese e ogni genericità nei contenuti, sulle quali chiedere la fiducia.
Dunque non un generico impegno a “rivisitare e rivalutare l’entità delle spese militari”, come direbbe Bersani, ma una affermazione netta comprendente oggetto, soggetto e numeri del provvedimento. Per intenderci: dire no agli F35 e affermare che i 35 miliardi di Euro risparmiati ( a rate di 4 miliardi l’anno) servono a reperire i fondi che rendono inutile l’IMU mantenendo a saldi invariati la fiscalità generale.
Idem dicasi per diversi altri terreni. Per una nuova legge elettorale non servono tante parole, giacché per abolire il Porcellum non serve un’altra legge elettorale con i suoi tempi lunghi: basta un decreto legge che in una riga reciti: “E’ abolita la vigente legge elettorale”. Di colpo, per legge, ci si ritroverebbe con il Mattarellum in vigore.
E anche sul conflitto d’interessi basta scrivere in un rigo che é “ineleggibile chiunque, direttamente o indirettamente, dispone di quote in società destinatarie di concessioni pubbliche sia a livello nazionale che locale”.
Sono molti altri gli esempi che si potrebbero fare, ma il nodo è politico: il PD non può e non deve accettare nessun’altra ipotesi che non sia quella di Bersani Premier, dichiarando a Napolitano e al Paese che l’alternativa unica è il ritorno alle urne. Perché se Bersani non dispone dei voti sufficienti, gli altri ne hanno ancora meno. Accettare con le solite storielle sulla responsabilità verso il Paese che il voto dei suoi elettori possa essere ceduto a terzi, significa mettere una pietra tombale sul suo futuro.
Che voti contro, se crede, Beppe Grillo, ad un programma che è parte del suo; che vada sul suo blog a dire a chi l’ha votato per disperazione che il suo voto non servirà a dar vita ad un governo che, per la prima volta dopo venti anni, può cancellare Berlusconi e archiviare l’annus horribilis di Monti. Che spieghi che preferisce rivotare a Giugno per avere percentuali migliori.
Ricordandogli magari cosa succederà, proprio a Giugno, quando scadrà la cassa integrazione per decine di migliaia di lavoratori, andrà a regime il decreto Fornero senza aver risolto il problema degli esodati, si dovrà pagare la rata IMU e scadranno una parte dei novanta miliardi di debito dello Stato verso le imprese.
Dall’Uomo Qualunque a Mariotto Segni, la storia politica italiana è zeppa di occasioni perse e mai più ripresentatesi. Grillo, che non è scemo, troverà certamente sul web materiale al riguardo.
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di Fabrizio Casari
Nella generale confusione, alcuni dati appaiono incontrovertibili. Il PD di Bersani ha perso circa 4 milioni di voti rispetto alle ultime elezioni, ma sono due consultazioni impossibili da paragonare per il quadro nel quale si sono svolte e i partiti che vi hanno partecipato; il Movimento Cinque Stelle ha raggiunto il suo straordinario successo poggiando le radici anche su quei milioni di voti persi dal PD. Monti non raggiunge la doppia cifra causa diritto al voto anche dell’elettorato a medio e basso reddito. Berlusconi sopravvive, pur perdendo milioni di voti, grazie alla connessione sentimentale con il Paese.
Perché forse bisognerà anche cominciare ad analizzare il nostro Paese per quello che è e non per gli spot della Barilla o del Mulino Bianco: in un’Italia dove il fatturato della criminalità organizzata è pari all’80 per cento del PIL, dove l’evasione fiscale è al 120 per cento del PIL e dove solo il costo della corruzione ammonta a sessanta miliardi di Euro, perché mai ci s’immagina che l’elettorato dovrebbe auspicare ordine, disciplina fiscale, onestà e regole di comportamento?
Pensare che ci sarebbe un’Italia della “società civile” in lotta contro quella dei furbetti è stupido: l’italiano è “civile” o furbo a seconda della parte in commedia che le circostanze gli presentano come utile. Se gli conviene indignarsi s’indigna, se gli conviene tacere tace, se gli conviene la corruzione si fa comprare senza tremare. Berlusconi lo sa e offre denaro sotto forma di rimborsi, offre denaro sotto forma di allentamento della pressione fiscale e giustificazione dell’evasione, propone un modello di vita che ha nel disprezzo delle regole il suo cuore pulsante e indica negli organismi di controllo il male per i controllati, che genialmente identifica con il paese intero.
Insomma ripropone con maggiore grandezza quanto Lauro faceva a Napoli: compra i voti. Ma mentre Lauro usava le scarpe e la pasta, Berlusconi usa mezzi più sofisticati e non paga nemmeno di tasca sua. Quei voti li compra prima dagli elettori (e vanno sul nostro bilancio) e poi in Parlamento; un’unica spirale corruttiva verso la quale larga parte del popolo italiano prova tutt’altro che sdegno, anzi. Basta vedere il voto in Lombardia, spesso autodefinitasi “capitale morale”: ma dove?Nelle ore successive alla disfatta elettorale del PD, appena mitigata dalla maggioranza assoluta alla Camera in virtù dell’infame Porcellum, sono diverse le ipotesi che si affacciano. Le peggiori sono quelle che indicano in Bersani il responsabile della sconfitta e che ritengono che se il candidato fosse stato Renzi sarebbe stata vittoria. I flussi elettorali dicono il contrario. Proprio il saccheggio di Grillo conferma quanto Bersani fosse l’espressione di un centrosinistra troppo moderato e privo di vision, intento solo a proporre aggiustamenti di rotta, non una rotta diversa. Se al posto di Bersani ci fosse stato Renzi, il PD sarebbe ancora più indietro di dove è arrivato.
A Bersani si possono però certamente assegnare colpe gravissime sulla modalità di conduzione della campagna elettorale sia nelle forme (saporifere e spesso incomprensibili) sia nei contenuti (difficile vederci elementi di decisa inversione di rotta rispetto al governo precedente). In questo senso il pellegrinaggio in Germania di Bersani è risultato emblematico per la continuità delle politiche di bilancio improntate sul rigore e timide o addirittura inutili sul versante della crescita.
La ripetuta rassicurazione sulla disponibilità a co-governare con Monti è stata la dimostrazione di come davvero il PD non riesce a leggere la società italiana e il suo malessere, di come davvero ha perduto ormai ogni cognizione identitaria con il disagio sociale e si trastulla discettando di finanza, mercati e spread senza pensare minimamente alle vittime di una crisi che si vedono ulteriormente colpiti dalle ricette vessatorie e dannose per la ripresa di cui Monti è stato il fedele applicatore. E non può quindi che destare allegria la misera fine dei sogni del proconsole della Germania, come l’ha apostrofato il Premio Nobel per l’economia Paul Krugman.
La malattia del PD si chiama moderatismo; è figlia di una costruzione partitaria sbagliata e priva di contenuti che è sempre più percepita come una aggregazione di casta; di una lettura della società italiana e dei suoi flussi elettorali vecchia di anni; di una coazione a ripetere gli stessi errori di analisi del quadro sociale e culturale del paese, del suo humus profondo e della sua difficoltà ormai strutturale a interloquire con una politica priva di ogni senso identitario e comunitario; di una errata valutazione del mercato dell’offerta politica che li spinge a formulare proposte che sono lontane da quelle attese e percepite come giuste, necessarie, distintive rispetto allo schieramento opposto. La sensazione netta è che la miscela di due passati non crea un futuro.Lo scenario che si prospetta per il PD non lascia molte strade percorribili: un accordo su un’agenda di governo con Grillo. Qualunque opzione di accordo con Berlusconi sarebbe folle, indecente, insostenibile, indigeribile. Farebbe sprofondare il partito al di sotto delle due cifre e porterebbe Grillo al 40% dei voti. Quello che va intrapreso, invece, è un ragionamento sereno sullo scenario che si ha di fronte, che tra scadenze istituzionali e Costituzionali non lascia spazio per ipotesi di ritorno alle urne entro due mesi.
Dunque il PD può, deve, presentarsi a Grillo con alcune proposte di governo che siano condivise dal M5S e praticabili nel breve e medio periodo. A cominciare dalla legge sul conflitto d’interessi e la riforma elettorale, dalla riduzione del numero dei parlamentari e dei loro emolumenti e da altri risparmi di natura “etica” prima ancora che finanziaria, come la riduzione del 50% della flotta pubblica di autoblu e dei mega-stipendi ai manager pubblici.
Sul piano delle politiche attive per il lavoro, va dato il via al salario sociale come proposto da Grillo (lo SMIC francese, né più né meno) e ad un sostegno pubblico alla green economy, così come la riaffermazione del carattere pubblico e universalistico dei beni e servizi sociali; sul fisco va data un’inversione di marcia attraverso l’introduzione di una patrimoniale e di una riduzione della pressione fiscale per i meno abbienti.
I risparmi immediati possono arrivare dallo stop all’acquisto dei caccia F35 e dal progressivo ritiro delle missioni militari all’estero. Quindi un blocco dei fondi previsti per il Ponte sullo stretto e la TAV e immediata riconversione di quei fondi in un piano operativo di riassetto idrogeologico dell’Italia, nel quale le imprese costruttrici possono partecipare riconvertendo così lavoro e capitali sottratti alle mega opere inutili e dannose come Tav e Ponte. Un’Italia dove qualunque pioggia diventa un cataclisma ha bisogno di essere messa in sicurezza con un grande progetto di opere pubbliche a difesa dei suoli, non di mega strutture inutili, dannose e pericolose.
Sono solo una parte delle iniziative che si potrebbero prendere per migliorare il quadro deprimente del Paese, ma sono voci di un’agenda che recepiscono alcuni dei punti salienti del programma dei grillini e non sono in contrapposizione con quello di PD e SEL. Grillo, che giustamente dal suo punto di vista rifiuta inciuci d’ogni tipo, non potrebbe sottrarsi dal governo (come non lo ha fatto nelle giunte locali) ove il programma fosse coerente con quanto proposto in campagna elettorale e sa benissimo che un suo rifiuto a permettere la formazione di un governo con questi obiettivi provocherebbe un fenomeno di rigetto tra la parte meno sprovveduta del suo elettorato.
L’arrivo del Movimento 5 Stelle porta comunque una ventata di novità e la sua dimensione, frettolosamente definita come “antipolitica”, è già di per sé una proposta politica. Coglierne gli aspetti praticabili (che sono molti) e ricostruire il fronte progressista sulla base di un nuova politica fatta di giustizia e prospettive di cambiamento è l’unico modo per non affondare nella palude dove, sinistramente, tra i partiti e gli elettori non è chiaro quale siano gli animali più pericolosi.
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di Antonio Rei
Più dei numeri a questo punto conta la sostanza: l'Italia non è governabile. Quello che il Porcellum dà, il Porcellum toglie. Alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio il centrosinistra ha conquistato il vergognoso premio di maggioranza alla Camera partorito dalla mente di Roberto Calderoli, ma ha mancato clamorosamente l'obiettivo al Senato. E non di poco. Allo stato attuale, non esiste alcuna soluzione possibile a Palazzo Madama: anche a voler proporre un'improponibile alleanza (come alcuni paventavano) che parta da Sel e arrivi a Monti passando per il Partito Democratico, la soglia della maggioranza assoluta (158 seggi) rimane comunque una chimera.
Un risultato del genere è forse il peggiore che ci si potesse attendere, perché sancisce una situazione di stallo difficilmente superabile, soprattutto in vista delle rigide scadenze che attendono il nuovo esecutivo. Le Camere dovranno essere pronte ai blocchi di partenza il 15 marzo e un mese dopo si riuniranno in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Come stabilito dalla Costituzione, la seduta si svolgerà esattamente 30 giorni prima che termini il mandato del Presidente in carica. Insomma, a un calendario di questo tipo non si può sfuggire. Scordiamoci di rivotare almeno fino a giugno, ammesso che la destra abbia un qualche interesse a sostenere un governo di larghe intese per cambiare la legge elettorale e tornare alle urne il prima possibile.
I dati numerici più impressionanti che emergono dalle ultime elezioni sono due: il boom del Movimento 5 Stelle e l'ancor più inatteso recupero del centrodestra, che in un mese di campagna elettorale è riuscito a colmare gran parte del gap che lo separava dagli avversari. La rimonta è stata possibile grazie a Silvio Berlusconi e alle sue indiscutibili doti di piazzista. Il Cavaliere ha letteralmente comprato il voto degli italiani, sparando a casaccio le solite promesse fiscali: dal rimborso dell'Imu sulla prima casa al condono tombale, passando per l'abolizione dell'Irap.
Questo la dice lunga sulla qualità di una buona fetta del nostro elettorato. Italiani popolo di evasori e costruttori abusivi? Sì, ma non solo. O almeno, non è questo il punto. Al di là degli illeciti penali e/o amministrativi, ciò che più colpisce è la totale mancanza di senso dello Stato che caratterizza circa un terzo dei nostri connazionali. Persone cui evidentemente non interessa nulla della comunità in cui vivono e il cui campo visivo è drammaticamente limitato al proprio orticello. Sono ancora disposti a credere a tutto, anche alle promesse più inverosimili, reiterate nei decenni e sistematicamente infrante. Irriducibili avversari delle regole, hanno un unico scopo: pagare il meno possibile ed essere liberi di fare il proprio comodo, senza porsi il problema delle conseguenze. La regola aurea di questa ampia categoria è una sola: "Se non provi a fare il furbo, sei un fesso".
Berlusconi tutto questo lo ha capito benissimo fin dal 1994. Parla allo stomaco ingordo degli italiani e lo lusinga con l'abilità di chi saprebbe vendere ghiaccio nell'Antartide. Noi purtroppo, pinguini sprovveduti, continuiamo a comprare, o meglio a farci comprare (con i nostri soldi) da chi per anni ha massacrato il Paese, gettandolo in una delle crisi sociali ed economiche più gravi della storia repubblicana. Per un paio di banconote siamo disposti a dimenticare tutto.Chi invece di questi meccanismi non ha mai capito nulla è il centrosinistra, riuscito nell'impresa titanica di farsi sfuggire le elezioni in cui - a rigor di logica - avrebbe dovuto trionfare. I peccati sono tanti, ma partiamo dai più recenti. Innanzitutto, la campagna elettorale. Mentre il Cavaliere spadroneggiava sui media promettendo qualsiasi cosa agli italiani, Pier Luigi Bersani nel migliore dei casi rimaneva fermo. Immobile. Ed era la performance migliore, considerando che abbiamo assistito anche ad imbevibili tournee europee e a un sapido comizio al teatro romano Ambra Jovinelli in compagnia di Nanni Moretti. Nel segno di quell'intellettualismo snob e radical chic che da decenni taglia le gambe alla sinistra italiana.
Ma oltre alla totale insipienza comunicativa, non bisogna dimenticare il sublime masochismo politico. Ieri sera Enrico Letta ha parlato con un velo di stupore della crisi sociale che attraversa l'Italia. Un po' tardi per ricordarsene, no? E' davvero incredibile che il Pd non abbia compreso la necessità di proporsi come alfiere di un cambiamento radicale. A sentir parlare Bersani sembrava quasi che lo status quo del Paese fosse accettabile nelle linee generali, pur necessitando di qualche illuminato ritocco qua e là. Il risultato inevitabile è stato che gli esasperati (non solo gli esodati) hanno preferito dissociarsi, votando per Beppe Grillo.
L'harakiri definitivo è arrivato quando il Partito Democratico ha fatto sentire chiaramente ai suoi potenziali elettori la puzza di una "inevitabile" alleanza con il centro montiano. Non si sono resi conto che il Professore è acclamato come una rockstar solo a Bruxelles e nei Cda. Non in Italia.
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di Carlo Musilli
Ma perché la rete sì e la tv no? Perché mai accettare un'intervista per poi tirarsi indietro all'ultimo minuto? Il voltafaccia di Beppe Grillo nei confronti di Sky lascia un senso di profonda tristezza, non esattamente quello che ci si aspetterebbe dal leader di un movimento auto-definitosi rivoluzionario. In un primo momento il comico genovese aveva acconsentito a farsi intervistare dai giornalisti della televisione satellitare. Era tutto pronto per la diretta, che doveva svolgersi dal suo camper. Alla fine però Grillo ci ha ripensato e si è tirato indietro, comunicando la decisione con un tweet.
La giustificazione che ha fornito è la stessa già usata più di una volta per distinguersi dalla massa. Sul sito del Movimento è comparso un video in cui si sostiene che esistono "due modi per fare campagna elettorale. Il primo è serviti e riveriti nei salotti tv, magari con “trasmissioni cucite addosso. Noi preferiamo il secondo: nelle piazze, tra la gente. Perché la politica è della gente". Poi Grillo ha aggiunto: "I politici vanno in tv, ma che cosa ci vanno a fare? Io ho rifiutato e credo di aver fatto bene. Questi vanno e poi dicono tutto e il contrario di tutto. Sono dei ridicoli, devono andare a casa".
Secondo i ben informati, il passo indietro è arrivato su precisa indicazione del braccio destro Casaleggio, sovrano assoluto della comunicazione grillina, che avrebbe sconsigliato al suo amico Beppe di tornare in tv proprio ora. La ragione è facile da immaginare: visto che nei sondaggi il trend del Movimento 5 Stelle è in risalita, sottoporsi alle domande dei cronisti avrebbe rappresentato un rischio difficile da calcolare.
E se Grillo avesse dimostrato un qualche minimo segno d'incertezza o di difficoltà nelle risposte? Il danno d'immagine sarebbe stato garantito. Di certo, tutto si può dire di Grillo, tranne che sia un uomo particolarmente avvezzo al contraddittorio faccia a faccia.Insomma, a livello elettorale, i calcoli di Casaleggio sono perfetti. Peccato che sia esattamente il modo in cui si comportano i politici di tutto il mondo. Chi sta calando nelle preferenze vuole esporsi, cerca il confronto, perché sa che è l'unico modo per ricominciare a salire. Chi invece sta accelerando nella corsa valuta la questione dalla prospettiva opposta, perché sente di avere più da perdere che da guadagnare.
Non convince neanche la demonizzazione a priori della televisione. Come ogni filosofia del partito preso, c'è qualcosa che non quadra. Nessuno nega che l'uso più comune della tv in campagna elettorale sia quello del megafono, accostato alla bocca il più delle volte per vacui proclami, promesse fumose e spot talmente malriusciti da risultare canzonatori. Il problema però non è nel mezzo, ma appunto nell'uso che se ne fa. Grillo avrebbe potuto rispondere onestamente a domande legittime: una bella intervista televisiva non ha meno valore di un post sul blog o di un comizio.
Anzi, probabilmente ne ha di più. Per una ragione semplice: nel confronto con il giornalista tv non hai a che fare né con lettori affezionati, né con la folla dei tuoi seguaci, ma con un professionista che ti dovrebbe incalzare, cercando di scovare le contraddizioni e chiarire le ambiguità. Non puoi ragionare a lungo sulle risposte come davanti alla tastiera di un computer: devi replicare subito, facendo attenzione al tono della voce, a come ti muovi. Se tentenni, se esiti, si vede.
Quella di Grillo, però, non è stata una mossa vincente su tutta la linea: dando buca a Sky ha fatto anche un favore ai suoi avversari, che hanno avuto buon gioco ad attaccarlo. "Grillo non va in tv perché là qualche domandina devono fartela", ha ironizzato Pier Luigi Bersani. E i montiani al seguito: il Premier "chiede il dibattito. Grillo rifiuta anche le interviste. Questione di stile". Ma la verità è che il Professore vuole lo scontro per cercare di scippare voti, mentre Grillo lo rifiuta per non rischiare di perderne. L'assalto e la fuga non sono opposti, ma i due lati della stessa medaglia: il calcolo elettorale. Ed è comunque politica, con la democrazia e il diritto ad essere informati, c'entra davvero poco.
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di Fabrizio Casari
A sentire il cavaliere nero, non ci sarebbe da stupirsi - e meno che mai indignarsi - per le tangenti che le imprese italiane pagano per ottenere appalti o commesse all’estero. Sarebbe l’unico modo, a suo dire, per poter gareggiare all’estero e pareggiare le attività dei competitor internazionali. In questo senso, il comportamento dei vertici di Finmeccanica sarebbe improntato al senso di realtà; una sorta di adeguamento dovuto ad una condizione oggettiva. Se vuoi vincere, devi oliare i meccanismi.
Intendiamoci: quanto a oliare i meccanismi Berlusconi sa di cosa si parla. La sua è autorità riconosciuta in materia, come hanno sentenziato i tribunali della Repubblica italiana. E nello specifico non c’è nemmeno da chiedersi se parla come imprenditore o come politico: in entrambe le vesti la sua modalità di manovra in ordine alla questione è stata identica. Ma quello che stupisce è come altri soggetti - nella politica e soprattutto tra i media - si lancino senza ritegno nella difesa dell’operato dei vertici di Finmeccanica, sposando in qualche modo l’idea delle tangenti come una sorta di necessità inderogabile, quasi un atto dovuto per poter lavorare, come se non esistesse il reato di corruzione internazionale.
Siamo in presenza di una sottocultura nazionale del “fine che giustifica i mezzi”, dell’adagio che recita “una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso” e potremmo proseguire con tanti altri detti popolari; tutti a concepire la corruzione come un peccato inevitabile e dunque veniale, qualcosa nella migliore delle ipotesi riprovevole ma la cui condanna sarebbe “puro moralismo”. Perché due sono le abitudini radicate nel Belpaese: la prima è corrompere e farsi corrompere, la seconda é accusare di “moralismo” chi denuncia la corruzione.
In discussione non c’è la possibilità (a volte, è vero, quasi un obbligo) di ottenere l’appoggio di mediatori internazionali, lobbisti si dovrebbe dire, che facilitano i rapporti con le entità preposte grazie al loro network di relazioni. Nessuno vive nel mondo delle favole ed è perfettamente risaputo che il denaro elargito direttamente o indirettamente a chi si trova nella posizione giusta favorisce il buon fine del contratto.
Ingaggiare costoro, riconoscendogli una somma fissa o una percentuale sull’affare, non è di per sé un reato, purché la cifra venga regolarmente iscritta a bilancio e, soprattutto, purché corrisponda a quanto effettivamente versato. Quando la cifra non viene iscritta a bilancio trattasi di reato (occultamento di fondi, evasione fiscale e contributiva) e ove invece, pur iscritta a bilancio, risulta superiore a quanto effettivamente versato, si configura una chiara attività destinata alla creazione di fondi neri, utilizzabili poi a fini di corruzione o concussione oppure a scopo esportazione di capitali.
Nell'affaire Finmeccanica, secondo i Pm, una parte consistente dei finanziamenti relativi ai mediatori ritornava in Italia, destinazione Orsi, che a sua volta li girava a Lega e CL. Dunque non ci si trova di fronte ad una remunerazione dell’attività di lobby, ma ad una vera e propria tangente a soggetti italiani che nulla con la commessa di elicotteri all’India avevano a che fare.
Siamo al settantaduesimo posto nella classifica mondiale dei paesi che combattono la corruzione. Non è un caso se in diciassette anni di governo e tre di opposizione, il cavaliere sia riuscito nella storica impresa di impedire che una qualunque legge che inasprisse davvero le norme contro la corruzione, o anche solo che rendesse questa più semplice da individuare e più rapida da colpire vedessero la luce. Straordinaria invece è stata la rapidità con la quale i suoi governi hanno depenalizzato i reati societari afferenti la corruzione e il falso in bilancio permettendo i più loschi affari e accentuato invece le pene per chi quegli affari li patisce.
Solo in Italia, infatti, si può andare in carcere per essere entrati clandestinamente sfuggendo alla fame e alla guerra e solo in Italia si può essere processati per aver fumato un paio di spinelli. Ma sempre solo in Italia si possono allegramente truccare i bilanci delle società di qualunque ordine e tipo, evadere o eludere il fisco (la differenza, come si sa, risiede nella bravura del fiscalista), esportare illecitamente capitali (tanto arrivano i condoni) compiere abusi edilizi (tanto arriva la sanatoria) e inquinare il territorio.Il costo sociale ed economico che rappresenta la corruzione per il nostro paese è pari a sessanta miliardi di Euro all’anno. Sono risorse enormi che vengono sottratte all’imprenditoria piccola, grande e media, che influiscono sulla qualità e sui costi dei servizi pubblici e sulla moralità di funzionari pubblici e privati che certificano l’iniquità del trattamento e delle opportunità, stabilendo classifiche infami dove la furbizia, le famiglie potenti e le relazioni amicali, oltre che il malaffare, prevalgono sul merito, determinando carriere e conti in banca, tenore di vita e opportunità mentre respingono competenze e valori di tutti coloro che di quella struttura di potere non possono avvalersi.
E anche sul piano imprenditoriale ci sono fior di aziende che competono lealmente, mostrando una capacità di eccellenza operativa, qualità dei prodotti e prezzi concorrenziali che le pone ai primi posti nel mondo in diversi settori di beni e servizi, ma che sempre più raramente riescono a imporre la qualità del loro merito sugli “arrangiamenti” dell’altrui metodo.
Le accuse che formulano i Pm dovranno reggere alla fase dibattimentale e, per quanto ci riguarda, insistiamo a considerare chiunque innocente fino a prova del contrario, incolpevole fino alla verità processuale della sua colpevolezza. Ma giustificare la corruzione e le tangenti e definire una pratica indegna una necessità, aggiunge solo indecenza alle già penose condizioni in cui il nostro sistema industriale, finanziario e mediatico si dimena. Non a caso Berlusconi ha operato per venti anni in connessione sentimentale con l’Italia e gli italiani. Una riscossa morale del paese al pari di quella economica e sociale non è più rinviabile. Anche per questo andiamo a votare. Impugnare bene la matita aiuta a tenere la schiena dritta.