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di Antonio Rei
Più dei numeri a questo punto conta la sostanza: l'Italia non è governabile. Quello che il Porcellum dà, il Porcellum toglie. Alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio il centrosinistra ha conquistato il vergognoso premio di maggioranza alla Camera partorito dalla mente di Roberto Calderoli, ma ha mancato clamorosamente l'obiettivo al Senato. E non di poco. Allo stato attuale, non esiste alcuna soluzione possibile a Palazzo Madama: anche a voler proporre un'improponibile alleanza (come alcuni paventavano) che parta da Sel e arrivi a Monti passando per il Partito Democratico, la soglia della maggioranza assoluta (158 seggi) rimane comunque una chimera.
Un risultato del genere è forse il peggiore che ci si potesse attendere, perché sancisce una situazione di stallo difficilmente superabile, soprattutto in vista delle rigide scadenze che attendono il nuovo esecutivo. Le Camere dovranno essere pronte ai blocchi di partenza il 15 marzo e un mese dopo si riuniranno in seduta comune con i rappresentanti delle Regioni per eleggere il nuovo Capo dello Stato. Come stabilito dalla Costituzione, la seduta si svolgerà esattamente 30 giorni prima che termini il mandato del Presidente in carica. Insomma, a un calendario di questo tipo non si può sfuggire. Scordiamoci di rivotare almeno fino a giugno, ammesso che la destra abbia un qualche interesse a sostenere un governo di larghe intese per cambiare la legge elettorale e tornare alle urne il prima possibile.
I dati numerici più impressionanti che emergono dalle ultime elezioni sono due: il boom del Movimento 5 Stelle e l'ancor più inatteso recupero del centrodestra, che in un mese di campagna elettorale è riuscito a colmare gran parte del gap che lo separava dagli avversari. La rimonta è stata possibile grazie a Silvio Berlusconi e alle sue indiscutibili doti di piazzista. Il Cavaliere ha letteralmente comprato il voto degli italiani, sparando a casaccio le solite promesse fiscali: dal rimborso dell'Imu sulla prima casa al condono tombale, passando per l'abolizione dell'Irap.
Questo la dice lunga sulla qualità di una buona fetta del nostro elettorato. Italiani popolo di evasori e costruttori abusivi? Sì, ma non solo. O almeno, non è questo il punto. Al di là degli illeciti penali e/o amministrativi, ciò che più colpisce è la totale mancanza di senso dello Stato che caratterizza circa un terzo dei nostri connazionali. Persone cui evidentemente non interessa nulla della comunità in cui vivono e il cui campo visivo è drammaticamente limitato al proprio orticello. Sono ancora disposti a credere a tutto, anche alle promesse più inverosimili, reiterate nei decenni e sistematicamente infrante. Irriducibili avversari delle regole, hanno un unico scopo: pagare il meno possibile ed essere liberi di fare il proprio comodo, senza porsi il problema delle conseguenze. La regola aurea di questa ampia categoria è una sola: "Se non provi a fare il furbo, sei un fesso".
Berlusconi tutto questo lo ha capito benissimo fin dal 1994. Parla allo stomaco ingordo degli italiani e lo lusinga con l'abilità di chi saprebbe vendere ghiaccio nell'Antartide. Noi purtroppo, pinguini sprovveduti, continuiamo a comprare, o meglio a farci comprare (con i nostri soldi) da chi per anni ha massacrato il Paese, gettandolo in una delle crisi sociali ed economiche più gravi della storia repubblicana. Per un paio di banconote siamo disposti a dimenticare tutto.
Chi invece di questi meccanismi non ha mai capito nulla è il centrosinistra, riuscito nell'impresa titanica di farsi sfuggire le elezioni in cui - a rigor di logica - avrebbe dovuto trionfare. I peccati sono tanti, ma partiamo dai più recenti. Innanzitutto, la campagna elettorale. Mentre il Cavaliere spadroneggiava sui media promettendo qualsiasi cosa agli italiani, Pier Luigi Bersani nel migliore dei casi rimaneva fermo. Immobile. Ed era la performance migliore, considerando che abbiamo assistito anche ad imbevibili tournee europee e a un sapido comizio al teatro romano Ambra Jovinelli in compagnia di Nanni Moretti. Nel segno di quell'intellettualismo snob e radical chic che da decenni taglia le gambe alla sinistra italiana.
Ma oltre alla totale insipienza comunicativa, non bisogna dimenticare il sublime masochismo politico. Ieri sera Enrico Letta ha parlato con un velo di stupore della crisi sociale che attraversa l'Italia. Un po' tardi per ricordarsene, no? E' davvero incredibile che il Pd non abbia compreso la necessità di proporsi come alfiere di un cambiamento radicale. A sentir parlare Bersani sembrava quasi che lo status quo del Paese fosse accettabile nelle linee generali, pur necessitando di qualche illuminato ritocco qua e là. Il risultato inevitabile è stato che gli esasperati (non solo gli esodati) hanno preferito dissociarsi, votando per Beppe Grillo.
L'harakiri definitivo è arrivato quando il Partito Democratico ha fatto sentire chiaramente ai suoi potenziali elettori la puzza di una "inevitabile" alleanza con il centro montiano. Non si sono resi conto che il Professore è acclamato come una rockstar solo a Bruxelles e nei Cda. Non in Italia.
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di Carlo Musilli
Ma perché la rete sì e la tv no? Perché mai accettare un'intervista per poi tirarsi indietro all'ultimo minuto? Il voltafaccia di Beppe Grillo nei confronti di Sky lascia un senso di profonda tristezza, non esattamente quello che ci si aspetterebbe dal leader di un movimento auto-definitosi rivoluzionario. In un primo momento il comico genovese aveva acconsentito a farsi intervistare dai giornalisti della televisione satellitare. Era tutto pronto per la diretta, che doveva svolgersi dal suo camper. Alla fine però Grillo ci ha ripensato e si è tirato indietro, comunicando la decisione con un tweet.
La giustificazione che ha fornito è la stessa già usata più di una volta per distinguersi dalla massa. Sul sito del Movimento è comparso un video in cui si sostiene che esistono "due modi per fare campagna elettorale. Il primo è serviti e riveriti nei salotti tv, magari con “trasmissioni cucite addosso. Noi preferiamo il secondo: nelle piazze, tra la gente. Perché la politica è della gente". Poi Grillo ha aggiunto: "I politici vanno in tv, ma che cosa ci vanno a fare? Io ho rifiutato e credo di aver fatto bene. Questi vanno e poi dicono tutto e il contrario di tutto. Sono dei ridicoli, devono andare a casa".
Secondo i ben informati, il passo indietro è arrivato su precisa indicazione del braccio destro Casaleggio, sovrano assoluto della comunicazione grillina, che avrebbe sconsigliato al suo amico Beppe di tornare in tv proprio ora. La ragione è facile da immaginare: visto che nei sondaggi il trend del Movimento 5 Stelle è in risalita, sottoporsi alle domande dei cronisti avrebbe rappresentato un rischio difficile da calcolare.
E se Grillo avesse dimostrato un qualche minimo segno d'incertezza o di difficoltà nelle risposte? Il danno d'immagine sarebbe stato garantito. Di certo, tutto si può dire di Grillo, tranne che sia un uomo particolarmente avvezzo al contraddittorio faccia a faccia.
Insomma, a livello elettorale, i calcoli di Casaleggio sono perfetti. Peccato che sia esattamente il modo in cui si comportano i politici di tutto il mondo. Chi sta calando nelle preferenze vuole esporsi, cerca il confronto, perché sa che è l'unico modo per ricominciare a salire. Chi invece sta accelerando nella corsa valuta la questione dalla prospettiva opposta, perché sente di avere più da perdere che da guadagnare.
Non convince neanche la demonizzazione a priori della televisione. Come ogni filosofia del partito preso, c'è qualcosa che non quadra. Nessuno nega che l'uso più comune della tv in campagna elettorale sia quello del megafono, accostato alla bocca il più delle volte per vacui proclami, promesse fumose e spot talmente malriusciti da risultare canzonatori. Il problema però non è nel mezzo, ma appunto nell'uso che se ne fa. Grillo avrebbe potuto rispondere onestamente a domande legittime: una bella intervista televisiva non ha meno valore di un post sul blog o di un comizio.
Anzi, probabilmente ne ha di più. Per una ragione semplice: nel confronto con il giornalista tv non hai a che fare né con lettori affezionati, né con la folla dei tuoi seguaci, ma con un professionista che ti dovrebbe incalzare, cercando di scovare le contraddizioni e chiarire le ambiguità. Non puoi ragionare a lungo sulle risposte come davanti alla tastiera di un computer: devi replicare subito, facendo attenzione al tono della voce, a come ti muovi. Se tentenni, se esiti, si vede.
Quella di Grillo, però, non è stata una mossa vincente su tutta la linea: dando buca a Sky ha fatto anche un favore ai suoi avversari, che hanno avuto buon gioco ad attaccarlo. "Grillo non va in tv perché là qualche domandina devono fartela", ha ironizzato Pier Luigi Bersani. E i montiani al seguito: il Premier "chiede il dibattito. Grillo rifiuta anche le interviste. Questione di stile". Ma la verità è che il Professore vuole lo scontro per cercare di scippare voti, mentre Grillo lo rifiuta per non rischiare di perderne. L'assalto e la fuga non sono opposti, ma i due lati della stessa medaglia: il calcolo elettorale. Ed è comunque politica, con la democrazia e il diritto ad essere informati, c'entra davvero poco.
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di Fabrizio Casari
A sentire il cavaliere nero, non ci sarebbe da stupirsi - e meno che mai indignarsi - per le tangenti che le imprese italiane pagano per ottenere appalti o commesse all’estero. Sarebbe l’unico modo, a suo dire, per poter gareggiare all’estero e pareggiare le attività dei competitor internazionali. In questo senso, il comportamento dei vertici di Finmeccanica sarebbe improntato al senso di realtà; una sorta di adeguamento dovuto ad una condizione oggettiva. Se vuoi vincere, devi oliare i meccanismi.
Intendiamoci: quanto a oliare i meccanismi Berlusconi sa di cosa si parla. La sua è autorità riconosciuta in materia, come hanno sentenziato i tribunali della Repubblica italiana. E nello specifico non c’è nemmeno da chiedersi se parla come imprenditore o come politico: in entrambe le vesti la sua modalità di manovra in ordine alla questione è stata identica. Ma quello che stupisce è come altri soggetti - nella politica e soprattutto tra i media - si lancino senza ritegno nella difesa dell’operato dei vertici di Finmeccanica, sposando in qualche modo l’idea delle tangenti come una sorta di necessità inderogabile, quasi un atto dovuto per poter lavorare, come se non esistesse il reato di corruzione internazionale.
Siamo in presenza di una sottocultura nazionale del “fine che giustifica i mezzi”, dell’adagio che recita “una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso” e potremmo proseguire con tanti altri detti popolari; tutti a concepire la corruzione come un peccato inevitabile e dunque veniale, qualcosa nella migliore delle ipotesi riprovevole ma la cui condanna sarebbe “puro moralismo”. Perché due sono le abitudini radicate nel Belpaese: la prima è corrompere e farsi corrompere, la seconda é accusare di “moralismo” chi denuncia la corruzione.
In discussione non c’è la possibilità (a volte, è vero, quasi un obbligo) di ottenere l’appoggio di mediatori internazionali, lobbisti si dovrebbe dire, che facilitano i rapporti con le entità preposte grazie al loro network di relazioni. Nessuno vive nel mondo delle favole ed è perfettamente risaputo che il denaro elargito direttamente o indirettamente a chi si trova nella posizione giusta favorisce il buon fine del contratto.
Ingaggiare costoro, riconoscendogli una somma fissa o una percentuale sull’affare, non è di per sé un reato, purché la cifra venga regolarmente iscritta a bilancio e, soprattutto, purché corrisponda a quanto effettivamente versato. Quando la cifra non viene iscritta a bilancio trattasi di reato (occultamento di fondi, evasione fiscale e contributiva) e ove invece, pur iscritta a bilancio, risulta superiore a quanto effettivamente versato, si configura una chiara attività destinata alla creazione di fondi neri, utilizzabili poi a fini di corruzione o concussione oppure a scopo esportazione di capitali.
Nell'affaire Finmeccanica, secondo i Pm, una parte consistente dei finanziamenti relativi ai mediatori ritornava in Italia, destinazione Orsi, che a sua volta li girava a Lega e CL. Dunque non ci si trova di fronte ad una remunerazione dell’attività di lobby, ma ad una vera e propria tangente a soggetti italiani che nulla con la commessa di elicotteri all’India avevano a che fare.
Siamo al settantaduesimo posto nella classifica mondiale dei paesi che combattono la corruzione. Non è un caso se in diciassette anni di governo e tre di opposizione, il cavaliere sia riuscito nella storica impresa di impedire che una qualunque legge che inasprisse davvero le norme contro la corruzione, o anche solo che rendesse questa più semplice da individuare e più rapida da colpire vedessero la luce. Straordinaria invece è stata la rapidità con la quale i suoi governi hanno depenalizzato i reati societari afferenti la corruzione e il falso in bilancio permettendo i più loschi affari e accentuato invece le pene per chi quegli affari li patisce.
Solo in Italia, infatti, si può andare in carcere per essere entrati clandestinamente sfuggendo alla fame e alla guerra e solo in Italia si può essere processati per aver fumato un paio di spinelli. Ma sempre solo in Italia si possono allegramente truccare i bilanci delle società di qualunque ordine e tipo, evadere o eludere il fisco (la differenza, come si sa, risiede nella bravura del fiscalista), esportare illecitamente capitali (tanto arrivano i condoni) compiere abusi edilizi (tanto arriva la sanatoria) e inquinare il territorio.
Il costo sociale ed economico che rappresenta la corruzione per il nostro paese è pari a sessanta miliardi di Euro all’anno. Sono risorse enormi che vengono sottratte all’imprenditoria piccola, grande e media, che influiscono sulla qualità e sui costi dei servizi pubblici e sulla moralità di funzionari pubblici e privati che certificano l’iniquità del trattamento e delle opportunità, stabilendo classifiche infami dove la furbizia, le famiglie potenti e le relazioni amicali, oltre che il malaffare, prevalgono sul merito, determinando carriere e conti in banca, tenore di vita e opportunità mentre respingono competenze e valori di tutti coloro che di quella struttura di potere non possono avvalersi.
E anche sul piano imprenditoriale ci sono fior di aziende che competono lealmente, mostrando una capacità di eccellenza operativa, qualità dei prodotti e prezzi concorrenziali che le pone ai primi posti nel mondo in diversi settori di beni e servizi, ma che sempre più raramente riescono a imporre la qualità del loro merito sugli “arrangiamenti” dell’altrui metodo.
Le accuse che formulano i Pm dovranno reggere alla fase dibattimentale e, per quanto ci riguarda, insistiamo a considerare chiunque innocente fino a prova del contrario, incolpevole fino alla verità processuale della sua colpevolezza. Ma giustificare la corruzione e le tangenti e definire una pratica indegna una necessità, aggiunge solo indecenza alle già penose condizioni in cui il nostro sistema industriale, finanziario e mediatico si dimena. Non a caso Berlusconi ha operato per venti anni in connessione sentimentale con l’Italia e gli italiani. Una riscossa morale del paese al pari di quella economica e sociale non è più rinviabile. Anche per questo andiamo a votare. Impugnare bene la matita aiuta a tenere la schiena dritta.
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di Antonio Rei
Ci vuole del talento a dribblare le responsabilità, negare le colpe, nascondere i propri interessi sempre e comunque. La classe politica italiana ne ha da vendere, ma questo non basta a cancellare l'evidenza. Giuseppe Orsi, ormai ex amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, non ha ottenuto i suoi incarichi per caso. La sua nomina è stata indiscutibilmente politica: decisa sotto l'ultimo governo Berlusconi, sancita e confermata dalla squadra di Mario Monti. E' una verità scomoda, visto che siamo in campagna elettorale e Orsi è appena stato arrestato per corruzione. Ma rimane pur sempre una verità.
Lo scaricabarile degli ultimi giorni fa sorridere per una ragione elementare: il Tesoro è azionista di Finmeccanica con oltre il 30% del capitale ed è quindi assolutamente ovvio che sia l'Esecutivo a scegliere il management. E a dover rispondere di quelle scelte.
Vediamo di ricostruire in breve la storia di Orsi, che è diventato ad del gruppo della difesa il 4 maggio 2011. La sua investitura è arrivata dopo una lunga battaglia fra l'allora ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, e l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che sosteneva la candidatura di Pier Francesco Guarguaglini, già da nove anni presidente della società.
A spuntarla è stato il numero uno del Tesoro, che poteva contare sull'appoggio della Lega e dell'Udc (attuale alleata di Monti). Oltre a una certa dimestichezza con l'ambiente cattolico, Orsi poteva contare in particolare sull'amicizia di Roberto Maroni. Per quanto il leader leghista oggi possa cercare di smarcarsi, minacciando perfino querele a pioggia, ci sono dei dati (o dei sospetti) innegabili.
Il primo è un'intercettazione in cui Orsi si rivolge al buon vecchio Bobo in questi (sgrammaticati) termini: "Io dico sempre comunque se non c'è Roberto Maroni a fare l'ultimo miglio, col cavolo che io qua c'ero". E Maroni risponde serafico: "Esatto… Esatto…". Secondo: la moglie del capo del Carroccio lavora da anni all'Aermacchi, società del gruppo Finmeccanica.
Proseguiamo con l'era dei tecnici. Orsi è diventato presidente della società (carica che ha cumulato a quella di ad) a inizio dicembre 2011, il che ha fatto di lui il primo manager nominato dal governo Monti. Il via libera decisivo è stato quello del ministero dell'Economia, in quei giorni guidato dal Professore in persona, con Vittorio Grilli a fare il vice.
In un'altra intercettazione, Orsi rivela all'amico Ettore Gotti Tedeschi (ex IOR) di aver visto "consulenze inutili" di Finmeccanica all'ex moglie di Grilli e dice: "Gli ha lasciato qualche casino in giro, di buchi. (...) Gli ho sistemato la cosa". Le consulenze sono state poi smentite da Orsi, da Grilli e dall'ex moglie. Nessuno però ha mai capito per quale assurdo motivo l'ex dominus di Finmeccanica ne abbia parlato a Gotti.
Fingendo d'ignorare tutto questo, diversi commentatori sostengono che l'anno scorso - quando Orsi ricevette l'avviso di garanzia - Monti avrebbe voluto sostituirlo, ma non ha potuto farlo per l'opposizione di Pdl e Lega. Che i due partiti di destra fossero contrari è facile da credere, ma questo non toglie che per rimuovere i manager di una controllata pubblica non ci sia bisogno di una votazione in Parlamento. Insomma, se davvero avesse voluto, Monti avrebbe potuto decapitare Finmeccanica. Difficile che il Pdl potesse far cadere il governo per il licenziamento di un manager indagato.
Ma quali sono le accuse contro Orsi? La sospetta corruzione risale a quando il manager era a capo della Agusta Westland, controllata di lusso di Finmeccanica. I pm parlano di una tangente da 51 milioni di euro versata ad alti funzionari e generali indiani su una commessa da 550-600 milioni di euro per la fornitura di 12 elicotteri.
La mazzetta sarebbe stata pagata dal vertice della società a intermediari residenti all'estero: Guido Ralph Haschke e Carlo Gerosa, entrambi arrestati in Svizzera. Ma non è finita, perché di quei 51 milioni - sempre secondo l'accusa - 10 sarebbero stati girati all'inglese Christian Michel, indicato dai magistrati di Napoli come "uomo di Orsi". I pm - stando a quanto riporta Gianni Dragoni su Il Sole 24 Ore - scrivono che i 10 milioni sarebbero tornati "a Orsi per soddisfare le richieste di alcuni partiti politici italiani, la Lega Nord e Cl ed in particolar modo la Lega Nord che lo avrebbero appoggiato per la sua nomina ad amministratore delegato di Finmeccanica". Perché è così che si fa con gli amici.
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di Fabrizio Casari
Pare colta da improvvisa eccitazione la campagna elettorale italiana. C’é il candidato Monti, che non è candidabile e che mira solo a non far vincere gli altri; poi il candidato Berlusconi, che finge di non esserlo e punta solo al (suo) condono tombale. Adesso c’è anche il candidato Bersani che si batte per vincere ma che sembra aver paura di governare. Insomma, tra chi è candidato senza poterlo essere, chi lo è senza confessarlo e chi vuole vincere ma senza incassare, questa campagna elettorale è l’emblema di quel gigantesco equivoco che si chiama, ostinatamente e quasi a rischio di querela, politica italiana.
La destra, in loden o col borsalino, si agita molto. Monti si candida a tutto o quasi: alla guida del suo raggruppamento, ma contemporaneamente ad allearsi con la destra senza Berlusconi e, perché no, con la sinistra senza Vendola. Disturbo della personalità evidente: pensava di essere quello che tutti chiamano e poi ha scoperto essere colui che nessuno vuole.
Berlusconi, invece, ha chiarito qual’era il “quid” che mancava al segretario Alfano: la proprietà del partito. Ha due risultati su tre a disposizione: vincere o, comunque, cercare di perdere con minor margine possibile per continuare a ricattare il paese a vantaggio suo e delle sue aziende.
Per Bersani il discorso è diverso: i sondaggi che mutano negativamente, sembrano subire l’influenza di una campagna elettorale priva di grinta e di polemica politica. Sembra confondere la serietà e la credibilità con l’assenza di qualunque innovazione; tutto compostezza e niente entusiasmo, ritiene che sia opportuno dichiarare che, anche vincendo, si regolerà come se non fosse successo, affermando che anche ove ottenesse il 51%, si muoverà come se avesse ottenuto il 49. Significa, né più né meno, dire che si vorrebbe vincere ma non governare.
Un caso privo di precedenti, l’unico nel quale chi ottiene la maggioranza assoluta dichiara che prenderà solo quella relativa. Retaggio di vecchie tesi sul compromesso storico, sembra non tener conto che il centro dei moderati ce l’ha già in casa. O si ritengono i Tabacci e i Fioroni dei giacobini, o dei pretoriani della laicità dello Stato?
Se i sondaggi dicono il vero, quello di Bersani sta diventando un tipico esempio di come tentare di perdere le elezioni che si potevano solo vincere. Ogni qualvolta che nomina Monti come interlocutore immediato del dopo voto, il PD perde qualche migliaio di voti. La domanda è netta e senza possibilità di risposta multipla: Bersani ha capito quale sia la differenza di opinioni e aspirazioni tra chi vota PD-SEL e chi vota Lista Civica di Monti? Ritiene che la ragioneria sia più forte della politica? Che il voto popolo della sinistra sia acquisito quale che sia la campagna elettorale? Sarebbe un errore madornale.
La comunicazione, particolarmente in campagna elettorale, non è un accessorio secondario. Proprio Berlusconi ha insegnato quanto valore abbia nello spostare milioni di voti. La campagna elettorale non è solo una competizione tra due programmi diversi; è anche il momento nel quale l’evocazione di un sogno, l’emozione di una battaglia, serve a far identificare milioni di elettori con un programma, con un simbolo persino, costruendo una relazione inscindibile con l’aspirazione ad un futuro diverso. O davvero si crede che invece che di giustizia sociale, equità e diritti civili i sogni raccontino del riordino dei conti?
A detta dei soliti fini strateghi della politica, Bersani cercherebbe di rassicurare i mercati con il timore che questi possano attivarsi in un attacco speculativo sui nostri titoli di Stato che indurrebbe così gli elettori a ritenere che solo la presenza di Monti ci mette al riparo. Dunque, volendo evitare che il premier sia considerato l’unico elemento di garanzia per i risparmiatori e le imprese, cerca di cooptarlo nell’Italia post-berlusconiana, ipotizzando una sorta di Grande coalizione tra il centro e il centrosinistra.
Peccato però che l’obiettivo si riveli un boomerang: perché proprio questa linea assegna a Monti una centralità che diversamente non avrebbe, e perché dal momento che l’unica utilità di Monti è quella di togliere voti a Berlusconi, insinuando la futura alleanza con il professore si ottiene il risultato di regalare un formidabile strumento di propaganda a Berlusconi, che sa ricompattare la destra. Nello stesso tempo, si rischia anche di irritare l’elettorato di sinistra che avverte l’inciucio e può spostare così i suoi voti da Vendola verso Ingroia o Grillo.
Che Bersani voglia governare con Monti non è ovviamente vero, non del tutto almeno. Bersani ha certamente in programma una ricetta decisamente diversa da quella del presuntuoso professore bocconiano e ritiene Monti necessario sia per l’interlocuzione con l’Europa dei poteri forti che per le riforme istituzionali, temi che l’agenda politica del prossimo governo dovrà affrontare alla pari del risanamento dei conti pubblici e del rilancio dell’economia del Paese. Ma illudersi che l’appoggio del centro sulle riforme istituzionali e su alcune leggi (conflitto d’interessi al primo posto) sia gratuito, è una grossa ingenuità.
Se invece, come sicuramente è, si è consapevoli che Monti sia tutto meno che un uomo di parola ed affidabile, sarebbe ora di smetterla, per i prossimi 15 giorni di campagna elettorale di evocarlo ad ogni piè sospinto. Sarà bene che Bersani capisca in fretta una cosa: Monti è letteralmente detestato dalla maggior parte degli italiani, oggi più di ieri. Tentare un abbraccio può risultare davvero fatale.
Bene fa quindi Nichi Vendola a porre un argine e a ricordargli che il programma comune non prevede l’applicazione delle politiche neoliberiste delle quali il professore è noioso interprete. E risulta specioso stabilire se Vendola alza il tiro per ritrovare spazio dentro la coalizione; fa bene a ricordarlo comunque. Diversi esponenti del PD, da Fassina a D’Alema, persino Boccia, ricordano ora la centralità di Vendola nella coalizione e lo stesso Bersani ripete che l’alleanza con SEL non si tocca. Sarà, ma nemmeno la si può svuotare giorno dopo giorno con i continui ammiccamenti al professore. Dal momento che proprio il professore e Vendola si ribadiscono la reciproca incompatibilità, Bersani la smetta di proporre unioni contro natura e contro logica politica.
E a proposito di chi dovrebbe cambiare registro nella comunicazione politica, ci rivolgiamo a Ingroia. Le esigenze di visibilità del pm fanno sì che il centrosinistra sia l’unico suo obiettivo polemico. Trovare un attacco alla destra nelle parole di Ingroia è semplice come trovare un operaio candidato con Monti. Ma il giorno dopo il voto lui uscirà di scena e torneranno i partiti che lo sostengono, esattamente come avverrà con la lista Monti; dunque si goda il momento di celebrità e provi a dare il suo contributo alla sconfitta della destra, se ne è capace.
I suoi deliri forcaioli, come già gli hanno ricordato i migliori esponenti di Magistratura Democratica, non appartengono alla storia della cultura di sinistra; non basta recitare il ruolo di cavallo di Troia di Ferrero e Di Pietro (segue l’intendenza, cioè Diliberto) a colorare di rosso il grigio scuro. L’autonominatosi “partigiano della Costituzione” provi a leggerla e magari sfogli anche Cesare Beccaria, che di Diritto ne sapeva qualcosa più di lui. Un ideale di società con le sbarre alle finestre lo lasci ai residui della reazione, che non mancano purtroppo.
Alla sua lista toccherebbero invece i temi dell’antiliberismo, di una politica estera di pace, di una riconversione ecologica del tessuto produttivo, dei diritti civili, dell’ammodernamento dello stato sociale, della difesa della scuola pubblica e della dignità del lavoro. Sarebbe questo un buon modo per legittimare una scommessa politica altrimenti identificabile solo come pura operazione autoreferenziale e politicista, di pura sopravvivenza di ceto politico.
Il rischio di una sconfitta, del permanere di una maggioranza di destra e di un Parlamento a maggioranza berlusconiana che dovrà eleggere anche il nuovo Capo dello Stato, lo ricordi tutto il centrosinistra, è responsabilità di tutti. Nessuno può permettersi di far perdere tutti noi nell’illusione di far vincere lui.