di Fabrizio Casari

Come lo Scajola dei tempi migliori, Bernabè sostiene di non sapere nulla della vendita di Telco. Due sono i casi: o Bernabè è ignaro di ciò che succede fra gli azionisti dell’azienda che dirige o si burla della Commissione parlamentare presso la quale si trova in audizione. Ad ogni modo, quale che sia la risposta, più verosimilmente la seconda, Bernabè non può rimanere la suo posto sia se ignora sia se gioca: attraverso Telco, Telefonica diventerà comunque azionista di maggioranza di Telecom, mentre il tanto atteso scorporo dell'unico asset davvero strategico per l'Italia, ovvero la rete, è ancora oggi in forse.

Né si sa che fine farà il progetto per la banda larga. Ciò detto, superata l’indignazione, è bene sapere che Bernabè non è uno qualunque, ma uno straordinario esempio di amministratore delegato.

Di quei personaggi senza particolare spessore e senza particolari qualità che le famiglie di nuovi ricchi utilizzano per amministrare i giocattoli che vendono e comprano senza sborsare un euro del loro patrimonio personale, che anzi si rimpingua nei periodi di luce per poi consegnare ai conti pubblici i periodi d’ombra. E’ il capitalismo italiano: un capitalismo straccione, che mette in fila nei suoi salotti capitalisti senza capitali, manager rampanti incapaci di managerialità ma accomunati dall’appartenenza alle lobbies trasversali che li insediano nei posti dirigenziali per esercitare un’azione di controllo dall’esterno.

Un giro di valzer che piazza gli amici e spiazza i non allineati, che offre favori per vantare o restituire favori e che si assicura la fidelizzazione di dirigenti alla rete di appartenenza, cui devono riconoscimento ed obbedienza in cambio della garanzia di non rimanere mai a terra.

E’ così che muore un paese, le sue industrie, le sue speranze. Soffocando il merito e imponendo un metodo, quello della cooptazione per affinità elettive, per appartenenza a congregazioni semi-occulte, per amicizie influenti e per legami indicibili con la politica, che gli permettono di diventare ricchi a patto di rendere ricchi i partiti o i singoli personaggi che li nominano. Questo combinato disposto di imprenditori straccioni e assistiti e manager incapaci e raccomandati ha fatto strame di quella che un tempo era una piccola ma significativa potenza industriale.

Che sia un’azienda piena di debiti come Telefonica ad acquistare un’azienda piena di debiti come Telecom è un mistero per i comuni mortali. La stretta creditizia in vigore in tutta Europa non consentirebbe, in linea teorica, un impegno degli istituti di credito già seriamente in difficoltà.  Per non parlare poi di quelli spagnoli, secondi solo a greci e portoghesi per acqua alla gola.

Quanto a Telecom, distrutta dai capitani coraggiosi alla Colanninno (che, non contento, è andato a distruggere anche ciò che restava di Alitalia) e dai Furbetti Provera, risulta solo l’ultimo degli asset strategici italiani progressivamente inghiottiti dalle fauci rampanti dei nuovi ricchi, aiutati oltre ogni misura e ogni conflitto d’interesse da una classe politica che peggiore sarebbe inimmaginabile.

Dopo la distruzione del polo chimico, dell’acciaio, del comparto auto, di quello alimentare e dell’industria della moda, del calcio persino, ora tocca alla telefonia.

In un futuro incerto per Eni, Enel e la parte pubblica di Finmeccanica, la fine della proprietà italiana per la più grande azienda di trasporto aereo e di traffico telefonico riporta l’Italia al primo dopoguerra. Al prossimo G8 sarà già tanto se potremo portare i caffè.

Quando un paese non controlla le sue reti di comunicazione e trasporto, non ha nessun potere sulla moneta e non riesce più a disegnare una politica industriale, la sovranità nazionale e la stessa dignità di paese viene meno. D’altra parte, a maggior ragione visti i risultati, è buona norma, in presenza di manager e politicanti che vogliono controllare tutto, chiedersi una volta per tutte chi è che controlla loro.

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