di Fabrizio Casari

La sentenza della Corte d’Appello sull’abbattimento sul cielo di Ustica del DC-9 dell’Itavia è uno dei pochi atti di giustizia che la vicenda in sè possa esibire. Si condanna lo Stato italiano a risarcire le famiglie delle vittime, perché la negligenza e l’incapacità di monitorare e difendere adeguatamente lo spazio aereo, l’incolumità dei cittadini viene giustamente considerata mancanza grave di cui dover rispondere.

Ma la sentenza non si limita solo a definire le responsabilità dei vertici militari, perché assume in toto la tesi sostenuta a suo tempo dal giudice Priore e dai familiari delle vittime che hanno sempre sostenuto come il DC9 fu colpito da un missile. E riconoscere che sia stato un missile lanciato da un aereo militare ad abbattere il DC9 e non una bomba a bordo, come per decenni hanno tentato di spacciare per depistare e disinformare i vertici militari e politici, significa ammettere che vi fu un atto di guerra nei cieli italiani. Non fu infatti lanciato per errore il missile che abbatté l’aereo uccidendo 81 persone, tra cui 11 bambini, tra passeggeri ed equipaggio.

Quella maledetta sera del 27 Giugno del 1980, l’aereo che copriva la rotta Bologna-Palermo, partì con due ore di ritardo rispetto all’orario schedulato. Venne seguito nella parte finale del suo volo dai radar di Ciampino e Licola fino a quando scomparve, intorno alle 20,00, mentre era in discesa per atterrare all’aeroporto palermitano di Punta Raisi. Non vi arrivò mai causa coinvolgimento in un combattimento aereo. Ci sono state diverse versioni sull’accaduto, ma quelle fornita dal presidente Cossiga è certamente la più veritiera, peraltro corrispondente a quella fornita dagli stessi libici pur se mai in forma aperta.

Il DC9 dell’Itavia non era, ovviamente, un obiettivo per nessuno, solo si trovò sulla linea di fuoco del combattimento aereo. Tra chi? Tra due Mirage francesi, (la portaerei Clemenceau era di stanza nel Mediterraneo) e due dei Mig libici di scorta all’aereo presidenziale di Muammar Gheddafi, che sorvolava in direzione opposta la stessa tratta per recarsi a Belgrado in occasione di un vertice dei Paesi Non Allineati (NOAL). L’obiettivo, appunto, era Gheddafi.

I killer designati dalla Nato, per l’occasione, erano i Mirage francesi con l’appoggio degli americani. L’operazione, che era un obiettivo primario degli Usa (ci riprovarono bombardando Tripoli e la casa di Gheddafi nel 1986) venne condivisa con la Francia. Parigi d’altra parte non era certo ritrosa ad occuparsi del problema, visto lo scontro con la Libia in Africa, dove era ormai palese l'incremento del ruolo di Tripoli, particolarmente in Ciad.

I servizi di sicurezza libici vennero avvertiti all’ultimo momento (presumibilmente dai russi, gli stessi che li avvisarono dell’attacco su Tripoli nel 1986 e diedero di nuovo il tempo di mettere in salvo Gheddafi) di ciò che attendeva il loro leader sull’Adriatico. I libici invertirono così immediatamente verso Malta la rotta dell’aereo presidenziale con Gheddafi a bordo e mandarono due dei quattro Mig di scorta ad impegnare i Mirage per evitare che inseguissero l’aereo con il leader libico. Uno dei due Mig libici venne ritrovato sulla Sila, abbattuto nello scontro con i francesi, l’altro, presumibilmente, si trova nei fondali dello Jonio.

Il DC9 dell’Itavia è stato quindi vittima di un’azione di guerra destinata all’eliminazione fisica di un Capo di Stato straniero. La domanda di fondo è sostanzialmente una: l’Italia, intesa come sua intelligence e vertice politico-militare, era al corrente di quanto era in programma? Oppure venne tenuta all’oscuro per evitare che i ben noti buoni rapporti di Roma con la Libia potessero determinare un sabotaggio del piano criminale?

A sostegno della prima ipotesi c’è il modello operativo consueto della Nato, che prevede sempre il coinvolgimento attivo del suo paese-membro di maggiore prossimità territoriale nelle operazioni. Difficile dunque che la Nato potesse pensare ad un’azione di guerra nelle nostre acque territoriali senza consultarci. Difficile, ma non impossibile.

A sostegno della seconda ipotesi c’è invece la storia di relazioni positive tra l’Italia e buona parte del Medio Oriente (libici e palestinesi in particolare) che in diverse occasioni ha garantito gli interessi italiani, non senza irritare profondamente l’asse Washington-Tel Aviv. Dal caso Mattei alla vicenda di Argo 16, l’aereo dei servizi segreti italiani esploso sul cielo di Marghera nel 1973 (vendetta dagli israeliani in risposta alla liberazione dei palestinesi accusati di voler programmare un attentato a Roma contro la compagnia israeliana El Al) sono numerosi gli avvenimenti che hanno caratterizzato la differenza politica tra Italia e USA nella politica verso il Medio Oriente.

Nell'ambito di questo scontro ci furono i reciproci atti di sfida sulla gestione dei detenuti palestinesi tra Stati Uniti, Israele. Il più eclatante si registrò a Sigonella, dove il governo Craxi-Andreotti schierò i VAM dell’aereonautica militare contro la Delta Force statunitense che pensava di togliere con la forza dalle mani del governo italiano Abu Abbas, capo del commando che sequestrò l’Achille Lauro dove venne ucciso il cittadino americano Leo Klingoffer. Lo scontro tra Roma e Washington divenne una dimostrazione eclatante di come le strategie occidentali raramente coincidevano con quelle italiane nell'area, quando l'Italia era un paese.

C’è comunque ad avviso di molti una parte di entrambe le ipotesi in quanto avvenne in quelle ore. I vertici politici del governo italiano furono probabilmente ignorati nella costruzione dell’attentato. Probabilmente si ritenne che informare gli italiani avrebbe potuto mettere a rischio la riuscita dell’operazione, dal momento che Roma non aveva nessun interesse nella fine del regime.

Non solo con Gheddafi i rapporti erano improntati alla reciproca convenienza, ma l’incertezza che sarebbe seguita alla sua uccisione avrebbe messo fortemente a rischio il rapporto privilegiato tra Eni e aziende italiane con la Libia.

Dunque Parigi e Washington decisero con tutta probabilità di non ingaggiare il governo italiano nell’operazione. A conforto ulteriore di un’ipotesi di estraneità delle autorità politiche italiane nella specifica vicenda del DC9 Itavia, c’è poi da dire che difficilmente le autorità italiane avrebbero scelto le rotte civili dello spazio aereo nazionale per un’operazione che poteva essere realizzata in qualunque altro luogo e momento.

Ma questo non esclude affatto la responsabilità dei vertici militari italiani nella gestione delle indagini successive a quanto accaduto nel cielo di Ustica. Responsabilità attiva al momento non provata ma certamente non esclusa. Ci si riferisce, ovviamente, allo sbarramento offerto ad ogni tentativo di ricerca della verità.

La clausola della “doppia obbedienza” (al governo e alla Nato), infatti, può benissimo aver determinato un ruolo attivo della nostra aereonautica militare nell’insabbiamento delle responsabilità nell’operazione, attraverso il “muro di gomma” alzato negli anni successivi. Un muro fatto di bugie, depistaggi e dimenticanze strane che ha visto alcuni generali impegnati a fondo nell’ignominia dell’occultamento della verità ai propri vertici politici e alla nazione.

Nell’abbattimento dell’aereo dell’Itavia sono numerosi i tasselli del mosaico che ha caratterizzato in negativo la storia del nostro paese.

La servitù militare nei confronti della Nato, l’uso della forza da parte dei nostri alleati contro il ruolo dell’Italia in Medio Oriente, la doppia obbedienza dei nostri vertici militari e l’opera di depistaggio e disinformazione operata dai nostri servizi segreti civili e militari sono stati elementi decisivi. La rinuncia ad ogni elemento di sovranità nazionale e la gelosa custodia del segreto che si vorrebbe di Stato ma che in realtà riguarda spesso le attività dei settori deviati della nostra sicurezza nazionale e la copertura delle azioni d’intelligence occidentale con le connivenze italiane, sono alcuni dei tasselli del puzzle italiano, che da Mattei fino a Calipari raccontano la verità nascosta di un'alleanza a senso unico.

La sentenza arriva trentatrè anni dopo i fatti e spazza via d’un colpo trent'anni di menzogne raccontate da militari felloni e traditori. Spazza via anche le vergognose scelte dello Stato che schierò la sua avocatura per difenderli, salvo poi scoprire trattarsi di funzionari infedeli.

Per Daria Bonfietti, instancabile presidente dell’associazione dei familiari delle vittime di Ustica, il governo italiano deve agire coerentemente: qualcuno sapeva e ha taciuto, qualcuno ha negato, qualcuno ha intralciato. Ha pienamente ragione: ora bisogna arrivare alla verità. Perché serve la verità storica, e non solo politica, sull’accaduto.

Ma perché questo sia possibile, é necessario che il prossimo governo italiano ponga con fermezza inderogabile sul tavolo della Nato e su quello del Quay D’Orsay la questione Ustica. L’Italia dispone dei mezzi necessari per ottenere la verità; conosce le leve da azionare per sollecitarla ed è in grado di determinare con esattezza la differenza che separa l’alleanza dal fuoco amico. Se solo vuole farlo. Se non ha paura di sentir dire quello che è successo la notte del 27 Giugno del 1980 e di voler smascherare le coperture utilizzate negli anni a venire per nascondere la verità.

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