di Maura Cossutta

La dichiarazione di Monti circa la sostenibilità del servizio sanitario nazionale non è stata certo una scivolata e anche la sua successiva precisazione tutto è stato fuor che una smentita. “Si dovrà pensare a nuove forme di finanziamento e di organizzazione”: le parole sono state molto chiare e precise e, va detto, per niente condivisibili.

E sono le stesse che il governo aveva scritto quest’estate nel documento ufficiale di presentazione della cosiddetta “spending review”: “Conseguire i risparmi anche attaccando i confini dell’intervento pubblico”, decidendo “se un’attività può essere mantenuta all’interno del settore pubblico, se deve essere rimandata per intero verso il settore privato dell’economia oppure se il coinvolgimento pubblico nel suo sostegno deve essere ridotto”.

Altro che scivolata, è un intervento a gamba tesa che ha lasciato spiazzato lo stesso ministro Balduzzi, che si affanna a precisare, a negare quello che ormai a tutti è palese: l’attacco è al sistema universalistico, “una conquista che non ci possiamo più permettere”. E’ questo il refrain del momento, supportato da argomentazioni apparentemente molto “tecniche”, ma in realtà molto ideologiche.

Allora, proviamo a mettere le cose in ordine. Non sostenibile? Davvero la sanità italiana non è finanziariamente sostenibile? Cominciamo con il dire che la spesa sanitaria italiana (pubblica e privata) è al 9,3% del PIL (di cui il 7,3% di spesa pubblica). La media Ocse è al 9,5%, con punte del  12% (Olanda) e con Francia e Germania che arrivano all’11% del PIL mentre la Gran Bretagna si ferma al 9,6%.

Dunque l’Italia è il paese tra i più avanzati in Europa che spende meno, esattamente - secondo il rapporto CEIS 2012 - per ogni italiano un quarto in meno di quanto spendono Germania, Francia e gli altri tre Paesi dell’Europa a 6 (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi).

Inoltre - come evidenziano le relazioni della Corte dei Conti - il finanziamento pubblico alla sanità è stato via via pesantemente ridotto, la spesa da almeno sette anni è al di sotto delle previsioni, mentre il disavanzo da sei anni continua a scendere. Addirittura nel 2011 la spesa sanitaria è stata di 112 miliardi, cioè 2,9 miliardi in meno rispetto al dato previsto e riconfermato nel quadro di preconsuntivo contenuto nella Relazione al Parlamento. Per la prima volta, rispetto all’anno precedente, la spesa sanitaria ha ulteriormente ridotto sua incidenza sul Pil: dal 7,3 %  al 7,1%.

E poi sono arrivati i tagli della spending review e della manovra finanziaria, 26 miliardi dal 2010 al 2015. Non è certo retorica dire che ormai per la sanità pubblica è vero “allarme rosso”, mentre aumentano le disuguaglianze nello stato di salute della popolazione, con un divario crescente tra nord e sud del paese, con sole otto regioni che riescono a garantire i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Di cosa parliamo quindi? La spesa sanitaria pubblica non è sostenibile? Rispetto a cosa?

Giova per altro ricordare - visto che il Premier ricorda ogni giorno che sono solo i saldi finali ad avere importanza contabile - che la spesa sanitaria pubblica pesa sì per il 7,3% del PIL, ma restituisce valore per quasi il 13%. E, come afferma il rapporto CEIS 2012, “potenzialità straordinarie di sviluppo economico per il Paese si potrebbero realizzare invertendo l’approccio tradizionale che ha considerato fino ad oggi la sanità solo come spesa e mai come risorsa.

Il comparto sanitario dà al Paese più di quanto costa in termini di PIL; una politica di investimenti nel settore potrebbe accrescere ulteriormente il valore aggiunto in termini di ricchezza prodotta dalla filiera salute e dal suo indotto”. Insomma una fonte di ricchezza oltre che l’affermazione di un diritto, altro che una spesa insostenibile.

E poi Monti lancia il sasso ma ritira la mano: parla di “nuove” forme di finanziamento, ma a quali precisamente si riferisce? Parla di un aumento della compartecipazione a carico dei cittadini? Parla dei Fondi integrativi? Ma queste non sono forme “nuove” di finanziamento. Infatti il sistema dei tickets è già da tempo un’aberrante forma di finanziamento del sistema, che non ha certo disincentivato la domanda inappropriata, ma ha colpito invece proprio le fasce fragili e chi ha più bisogno di assistenza. Si intende insistere su questa iniquità?

Fondi integrativi? Anche questi fanno già parte del sistema, perché sono appunto “integrativi” e non sostitutivi della copertura pubblica (e magari si affrontasse con rigore il tema della loro riorganizzazione, vincolandoli per esempio alla copertura di quello che ancora il nostro sistema non garantisce, come la non autosufficienza). E allora?

Monti dica chiaramente se i risparmi che intende ottenere con i tagli alla sanità pubblica servono per essere reinvestiti per l’adeguamento del sistema (assolutamente necessario e urgente, per esempio nell’ambito della prevenzione o dell’assistenza territoriale) o se invece andranno a coprire il debito. Dica soprattutto senza infingimenti se la sua è la linea (non certo nuova, anzi ben tristemente nota da molti anni di stagione liberista)  del cosiddetto “secondo pilastro” del sistema pubblico, rappresentato dal mercato assicurativo.

Per tenerlo in equilibrio, bisogna far uscire dal sistema i contribuenti più ricchi? E come verrà finanziata allora la sanità pubblica? L’esperienza degli Stati Uniti insegna che lo sbocco non potrà che essere da una parte una sanità pubblica sempre meno finanziata e quindi più dequalificata e dall’altra sistemi assicurativi sempre più inefficienti e iniqui.

Chi li obbligherà a garantire la copertura per i malati cronici, quelli più complessi, più “costosi”? E quale sistema assicurativo potrà garantire con la stessa spesa pro capite del nostro sistema sanitario nazionale (che è di 1.981 euro l’anno) le 4.500 prestazioni comprese nei LEA? Se il nostro sistema è insostenibile, allora vuol dire che nessun sistema sanitario è sostenibile, tanto più aprendo ai mercati assicurativi.

La discussione è serissima, perché è ormai apertamente in discussione l’universalità del modello pubblico italiano, un sistema che ancora l’Organizzazione Mondiale della Sanità colloca ai primi posti al mondo, anche se - avverte il Censis - “la qualità della sanità sta subendo un peggioramento diffuso, tagliare ancora le risorse per l’assistenza sanitaria vuol dire privare milioni di cittadini di servizi essenziali per la loro salute”.

Una conquista che non ci possiamo più permettere? Un universalismo insostenibile? Sempre di più la parola ora non spetta ai cosiddetti “tecnici” - che in realtà sono solo i portavoce di posizioni squisitamente politiche - ma ai cittadini.

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