di Rosa Ana De Santis

E’ la storia della prima Repubblica e di Tangentopoli, è la lunga stagione del governo berlusconiano del “fare”, è l’ultimo scandalo dei diamanti e dei lingotti dell’integerrima Lega ad aver ormai instillato negli italiani un rifiuto viscerale per la politica e per i partiti. Ed è per questa ragione che la protesta e l’opposizione non passano più, come in passato, per la via delle rappresentanze partitiche e attraverso i sindacati, ma piuttosto per le cinque stelle di Grillo,  la chimera del web e l’inno della piazza libera dalle bandiere che è invece solo il fossile che resta della fine delle ideologie.

Un male assoluto edulcorato dalla retorica del fare. Peccato che il fare non è la tecnica, insegnava la filosofia greca, e il fare nel modo giusto ha bisogno di idee. Idee dell’uomo e della società senza le quali i partiti sono quello che sono oggi. Assemblee di interessi sotto un brand, unione posticce di gruppi d’affari o di esuli, tenuti insieme dalle nostalgie (vedi l’Udc o il Pd) o dai conti bancari.

In tutto questo torna alla cronaca la polemica sul finanziamento. La scusa della corruzione e delle ruberie è, appunto, solo una scusa. Il malcostume imperante non pone un solo argomento decente sul merito della questione. Assegnare alla dimensione “pubblica” il sostegno economico della vita politica è il nucleo di una democrazia concreta. E’ ciò che scongiura il rischio per cui la politica, più di come già non sia, rimanga appannaggio dei ricchi e delle potenti lobby ed è, soprattutto, l’unico vincolo al dovere della trasparenza dei bilanci.

E’ questo il punto che pare sfuggire a molti dei nostri onorevoli. A quelli che vogliono abolire il finanziamento perché hanno in caldo il prossimo magnate che li stipendierà e a quelli che finora hanno gonfiato i rimborsi elettorali e, dalle Alpi della Lombardia al tacco della Puglia, hanno viaggiato e mangiato ostriche gratis per usare una delicata immagine.

E’ la cordata Casini - Bersani - Alfano che vuole difendere il finanziamento pubblico o meglio quel poco che ne rimane sotto forma di “rimborso elettorale” dopo che il referendum del 1993, frutto dello shock di Tangentopoli, ne chiese la cancellazione. Nella proposta di legge che ora giace a Montecitorio c’è il famoso articolo a  nove commi che impone misure ferree di controllo e trasparenza sul bilancio dei partiti e sulla rendicontazione dei famosi rimborsi.

Sancire per legge alcune prassi servirà, secondo i firmatari della legge, a riformare dal di dentro i partiti senza snaturarne il ruolo storico e necessario. Necessario perché la democrazia partecipativa di tipo ateniese non esiste, necessario perché chiunque di qualsiasi estrazione sociale possa non avere un impedimento economico alla militanza politica, necessario a scongiurare, soprattutto in questa fase di recessione, il rischio del populismo che da sempre, agganciandosi alla denuncia, conduce i popoli nelle mani di qualche tiranno.

Che non sarà per forza un dittatore in carne ed ossa, ma magari la disaffezione non soltanto alla vita politica del paese, ma alle idee. Che quando iniziano a sembrare inutili lasciano troppo spazio alla libertà di fare. Qualsiasi cosa.

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