di Rosa Ana De Santis

Nel pieno del dibattito sulla crisi del lavoro, nell’ossessiva riflessione sull’articolo 18 venduto come unica questione politica, quando invece ci si trova di fronte ai licenziamenti, alla precarietà e alla mancanza di crescita, destano ancora più scalpore le storie dei figli. Quelli dei papà illustri di quello stesso governo che incoraggia i giovani ad amare la flessibilità e a non ribellarsi di fronte allo smantellamento progressivo dei diritti, con deroga per i propri pargoli per i quali valgono le regole del noioso posto fisso (e ben pagato) di una volta.

Dalla Fornero alla Cancellieri, da Passera a Profumo, da Catricalà alla Severino, per non parlare dello stesso Monti, i pargoli sono sistemati in incarichi ben remunerati e prestigiosi. Niente, proprio niente, li lega al mondo del precariato e dell’incertezza. Ma le vicende dei figli di papà e mammà del governo dei professori non rappresentano una novità nelle vicende penose di questo scalcinato paese. Non desta meraviglia che i figli di papà riescano a collocarsi meglio e più in fretta.

Non è la velocità delle scorciatoie a suscitare scandalo nel paese delle raccomandazioni o segnalazioni, come vuole chiamarle un certo linguaggio perbene. Stupisce e indigna, semmai, l’ostentata facciata moraleggiante che questo governo si è autoassegnato, ma che ha già perso di fronte ad un paese che - peraltro - non l’ha mai autorizzato a governare dalle urne, come si conviene in una democrazia.

L’auto investitura quasi savonarolesca dei professori convocati per ridare credibilità all’Italia che veniva dai festini di palazzo è già roba per soli estimatori; se non a Bruxelles, almeno in casa. I titoli di scena venduti per edulcorare la disperata condizione dei giovani, soprattutto quelli talentuosi e preparati, non hanno credibilità né valore quando i rampolli di casa, oltre a non avere problemi di collocazione e stipendio, mandano in giro mamma e papà con un duplice incarico: il primo è sistemare loro ben benino, il secondo è di raccontare agli altri quanto è bello perdere un lavoro per l’ebbrezza di cercarne un altro; quando è stimolante non guadagnare mai abbastanza per cadere nella noiosa routine; quanto “fa giovane”  pagare tutto il prezzo della crisi più nera.

Ovviamente i rampolli, ignari della difficoltà di andar via da casa pagando un affitto spesso d’identico importo della borsa di studio o dello stipendio, non si sono mai nemmeno domandati cosa significhi non avere un posto fisso. Nelle chiacchiere tra i risottini e i cognac nei salotti sabaudi l’argomento non viene proprio previsto.

Fossero stati tra noi, invece che nelle boiserie, i ciarlieri professori avrebbero potuto chiedere al collega Passera cosa significhi non avere un posto fisso quando ci si reca in banca per chiedere un mutuo o anche solo un prestito personale, passaggi obbligati per chi non ha case in eredità dai munifici genitori.

Vivere nella bambagia della casa paterna, studiare nella libreria di famiglia, vedersi aprire le porte da esaminatori colleghi dei propri genitori e ricevere chiamate da istituti dove gli stessi genitori hanno ruoli importanti, non favorisce quello sviluppo “in cattività” che si consiglia ai comuni mortali come esercizio per la tempra e il superamento delle avversità.

Forse a forza di puntare il dito sulla casta dei politici, ci siamo dimenticati di prendere in esame quella dei docenti e dei consulenti delle impomatate famiglie della borghesia sabauda e meneghina, come pure di quella romana e quella di discendenza borbonica, che pesano meno ma non sfigurano nel confronto.

La borghesia protegge i suoi figli, li coccola e li nutre, da sempre. Ma solo da poco ha imparato l’arte della sfacciataggine nell’indicare agli altri come affrontare le difficoltà del vivere. La casta dei salotti, alla fine, si dimostra peggiore di quella dei politici, giacché dispone e comanda, si arricchisce e gode, senza nemmeno aver subito il “disturbo” di presentarsi in pubblico e farsi votare. Il consenso serve agli altri, a loro basta il censo.

 

 

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