di Fabrizio Casari

Ovunque si trovi, quale che sia la capitale da dove parla, Monti ripete ossessivamente che rientreremo dal debito in pochi anni e che si deve aumentare la flessibilità del lavoro per rendere l’Italia più appetibile per gli investitori. E giù complimenti, da Obama alla Merkel, da Sarkozy alle comunità finanziarie. Nemmeno più l’ombra della famosa equità minacciata: il vocabolario del professore monocorde si è finalmente liberato di quel concetto decisamente anomalo per lui.

Appare ormai chiaro, infatti, che rientrato in parte il differenziale dello spread, il governo Monti si sta dedicando al tentativo di riscrivere le norme che regolano il welfare, le relazioni industriali e il mercato del lavoro; in una parola, l’organizzazione economica e sociale del paese. E appare altresì chiaro in che direzione e a vantaggio di chi lo sta facendo. L’ossessione contro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori ha un valore simbolico molto più alto di quello materiale, per questo l’accanimento. La sua abolizione contiene in sé un valore paradigmatico delle relazioni industriali che si vuole imporre ai lavoratori e proporre alle imprese.

A leggere il bilancio degli oltre cento giorni di governo è difficile scorgere elementi di discontinuità. Non ci sono patrimoniale, riduzione delle spese militari e uscita dai conflitti dove siamo impegnati; non ci sono imposizioni o anche solo regolamentazioni al sistema bancario e mancano provvedimenti contro le speculazioni dei cartelli assicurativi; nessun controllo sulle aziende che aggirano le normative con trucchi contabili, non vengono previsti gli stop alle opere pubbliche dispendiose, disastrose ed inutili come la TAV e non c’è la vendita all’asta delle frequenze televisive.

Abbiamo assistito al grande battage mediatico sul contrasto all’evasione, ma il ripristino del reato di falso in bilancio non è alle viste. Meno che mai una legge drastica sul conflitto d’interessi (che d’altronde fatta da questo governo sembrerebbe la metafora del tacchino che si autoinvita alla cena di Natale). Il tutto innaffiato con l’illusione ottica sulle liberalizzazioni: davvero vogliamo credere che un po’ più di licenze di taxi e l’abolizione del tariffario minimo per i professionisti, insieme alla possibilità di acquistare le aspirine nei supermercati faranno ripartire il ciclo della crescita economica?

Questo è Monti, uomo di destra ancorato ai desiderata dei poteri forti che lo sostengono fintanto che il suo lavoro premia i loro interessi. Non è un caso, infatti, che il sostegno più vigoroso alla politica di un governo che non tocca i privilegi e si scatena contro i diritti venga dalle file del centrodestra. La continuità del governo Monti con quello Berlusconi, del resto, la ricorda quotidianamente l’attuale Presidente del Consiglio e il fatto che non organizzi festini a luci rosse risulta solo essere indicativo di differenze di etica ed estetica, pur apprezzabili con il suo predecessore.

Ma è indubbio che le scelte di politica economica siano integralmente nel solco del paradigma berlusconiano e, cosa ancora peggiore, nella continuità con la tutela degli interessi di cui l’ex-premier é portatore. Bastino solo, a titolo esemplificativo, lo strangolamento della Rai e il beauty contest sull’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre.

Questo è Monti, dicevamo. Ci si può però domandare come mai il PD, in tutte le sue componenti, non riesca a profferire verbo, ad elaborare critica, a proporre una diversa impostazione da una linea che rischia di farci precipitare verso la Grecia piuttosto che arrampicarci verso la Germania. E, in conseguenza, come possa accomodarsi nel ruolo di spettatore pagante davanti al film della realizzazione del berlusconismo senza Berlusconi.

Nessuna dichiarazione proveniente dal Partito Democratico ha tenuto a precisare come il sostegno del centrosinistra al governo Monti sarà riconfermato solo in presenza di una discontinuità con il regime berlusconiano. Non vorremmo che la strenua opposizione al cavaliere fosse stata in fondo di natura personale, estetica; ritenendolo cioè inadatto a governare non in quanto portatore di una linea economica iniqua ma in forza dei suoi comportamenti personali, certamente lesivi del buon gusto e del bon ton istituzionale.

Può sembrare una forzatura, ma a ben guardare non lo è poi tanto. Quello che ormai distingue il PD è, infatti, una linea che somiglia molto a una resa incondizionata e il sostanziale isolamento della Cgil nello scontro con il governo racconta meglio di ogni altro dettaglio la crisi profonda, strutturale, dell’ammucchiata di ex che compone il partito di Via del Nazareno.

Una domanda appare ineludibile: cosa guadagna il PD dal sostegno a Monti? Oltre alla considerazione delle cancellerie occidentali, cosa porta a casa il PD dal dissanguamento del Paese? Cosa del suo ipotetico programma di governo trova accoglimento nell’attuale Esecutivo? E soprattutto: cosa condivide del suo operare al punto che lo riproporrebbe una volta al governo?

Fino ad ora le risposte, su questi e altri temi, non sono arrivate. O, peggio ancora, quando ci sono state sono risultate pericolosamente simili a quelle fornite dalla destra. Davvero è difficile da capire dove risiedano le differenze tra il programma delle banche e dal governo che da esse dipende e gli obiettivi di chi, da sempre, si dice rappresentante del mondo del lavoro.

Nello scorrere delle giornate, si resta in attesa di un colpo d’ala, di una presa di posizione che vada oltre la battuta per i tg. Di un’idea, di un ragionamento che, pur senza l’ardire di una tesi, faccia intravvedere un disegno di politica economica diverso da quello propinato. Una discontinuità politica, questo è quello di cui si sente il bisogno.

Ma vogliamo fotografare, pur grossolanamente, la situazione all’oggi? Vendola e Di Pietro, ai quali pure diversi meriti vanno riconosciuti, affermano con forza la necessità dell’unità con il PD, riproponendo la foto di Vasto come soluzione alla proposta politica. Difficile dargli torto. Nel contempo però, il PD ricorda che il legame con il centro è inevitabile, mentre Casini rammenta ogni giorno che questo governo è l’aspirazione del passaggio storico verso la rinascita del partito unico dei moderati (e certo non pensa al PD quando lo cita).

Dunque lo scenario è questo: Ferrero insegue Vendola e di Pietro, mentre Vendola e Di Pietro inseguono Bersani; Bersani però insegue Casini, ma Casini insegue Monti e quest’ultimo s’ispira a Berlusconi che, nel frattempo, invita Passera a guidare il PDL futuro. Non è una puntata degli sgommati, è il disegno del tragicomico quadro politico italiano.

Rifletta il PD: senza un disegno diverso, senza l’aspirazione al cambiamento, senza un progetto futuro per un’altra Italia, restano solo l’inciucio e l’equivoco tra il governo e l’amministrazione dell’esistente. E mai come in questo momento nel quale il Paese è piegato, incerto, e non vede prospettive di crescita ed equità, la ricerca di una nuova identità politica e culturale vengono avvertite come indispensabili. Galleggiare nel vuoto dimostra solo che l’inutilità dell’oggi sarà sostituita da quella del domani. Conviene saperlo: non solo nessuno ha votato per Monti, ma nessuno a sinistra voterà per chi lo insegue.

 

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