di Fabrizio Casari

Quella dell’abolizione dell’articolo 18 è ormai l’ossessione dei professori. Il tavolo di concertazione (o di solo reciproco ascolto, par di capire) tra il governo e le parti sociali, continua ad avvitarsi sul mantra del ministro Fornero. Una litanìa, ormai un vero e proprio tormentone dei ministri e di Confindustria, al quale si allinea il codazzo della pubblicistica devota, dice che è che l’articolo 18 “non dev’essere un tabù”. Magari un tabù no, ma una fissazione sì, par di capire.

Eppure i dati che indicano la disoccupazione al suo record storico, con un giovane su tre senza lavoro e le previsioni per l’anno in corso, che parlano di ulteriori 800.000 o un milione di posti di lavoro in meno, letti con puro senso logico e scevri da ogni impostazione ideologica, direbbero che l’emergenza nazionale è la disoccupazione.

Una disoccupazione che ha raggiunto dimensioni spaventose anche in quanto figlia della mancata crescita e delle politiche recessive e che è parente strettissima della giungla contrattuale che ha permesso di concepire un mercato del lavoro a bassissimo tasso di occupazione e di legalità.

I sindacati fanno giustamente rilevare che se l’occupazione e la conseguente crescita interna sono i due pilastri drammaticamente colpiti dalla crisi economica e dalle politiche recessive genialmente studiate per affrontarla (un caso di suicidio assistito, insomma), proprio non c’è nessun bisogno di aiutare ulteriormente le imprese nel favorire l’esodo incontrollato e arbitrario dei lavoratori.

Non occorre essere dei professori, infatti, per capire che non si può invocare maggiore occupazione mentre si eliminano gli strumenti residui per difenderla. Occorre aver studiato da professori per non capire come il progressivo aumento delle disuguaglianze sociali sia nocivo per lo stato dell’economia e di un paese ben più dello spread sui titoli?

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, giova ricordarlo, non impedisce infatti alle aziende con oltre 15 dipendenti di licenziare, ma impone l’esistenza di una “giusta causa” per farlo. L’elemento fondamentale della norma risiede nella necessità di tutelare i lavoratori dai licenziamenti indiscriminati, arbitrari e vessatori che le aziende italiane - Fiat in primo luogo - hanno storicamente privilegiato per ridurre al silenzio la sindacalizzazione interna. Per rimanere al caso Fiat, va ricordato che da Valletta a Romiti e ora a Marchionne, infatti, l’organizzazione sindacale interna alla Fiat è stata oggetto di numerosissimi licenziamenti politici come rappresaglia per le battaglie sindacali interne sostenute dai lavoratori.

In Italia si licenzia con estrema facilità e i circa 46 tipi di contrattualizzazione diversa sono lo strumento per disporre a piacimento della giungla contrattualistica e, non da ultimo, la sede di un pezzo significativo dell’evasione fiscale perpetrata a danno del Paese.

Gli argomenti che la ministro Fornero e il codazzo propongono sono sostanzialmente due: che l’esistenza dell’articolo 18 nei fatti crea due diversi regimi di tutela per i lavoratori (aziende con meno o con più di 15 dipendenti) e che, a cascata, l’erogazione degli ammortizzatori sociali produce un’ulteriore disparità. Infine, si sostiene che l’esistenza dei vincoli sanciti dall’articolo 18 rappresenta un freno alle possibilità di assumere da parte delle aziende e, dunque, contribuisce indirettamente proprio a quella ridotta occupazione che si vuole combattere.

Ebbene, se si vuole davvero la parità delle tutele per tutti, è sufficiente allargare l’applicazione dell’articolo 18 anche alle imprese con meno di 15 dipendenti. Perché non lo si fa? E se si ritiene che chi è fuori dal mercato del lavoro e non usufruisce della cassa integrazione sia penalizzato (e lo è certamente), si può ampliare il sostegno sociale attraverso il reddito di cittadinanza, erogabile insieme alla formazione professionale utile alla ricollocazione futura.

Ma la questione ancora più odiosa, perché volutamente truffaldina, è quella che imputa all’articolo 18 un freno alle assunzioni, perché queste risulterebbero troppo rigide. Ma se così fosse, se cioè fosse il solo articolo 18 a frenare le assunzioni, come mai le aziende con meno di quindici dipendenti (dove quindi la norma non trova applicazione) non assumono? Sarà perché l’articolo 18 niente, assolutamente niente, c’entra con la capacità di produrre lavoro da parte del mercato?

Ma perché dunque questo attacco continuo all’articolo 18? Perché si vuole una sconfitta ed un arretramento dei sindacati e della sinistra di tipo epocale. Il messaggio, soprattutto indirizzato alle nuove generazioni, è che solo rinunciando ai diritti conquistati dai loro padri e dai loro nonni, solo la rinuncia ad essere rappresentati da sindacati e organismi di rappresentanza, potrà aprire il futuro a nuove opportunità di lavoro e progresso. Il modello che si propone è quello delle “zone franche”, prevale l’ideologia delle maquilladoras più che un’idea di riforma del mercato del lavoro. Ma nessun modello economico e sociale accettabile é mai stato edificato sulle fondamenta della schiavitù e si diventa soggetti di diritti proprio quando si smette di essere oggetto di elemosine.

Sul mercato del lavoro, come sulle liberalizzazioni, il governo Monti mente e sa di farlo: non ha nessuna ricetta che non sia l’ossequio alle banche e alla speculazione finanziaria e non ha nessuna idea di come ricostruire il tessuto sociale ed economico del paese. Esaurito il capitolo delle liberalizzazioni, con il quale ha tentato di spiegare che acquistare un’aspirina al supermercato e avere qualche taxi in più siano gli snodi dello sviluppo del Paese (ma guardandosi bene dal toccare banche ed assicurazioni, mercato energetico e telecomunicazioni) oggi tenta di convincerci che per lavorare di più bisogna farsi licenziare di più.

Nel disegnare la sua politica, inoltre, il governo ultimamente ha imboccato con decisione la strada dello sberleffo. Dapprima il rampollo inutile che definisce “sfigati” tutti coloro che, diversamente da lui, sono stati costretti a studiare per tentare una professione, non avendo padri e amici del padre in grado di allocarlo a piacere con i soldi pubblici. Successivamente è stato lo stesso Monti, ospite in casa Mediaset, a dire che il lavoro fisso è una chimera e per fortuna, dal momento che il lavoro fisso è “monotono”.

Eppure il professor Monti, che detesta la monotonia, si è fatto nominare senatore a vita, non proprio un ruolo a tempo determinato ed una attività adrenalinica. Profumatamente pagato con i soldi nostri, pare ormai voler dismettere gradualmente la supposta sobrietà per calarsi nei panni di un uomo vanitoso e supponente. Oggi sono le sue parole ad essere monotone. Impari una lezione, professore: la sobrietà non è dimostrata dall’apparenza mesta e grigia e dal tono di voce monocorde, ma dal saper farsi carico con serietà e rispetto dei destini delle persone in carne e ossa. Anche di quelle che non siedono nei consigli d’amministrazione.

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