di Fabrizio Casari

Dopo alcuni mal di pancia e alcune manovre obbligate di parziale riassetto della coalizione, il partito di proprietà di Silvio Berlusconi ha deciso di sostenere il nuovo governo. Ci sono diverse spiegazioni per questa scelta. Se infatti in una improbabile riconversione democratica della cultura istituzionale urlano al golpe, strepitano contro il commissariamento e ammoniscono contro l’operazione “di palazzo”, votano poi convintamente la fiducia all’Esecutivo. Del resto il PDL non trova nel programma di governo del professore elementi di politica economica così ostili e alcuni degli uomini che compongono il governo, per le idee che professano e gli interessi che rappresentano, sono certamente iscrivibili a un’area antitetica alla sinistra.

Soprattutto pensando ad alcuni neoministri e alla relazione con le gerarchie vaticane, che sostengono con furia e fede il nuovo governo, il PDL trova non pochi agganci con i propri interessi politici e patrimoniali. Vedere perciò il palco del Teatro Manzoni con al centro i tre direttori degli house horgan di famiglia gridare al complotto fa sorridere, soprattutto pensando al fatto che tanta animosità nel quadretto si spiega facilmente: caduto Berlusconi, i loro lauti stipendi sarebbero davvero a rischio. Il Cavaliere, invece, diversamente da Ferrara, Feltri e Belpietro, ragiona e vede lungo, sa cosa significa fare un passo indietro oggi per farne due avanti domani. Certo, qualcosa dovrà sacrificare alla contingenza politica, ma proprio la necessità di evitare le urne nell’immediato ha spinto la destra italiana a far nascere il governo Monti. Perché?

Perché per la prima volta, negli ultimi quindici anni, i sondaggi d’opinione assegnano al Pd, quale che sia la composizione del suo schieramento, la maggioranza relativa. Si potrebbe dire, con non troppa ironia, che forse proprio per questo non si è andati a votare. Certo é per questo che il PDL ha scelto di votare la fiducia a Monti. Giuliano Ferrara pare non essersene accorto, ma le urne da qui a due mesi e mezzo avrebbero rappresentato la definitiva sconfitta per Berlusconi. Il quale, oltre a vedere capitalizzare dalla sinistra il generale ripudio del Paese per il Cavaliere, sarebbe stato additato come l’uomo che, per salvare se stesso, non esita ad affondare il Paese.

Argomento durissimo da affrontare in una campagna elettorale che già si presenta in salita e con problemi di assetto interno non semplici da risolvere. Si aggiunga poi che un’eventuale, pesante sconfitta del Cavaliere avrebbe aperto la strada ad un governo che, sull’onda del mandato popolare, avrebbe forse messo davvero mano ad una serie di norme - dal conflitto d’interessi alla giustizia, dalla riforma fiscale alla normativa anti-trust - che prefigurerebbero una vera e propria debacle per Berlusconi e delle sue aziende.

Rimandando invece di qualche mese il voto, Berlusconi coglie due risultati: il primo è quello di riassettare il partito ormai slabrato, il secondo di avere il tempo per riorganizzare idee, persone e mezzi per lanciare una campagna elettorale durissima (cosa nella quale, però, Berlusconi è maestro). E, diversamente da quanto sarebbe stato affermato nel caso del voto immediato, potrà presentarsi in pubblico asserendo di aver fatto un passo indietro per il bene dell’Italia e che la sua uscita è stata determinata da un attacco speculativo sui titoli di Stato e non su una sua crisi di governabilità. Dunque, altro che interessi privati, ma alto senso del dovere e dello Stato l’hanno costretto a rinunciare al potere. Uno statista, no?

C'è ora un anno e mezzo di tempo a disposizione di Berlusconi per far dimenticare il rifiuto popolare nei suoi confronti. Un anno e mezzo dove nulla sarà risparmiato. La campagna elettorale lo vedrà candidato: le presunte nuove facce (Alfano in testa) sono bubbole. La situazione tutt’altro che rosea delle sue aziende lo obbliga a stare in campo con tutti i mezzi necessari; solo una vittoria potrà, come nel 1994, salvare se stesso e le sue proprietà dal mercato e dalle leggi vigenti.

Quanto ai provvedimenti annunciati da Monti, non a caso Berlusconi si è detto favorevole al ripristino dell’ICI ma non alla patrimoniale. Tassa di successione e patrimonio non si toccano, per le ville si può chiudere un occhio, che è persino utile. Potrà dire che lui aveva abolito l’ICI e chi l’ha sostituito l’ha ripristinata. Ad un paese nel quale 16 milioni di italiani posseggono una casa, il messaggio arriva forte e chiaro. La scommessa del cavaliere è quella di sovvertire i sondaggi per salvarsi. In questo senso, la campagna elettorale è già cominciata.

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