di Carlo Musilli

Come nel romanzo di Dumas i tre moschettieri erano Athos, Porthos e Aramis, ma alla fine ha avuto più successo D'Artagnan, così nella corsa a Bankitalia i tre candidati erano Saccomanni, Grilli e Bini Smaghi, ma alla fine è diventato governatore Ignazio Visco. Fra i bookmakers si è diffuso lo stupore. Fra tutti gli altri, il sollievo. La nomina ufficiale è ancora da venire, ma ormai l'iter da sbrigare è pura formalità.

Contro ogni aspettativa, il nome indicato da Silvio Berlusconi sta bene proprio a tutti. Ieri è stato un rutilare di comunicati e dichiarazioni in cui le parole più ricorrenti erano "professionalità", "autonomia" e "indipendenza". Insomma, apprezzamenti trasversali: dalla furibonda Confindustria al mondo delle associazioni, dal più remoto anfratto della politica fino alla vetta Quirinale.

Visco in effetti non ha nulla che non vada. Economista di alto profilo con una carriera decennale in Banca d'Italia che l’ha portato fino alla carica di vice direttore generale, può contare anche su una solida esperienza internazionale come chief economist nientedimeno che dell'Ocse. La domanda però rimane: se si doveva scegliere un candidato interno a via Nazionale, perché non il direttore generale Saccomanni? Perché scegliere il suo pur valoroso vice?

La risposta è nel modo in cui i nostri governanti concepiscono le istituzioni. In sostanza, una logica aziendale, la stessa che nell'era berlusconiana si è soliti applicare anche alle gerarchie dei partiti e della pubblica amministrazione. Uno schema che estende la pratica della lottizzazione anche alle poltrone che nulla hanno a che vedere (o almeno non dovrebbero) con le guerre di fazione.

Per settimane è andata avanti una miseranda battaglia politica intorno al nome da scegliere per il dopo Draghi. Saccomanni, che sarebbe stato il successore naturale di Supermario a voler seguire il cursus honorum, aveva un grosso handicap: era sostenuto da Silvio Berlusconi. Poco importa che dalla sua parte fossero schierati anche il presidente Napolitano e Sua Maestà uscente Mario Draghi. Il sostegno del Cavaliere è stato sufficiente ad attirare sul direttore generale l'antipatia di Giulio Tremonti, che ha subito sponsorizzato il suo prediletto, Vittorio Grilli.

Ora, quella del direttore generale del Tesoro è sempre parsa una candidatura un po' improbabile (se non altro per la sua compromissione politica), forse addirittura strumentale. In molti hanno interpretato l'impuntatura del ministro non tanto come l'aspirazione a piazzare un proprio uomo ai vertici di Palazzo Koch, ma come un buon pretesto per creare l'ennesima frattura nella maggioranza. Una scusa, un alibi per poi poter rassegnare le dimissioni senza perdere la faccia. Forse sarebbe andata effettivamente così se avesse vinto Saccomanni. Ma alla fine anche Tremonti si è ridotto a più miti consigli e ha portato a casa una mezza vittoria con l'elezione di Visco, la sua "seconda scelta".

Quanto a Bini Smaghi, c'è tutto un altro teatrino di cui rendere conto. Lo scorso aprile Berlusconi aveva promesso al presidente francese Nicolas Sarkozy che il posto nel board della Bce attualmente occupato dall'economista fiorentino sarebbe andato a un francese. In cambio, l'Eliseo avrebbe appoggiato l'ascesa di Draghi a timoniere dell'Eurotower, in sostituzione di Jean Claude Trichet. Piccolo problema: nessuno ha il potere di far dimettere Bini Smaghi, che dovrebbe andarsene di propria iniziativa. Peccato che non abbia alcuna intenzione di farlo, se non in cambio di un incarico altrettanto prestigioso.

Conscio di tenere il coltello dalla parte del manico, il fiorentino ha scelto di forzare la mano, rimanendo avvinghiato con le unghie e con i denti alla sua comodissima poltrona di Francoforte. La sua chiara intenzione era di mostrare i muscoli per lucrare una nomina spettacolare, come appunto poteva essere quella di governatore. Ma aveva fatto male i calcoli. L'atteggiamento eccessivamente sicuro, quasi spocchioso, ha finito con l'innervosire il Capo dello Stato, che pare abbia posto una sorta di veto alla sua elezione.

Inoltre, se alla fine Berlusconi avesse ceduto al ricatto, la nomina del nuovo banchiere centrale sarebbe stata fin troppo smaccatamente drogata dal più deteriore dei do ut des. In sostanza, avremmo eletto il capo di Bankitalia per far piacere al Presidente di un altro Paese. E tutto il mondo se ne sarebbe accorto. Senza contare che dai corridoi di via Nazionale avevano già promesso dimissioni a pioggia nel caso fosse stato nominato Bini Smaghi.

Pericolo scampato, ma la partita nel comitato direttivo della Bce rimane aperta. Sarkozy continua a pretendere il pagamento della cambiale firmata da Berlusconi la scorsa primavera. In verità, non senza qualche ragione: riuscita a immaginare un direttorio della Banca centrale europea in cui due poltrone su sei sono occupate da italiani?

A Parigi no di sicuro, anche perché da quel tavolo rimarrebbero esclusi proprio i francesi, che ad essere onesti hanno un peso a livello continentale ben superiore al nostro. Morale della favola: per evitare di creare un incidente diplomatico grave e di turbare ulteriormente i già precari equilibri della finanza comunitaria, Bini Smaghi dovrà assolutamente lasciare libero quel posto. Resta da vedere quale sarà la contropartita.
 

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