di Fabrizio Casari

Un riflesso. Condizionato o incondizionato che sia, è certamente un riflesso automatico quello che è scattato nella bocca (e forse anche nella testa) di Antonio Di Pietro quando, in consonanza con Maroni, ha proposto il ripristino della Legge Reale. Sarebbe questa, per il leader dell’IDV, la risposta giusta alle violenze imbecilli e autoreferenziali scatenatesi il 15 ottobre.

Intanto, a beneficio della cultura giuridica di Di Pietro, va ricordato che la legge Reale non è stata del tutto abrogata, giacché alcune delle norme in essa contenuta sono tutt’oggi vigenti. Poi, a beneficio della cultura politica del Di Pietro stesso, va ricordato come quella legge, del 1975, ha rappresentato uno spartiacque decisivo tra la giurisprudenza europea e quella emergenziale italiana, che venne in parte (ma solo in parte) superata dalla riforma del Codice di Procedura Penale, nel 1989, a firma di Vassalli e Pisapia.

La Legge Reale assegnò poteri straordinari alle forze di polizia e agli inquirenti: venne concesso l’uso delle armi da fuoco in piazza, la possibilità di effettuare perquisizioni senza autorizzazione del giudice, di operare arresti anche in assenza di flagranza di reato e di fermare per 48 ore un cittadino senza dover comunicare il fermo all’autorità giudiziaria, la quale, a sua volta, aveva a disposizione altre 48 ore per decidere se convalidare o no il fermo. Offrì tiro libero e fermo di polizia, in offesa ad una giurisprudenza che si voleva equa e garantista. La sua applicazione fu un fallimento totale: non impedì negli anni a seguire scontri durissimi di piazza, né l’insorgere e lo svilupparsi del partito armato; il suo bilancio, nei primi 15 anni, contò 254 morti su un totale di 625 vittime.

La legge Reale fu la rappresentazione più evidente dello scollamento intervenuto tra la legge e le norme liberticide che ad essa si sostituirono e il clima politico nel quale venne calata s’iscriveva più nell’idea che il sistema dominante non era giudicabile (“la DC non si fa processare nelle piazze”) che non alle esigenze di una corretta dialettica politica tra governo e opposizione sociale e politica anche al di fuori del Parlamento.

D’altra parte, in una fase storica nella quale il conflitto sociale e politico era altissimo, scegliere la strada delle leggi speciali non era tanto una “estrema ratio” contro la rappresentazione di piazza di quel conflitto, quanto piuttosto la ricerca dell’innalzamento del livello dello scontro tra il potere e chi vi si opponeva. Proprio quelle norme, infatti, ponevano la protesta davanti ad un bivio: arrendersi e lasciare la piazza o difenderla adeguando il livello a quello, altissimo, dell’ipoteca militare che lo Stato imponeva. L’obiettivo spacciato era la difesa dell’ordine pubblico, quello vero era azzerare le lotte sociali con la minaccia delle armi, piegare il conflitto sotto la paura, ridurre ogni istanza politica di rivolta alla compatibilità del differendo parlamentare. Tutto ciò che da questo esulava, diventava da quel momento una sfida all’ultimo sangue.

Il risultato fu drammatico, giacché da un lato esaltò le peggiori pulsioni autoritarie da parte delle forze dell’ordine (che pure stavano conoscendo una stagione di riforme che smilitarizzarono e democratizzarono - anche se non del tutto - la Polizia) e dall’altro spinse nel baratro militarista pezzi interi di ribellione sociale e politica. Nel giro di pochi anni, quelle norme liberticide diedero il loro contributo alla militarizzazione crescente d’intere aree dell’antagonismo gettandole nel dirupo dello scontro militare con lo Stato.

Con questo non va certo sottovalutata la follia armatista che si alimentava della ”autonomia del politico”, per usare un linguaggio di quei tempi, né le suggestioni emozionali di chi davvero credeva che le lotte di massa per invertire i rapporti di forza nella società fossero meno incisive dei colpi di pistola. Poco sembrò importargli che quei colpi erano sparati da soggetti che, privi di delega alcuna, avevano preso le armi in nome e per conto di chi voleva cambiare la società, ma che con loro niente aveva a che fare, niente condivideva e niente voleva avere a che spartire.

La lista nera delle vittime della Legge Reale cominciò dunque dalla messa in un angolo del sistema di diritti e garanzie e fu il primo di una lunga serie di tasselli che composero il domino di una giurisprudenza emergenzialista e liberticida che arrivò in seguito, solo per fare un esempio, a determinare in ben 11 anni l’ammontare del carcere preventivo possibile in attesa di processo. Caso unico al mondo.

Se è a quello schema giuridico che l’On. Di Pietro s’ispira, lo dica con chiarezza. Nessuno, del resto, potrebbe stupirsi più di tanto leggendo il curriculum professionale e politico del padrone dell’IDV. Ma ai danni fatti con le sue disinvolte candidature non dovrebbero sommarsi quelli derivanti da ancor più disinvolte parole in libertà. Dopo i De Gregorio e Scilipoti non si sente davvero la mancanza della riesumazione di Oronzo Reale.

Rispondere con una pulsione repressiva a quanto accade significa rifiutarsi di capire cosa si muove nel tessuto sociale del paese, rinunciare a interpretare e ad agire con il primato della politica. Se davvero fosse la tutela degli spazi democratici la coperta infeltrita che provano a cucire intorno al divieto, allora le strade sarebbero altre, giacché si dispone di mezzi, uomini e conoscenze per operare in chiave preventiva. Ma non sembrano i manifestanti pacifici l’oggetto delle attenzioni; sembra che più che essere interessati a tutelare l’esercizio del dissenso nelle piazze si sia preoccupati di chiudere le piazze alla protesta. Eppure, non è mai successo che la compressione degli spazi di democrazia abbia ridotto la violenza o aumentato il tasso di partecipazione democratica. Così facendo, si vuole aprire un fossato profondo nel quale far cadere qualche gruppo d’imbecilli per poi poter dire, come già qualcuno biascica, che chiedere la caduta del governo e un cambio radicale di politiche sia sinonimo di eversione?

Che siano gli ex-fascisti (ex?) a lanciarsi con enfasi nella gara a chi chiede più repressione e meno spazi, non è del resto strano. La democrazia, diversamente dalla scarlattina, non si attacca. Pare quindi evidente che si vuole approfittare di quanto esibito da 500 soggetti per marginalizzare o criminalizzare quanti si mobilitano contro questo governo e contro questo quadro politico.

Invece, il dato politico centrale di sabato scorso, sul quale ci si dovrebbe confrontare, sono le cinquecentomila persone giunte da ogni dove a dire che c’è un’Italia che vuole riprendersi la parola e lo spazio per pronunciarla. Non sono possibili equivoci al riguardo.

Se mezzo milione di persone scendono in piazza, se l’indignazione contro la guerra della finanza contro il lavoro diventa la parola d’ordine generalizzata, significa che la nostra scalcinata democrazia ha ancora da qualche parte risorse accantonate. Pur alla ricerca di un suo profilo identitario, nel caos di proposte senza senso rilanciate da becchini che si spacciano per medici, un’immensa massa critica si muove per dire che la pagina strappata della sovranità politica non è l’ultima pagina del libro.

Ovunque nel mondo, e anche in Italia, una nuova leva di donne e uomini cerca spazio e rappresentanza; non si riconosce in nessuno ma vuol essere riconosciuta da tutti. Non ha altre ricette se non quella dell’abbandono delle vecchie ricette. Non ha altri poteri se non quello di opporre un rifiuto, non ha altri mezzi se non quello della protesta. Sarà bene costruire un ambito di tutela per questo diritto alla protesta, sia dall’interno che dall’esterno; ma nessuno deve pensare che per eliminare la follia si elimini tout-court il diritto alla pubblica parola. In gioco non c’è la salvaguardia di un’innocenza ormai perduta, semmai la consapevolezza che quando la parola torna ad essere proprietà di tutti, siamo tutti noi che ne beneficiamo.

 

 

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