di Fabrizio Casari

C’è un grande fermento in casa Pd. Non sul programma politico, tantomeno su come dialogare con la società italiana e i movimenti d’opposizione che, pur in modo spesso frammentario incarnano, per affrontare con decisione e coraggio politico l’agonia del regime berlusconiano. Il fermento riguarda invece i Radicali e la loro scelta di non partecipare al voto sulla mozione di sfiducia al ministro Romano, preferendo innalzare cartelli a favore dell’amnistia, argomento quantomeno nascosto al mainstream.

Bisogna dire che a salvare il ministro Romano non è stata la scelta dei radicali, giacché la differenza numerica nel voto di Montecitorio è stata tale da rendere ininfluente la scelta del manipolo di pannelliani. A salvare Romano è stata invece la saldatura tra PdL e Lega con l’aggiunta dei transfughi di ogni dove che vanno sotto il nome di Responsabili, indicando così l’iniziale ossimoro della loro mesta vicenda di noleggio politico.

Che i Radicali possano essere espulsi dal Pd appare difficile, visto che non ne fanno parte. Sono invece componenti del gruppo parlamentare, il cui capogruppo, Franceschini, ha chiesto però alla direzione del partito di risolvere la grana. Ma, appunto, la direzione del Pd non può fare nulla al riguardo. Difficile trovare due errori in un gesto solo, ma Franceschini c’è riuscito.

Ma al netto delle gaffes del capogruppo Pd, non c’è dubbio che la pattuglia pannelliana ha sbagliato. La scelta dei radicali è apparsa fuori luogo e fuori contesto, giacché l’opposizione aveva bisogno di dimostrarsi coesa nell’occasione. Ma va detto che non ci furono identiche polemiche sul voto per Tedesco.

E soprattutto stupisce che non ci siano state identiche prese di posizione per violazione delle indicazioni politiche nei confronti di Fioroni, per non parlare della Binetti e di Rutelli che, prima di darsi all’Api, gigionescavano nel sabotaggio interno al partito democratico. E stupisce anche che le posizioni di Pietro Ichino sul lavoro non siano mai state oggetto di richiesta di chiarimento, vista la loro abissale distanza dalle posizioni della CGIL che il Pd sostiene di difendere. Poi, per spirito caritatevole, sorvoliamo su Renzi, il sindaco in favore di telecamera ed evitiamo di parlare di Calearo e Colanninno. E la lista degli apostati sarebbe lunga quanto insignificante.

Del resto, la critica ai Radicali nel Pd non è mai arrivata per le posizioni ultraliberiste in tema di economia, men che mai per quelle di politica estera, ma solo per quelle liberali in ordine alle libertà individuali. Liberisti assoluti per le libertà negli affari e libertini assoluti per i comportamenti individuali, i Radicali sono una miscela evidentemente mal tollerata in un partito che, incerto su cosa sia, ha chiarissimo cosa non conviene essere. Se questo fosse il sintomo di una sterzata a sinistra del Pd, si potrebbe cogliere positivamente la querelle, ma é vero tutto il contrario.

Nel caso di specie, infatti, la strumentalizzazione del gesto radicale appare evidente. Intanto andrebbe detto che sul tema dell’amnistia, su cui ha detto parole chiare anche il presidente Napolitano, i Radicali esprimono un convincimento che è difficile da rigettare, se non si vuole mettere la testa sotto la sabbia e, soprattutto, se non si vuole sostenere indirettamente la politica forcaiola del governo, che invoca Law and Order per gli anonimi e libertà assoluta per i famosi. Invece di prendersela con i Radicali, sarebbe meglio discutere di come rendere possibile il rientro del Codice Penale italiano nell’alveo della giurisprudenza europea.

Le condizioni delle carceri italiane sono pressoché simili a quelli dei campi lager destinati agli immigrati. Ritenere i secondi un abuso e tacere però sulle prime evidenzia una schizofrenia che si nutre di ipocrisia e calcolo politico.  Sarebbe bene decidere se un tema come il sovraffollamento carcerario, possa aprire una discussione sulla necessità della depenalizzazione dei reati minori e l’utilizzo di strumenti alternativi alla detenzione nell’erogazione delle pene minime. Non sono temi oggetto d’attenzione per un partito che dice di voler governare e, addirittura, di essere in grado di farlo? O il fatto che chi è fuori vota e chi sta dentro no, basta a definire principi e linee d’intervento?

A guidare la pattuglia degli intransigenti che chiedono l’espulsione dei Radicali ci sono Franceschini ed altri e, con l’eccezione del mai compianto ex ministro del lavoro Cesare Damiano, si tratta di tutti ex-democristiani. Che si sono detti sdegnati della foto di gruppo con Vendola e Di Pietro, preferendo evidentemente quella con Casini.

Folgorati probabilmente sulla via di Bagnasco e impauriti dalla possibilità di un nuovo Ulivo, cercano di sistemare il Pd sempre più lontano dalla sinistra e sempre più ancorato al centro e trovano che l’espulsione dei Radicali potrebbe favorire il definitivo trapasso del Pd nella nuova armata bianca a disposizione della Cei. Per gli ex-democristiani (e forse non solo per loro) il Pd dovrebbe definitivamente diventare l’habitat naturale dei cattolici, la culla del neoconservatorismo che, mentre prevede la progressiva dismissione dello Stato dall’economia, incita alla sua presenza asfissiante nella vita dei cittadini, configurando così la nuova dottrina, miscela tra liberismo economico e stato teocratico.

Ora, prendere atto che le posizioni politiche di un partito sono a sostegno rispettivamente dei mercati finanziari, delle procure e della Cei, non fornisce un quadro esaltante delle magnifiche sorti e progressive del Pd. Ma scambiare un programma politico con l’adesione ai programmi altrui, è purtroppo l’altra faccia della medaglia di un partito che, incapace di cacciare il despota, si cimenta con la cacciata dei Radicali.

 

 

 

 

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