di Mariavittoria Orsolato

Lo scorso martedì sono scaduti i termini per la presentazione delle domande di partecipazione all’ultima delle aste per l’assegnazione delle rimanenti frequenze del digitale terrestre: una ghiotta occasione per provare a rimpinguare le miserrime casse statali (in potenza), l’ennesima truffa ai danni dei cittadini e dello Stato (in atto). A differenza dell’asta che si sta svolgendo per le frequenze del dividendo digitale esterno, dove Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G hanno già messo sul piatto 2,3 miliardi di euro, quella per le frequenze televisive non è a pagamento. Ma andiamo per ordine.

Poco meno di quattro mesi fa l’esecutivo aveva approntato il regolamento di gara per l’assegnazione dei cinque nuovi multiplex  - ovvero le ambite megafrequenze digitali che possono trasportare fino a sei diversi canali - e di uno slot D-VBH, necessario alle trasmissioni rivolte ai dispositivi portatili come i cellulari o i tablet. Come prontamente segnalato da Il Fatto Quotidiano, il testo licenziato dal Ministero per lo Sviluppo Economico e sottoscritto dall’Agcom, più che favorire il pluralismo e l’ingresso di nuovi soggetti all’interno del mercato televisivo era tutto sbilanciato a favore di Rai e Mediaset che, partecipando a due gare su tre, avrebbero avuto gioco facile nell’accaparrarsi le fette di torta migliori.

Il meccanismo era quello di evitare una normale gara per prendere invece la strada del beauty-contest, un processo di assegnazione che prevede una graduatoria tra i concorrenti in base a tutta una serie di requisiti tecnici e commerciali, come il numero di dipendenti o il possesso di infrastrutture e impianti di trasmissione. Il perché dell’assegnazione gratuita risiedeva invece nel fatto che le frequenze in questione erano già di alcune società televisive (indovinate quali) che, una volta pungolate dall’Unione Europea, avevano restituito il maltolto mettendo così lo Stato in grado di cederle ad altri operatori televisivi.

Peccato che da Bruxelles si siano dimenticati di specificare che in ogni altro paese dell’Unione le frequenze sono un bene pubblico e il loro utilizzo viene sempre pagato dalle aziende che le usano. In un momento in cui ai cittadini viene chiesto di versare lacrime e sangue e i servizi vengono ridotti ai minimi termini, decidere di regalare due miliardi di euro - queste le previsioni di introito - è certamente tafazziano, almeno per la finanza pubblica. Nel 2001 l’ultimo governo Amato riuscì infatti a incassare quasi 14 miliardi di euro vendendo, sempre agli operatori delle telecomunicazioni, la banda per implementare i servizi UMTS; ma per Berlusconi e il suo Biscione è naturale fare le dovute eccezioni.

All’interno dell’opposizione si erano (fortunatamente) levate voci di dissenso e due senatori del Pd, Vincenzo Vita e Luigi Zanda, avevano approntato un emendamento alla manovra in discussione, proprio per abolire il meccanismo del beauty-contest e indire un’asta competitiva per l’assegnazione delle frequenze. Il testo, condiviso anche da Italia dei valori e Terzo polo è stato però bocciato per un solo voto lo scorso lunedì in commissione bilancio al Senato ed ora è ufficiale che lo Stato non guadagnerà un euro dal tanto celebrato digital divide.

Purtroppo però non è tutto. Nel testo che il ministro Paolo Romani ha licenziato e spedito a Bruxelles non c’era traccia della voce riguardante il disciplinare di gara, ovvero tutta quella serie di garanzie di trasparenza in grado di fare la differenza all’interno di un bando gratuito: dalla nomina della commissione esaminatrice all’advisor, dal numero di concorrenti ammessi fino all’individuazione delle frequenze da mettere a gara. Proprio in questo escamotage è possibile individuare quella che sarà l’assoluta discrezionalità del ministero tenuto ad interim da Berlusconi fino allo scorso 4 ottobre.

Stando infatti a quanto affermano gli operatori minori, le frequenze destinate a Rai e Mediaset vengono considerate le migliori, in quanto coprono l’intero territorio nazionale e non risentirebbero di interferenze. Dalla divisione in lotti delle frequenze da assegnare, ai meccanismi per racimolare i punti preziosi per scalare la graduatoria, fino alla scelta del beauty-contest al posto di un’asta competitiva, tutto è organizzato affinché Rai e Mediaset tornino a casa con un multiplex in più rispetto a quelli che già posseggono. Con buona pace dei nuovi soggetti che vorrebbero entrare nel mercato televisivo italiano e che molto probabilmente rimarranno senza una frequenza dove trasmettere i propri programmi.

L’unica realtà in grado di giocarsela alla pari con il duopolio Rai-Set, sia per quanto riguarda l’offerta culturale che come infrastruttura tecnica, è sicuramente Sky Italia. Contro la tv di Tom Mockridge, il ministro Romani aveva ingaggiato una battaglia legale per tenerla fuori dalla partita e c’è voluto un intervento del consiglio di Stato - che lo scorso 10 febbraio ha bollato come “manipolativo” il comportamento dell’esecutivo - per riammettere la televisione satellitare alla corsa per l’assegnazione di un segnale digitale.

Telecom Italia Media, il network che fa capo a La7 e Mtv, aspetta invece il pronunciamento del Tar del Lazio. Lo scorso 8 agosto la società ha infatti impugnato il bando di gara redatto dal Ministero su indicazioni dell’Agcom, reiterando il ricorso presentato la prima volta nell’ottobre 2009: nel merito, si contestava l’equiparazione di TI Media a Rai e Mediaset e si chiedeva un risarcimento di 240 milioni di euro per i mancati introiti derivati dalla perdita delle frequenze.

Difficile infine stabilire i tempi per l’assegnazione dei multiplex, che non potranno essere venduti a terzi per cinque anni dalla data dello switch-off digitale: le procedure per la nomina della Commissione giudicante sono ancora in corso e anche per quanto riguarda chi ricoprirà il ruolo di advisor non ci sono indizi certi. L’unica cosa certa in questa complicata faccenda è che gli italiani, al solito, devono mettersi da parte di fronte agli interessi del cittadino Berlusconi.

 

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