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di Mario Braconi
Quando una persona si macchia di delitti di particolare crudeltà, il nostro riflesso automatico è dirci che si è comportata in quel modo “perché è cattiva”. Una spiegazione semplicistica che ovviamente non può soddisfare uno scienziato come Simon Baron-Cohen, professore di Psicopatologia dello Sviluppo presso l’Università di Cambridge e grande esperto di autismo. In un’intervista pubblicata sul sito di The New Scientist del 13 aprile, Baron-Cohen ripercorre assieme al giornalista i temi del suo ultimo libro (Zero Degrees of Empathy, ovvero Zero gradi di empatia), in uscita in questi giorni in Gran Bretagna.
Secondo il professore, da un punto di vista scientifico, per trovare una spiegazione (e una cura?) per il Male, il concetto di “mancanza di empatia” funziona molto meglio di quello di “cattiveria”. A differenza del Male (o del Bene, se è per questo) l’empatia di un individuo può essere misurata in modo scientifico, così com’è possibile studiare i fattori che la influenzano, in positivo o in negativo; secondo l’opinione scientifica correntemente accreditata, infatti, all’empatia sono deputate una decina di regioni del cervello interconnesse (un’area che Baron-Cohen definisce “circuito dell’empatia”).
In effetti, quella di empatia non è un’idea semplice: più che altro si può definire un termine sotto il quale va ricompreso un intero processo; come minimo, si può distinguere tra empatia cognitiva (ovvero la capacità di comprendere gli stati d’animo altrui) ed empatia affettiva (cioè la capacità di agire una risposta emotiva a quanto accade al proprio prossimo). Secondo Cohen, se distribuissimo su un diagramma le frequenze con cui si riscontrano nell’universo umano i livelli di empatia distribuiti lungo lo spettro (dalla persona a “empatia zero” al “super-empatico”), avremmo una distribuzione “normale”, o “a campana”: una grande massa delle frequenze rilevate a fronte di livelli di empatia medi, con i casi estremi caratterizzati da frequenze molto basse.
Inoltre, gli individui che negli appositi test mostrano livelli di empatia “zero” non possono essere considerati tutti alla stessa stregua. Baron-Cohen distingue infatti tra “zero negativi” e “zero positivi”. Alla prima categoria appartengono i casi difficili (disturbo borderline della personalità, psicopatici conclamati, schizofrenici), che possono eventualmente migliorare la loro condizione solo tramite trattamento; al secondo, gli autistici, che spesso accompagnano qualche talento specifico al loro inesistente livello di empatia.
Ma quali sono i fattori che influenzano i livelli di empatia di una persona, l’ambiente in cui nasce e ci si sviluppa o i geni che ci si ritrova? Baron-Cohen ritiene che a questa domanda non si possa dare una risposta netta. In effetti, il livello effettivo di empatia riscontrabile in ogni individuo in un determinato istante è funzione della complessa interazione tra geni e ambiente. Benché il professore rifiuti nettamente l’etichetta di sostenitore di un “determinismo biologico spinto”, egli conferma i geni possono avere un ruolo (anche rilevante) nella determinazione del livello di empatia di un soggetto.
Ciò premesso, i bambini che crescono non potendosi fidare degli adulti perché sono stati picchiati, o quelli che non hanno idea di quando vedranno i propri genitori la prossima volta hanno ottime probabilità di crescere come individui “zero negativi” e di sviluppare gravi disturbi quando non di diventare persone pericolose per sé e per gli altri. Niente di nuovo dunque: la ricerca scientifica ribadisce ciò che ogni persona con un po’ di buon senso capisce intuitivamente: l’amore e l’attenzione sono una medicina (o una vitamina) molto potente e costituiscono il seme di una società sana.
Eppure occorre prestare attenzione ai guai della propaganda politica, la cui funzione è spesso quella di degradare l’uomo, trasformando l’avversario in “nemico” e il nemico in “cosa”, non più persona (un fenomento che Baron-Cohen definisce “erosione dell’empatia”). Nè si può trascurare il fatto che, anche se la predisposizione genetica alla bassa empatia non è una sentenza inappellabile, i tentativi di rettificarla comporta sforzi intensi e risultati incerti.
Questo, in qualche modo sembra contraddire le premesse di Baron-Cohen: a questo punto bisogna infatti ammettere che esistono individui “cattivi”, o se si preferisce, dotati di bassa propensione all’empatia, non per colpa propria, ma per la storia scritta nel loro DNA. La buona notizia, invece, è che una persona con alta empatia tende a mantenere la sua naturale tendenza anche in presenza di meccanismi sociali e culturali dissuasivi.
Insomma, conclude Baron-Cohen, sviluppare l’empatia può davvero migliorare la società meglio di quanto riescano a fare la legge, il sistema carcerario e le armi: senza contare che l’empatia è gratis e che, a differenza delle religioni, non opprime nessuno. Se solo i nostri politici e i nostri intellettuali potessero far proprio e diffondere qualcuno di questi concetti, forse potremmo essere testimoni di un cambiamento autentico.
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di Emanuela Pessina
BERLINO. Debutta allo Yaam di Berlino, in Germania, il nuovo tour europeo degli Africa Unite, il gruppo più rappresentativo del panorama reggae italiano, tornato al successo nel 2010 con l’album Rootz e attualmente impegnato a festeggiare trent’anni di carriera. A creare gli Africa Unite sono Bunna e Madaski nel 1981, in occasione della prematura scomparsa di Bob Marley, come in una sorta di dedica costruttiva e perenne alla memoria: il nome del gruppo, “Africa Unite”, viene dall’omonima canzone di Marley.
Da allora il gruppo ha mantenuto una produzione musicale costante negli anni e in continua evoluzione, fino a diventare un’icona anche nel contesto reggae internazionale. Dopo Berlino, il tour europeo 2011 passerà per Den Haag, Bruxelles, Londra, Dublino, Parigi, Madrid, Barcellona, Valencia e Lugano. Ed è a Berlino che li abbiamo incontrati e abbiamo avuto Bunna ai nostri microfoni.
Gli Africa Unite sono un’icona del reggae made in Italy e non solo; una band che, in trent’anni di carriera, ha sempre cercato uno stile proprio. Nel 2000 avete cominciato con Vibra un percorso elettronico, per arrivare all’elettro dub di Controlli nel 2006. E ora, dopo quattro anni, arriva il nuovo disco Rootz, che significa “radici”.
Rootz è uscito a marzo dell’anno scorso e l’abbiamo chiamato così per due motivi. Uno, perché raccoglie tutte le ispirazioni che hanno originato la passione degli Africa per il reggae negli anni, da Bob Marley agli Steel Pulse, che sono gruppi che ci piacevano allora e ci piacciono tuttora molto, così come un certo tipo di reggae legato alla dub poetry, vedi Linton Kwesi Johnson e via dicendo. E in Rootz ci sono proprio tutte le sfaccettature che ci hanno fatto amare il reggae e ci hanno fatto cominciare a suonare. Due, Rootz recupera tutti quelli che sono i canoni del genere, della musica jamaicana, quindi è un disco assolutamente di reggae classico, ortodosso e quindi fedele a quelle che sono le regole del genere stesso, soprattutto rispetto al disco precedente del 2006, Controlli, che ha un suono tra virgolette più europeo, più elettronico. Quindi Rootz, radici in questo senso.
Al di là dell’evoluzion musicale, il filo conduttore della musica degli Africa negli anni rimane comunque l’impegno sociale, la denuncia delle ngiustizie. Con i testi cercate sempre di dire qualcosa d’importante.
Si, in effetti abbiamo sempre cercato di dire delle cose con la nostra musica. La musica è sicuramente un mezzo per divertirsi, per socializzare e stare insieme, però i musicisti dovrebbero allo stesso tempo cercare di far passare dei messaggi. Così come Bob Marley all’inizio, il reggae è sempre stato una musica dall’attitudine un po’ rivoluzionaria e, comunque, portatrice di messaggi. Gli Africa vengono proprio da una scuola di questo tipo. Certo, noi abbiamo sempre cercato di farlo a modo nostro, raccontando di situazioni che ci circondano, magari proprio italiane, perché non ci piace andare a scimmiottare situazioni che non ci appartengono. Non siamo giamaicani, non siamo nati né vissuti a Kingston, quindi scegliamo di non raccontare quelle tematiche che i gruppi reggae solitamente trattano, ma che sono lontane dal nostro modo di vedere le cose. Sarebbe poco credibile che un gruppo italiano si lanciasse in questi temi. Nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di denunciare quello che ci sembra il caso di denunciare e, allo stesso tempo, di allontanare un po’ dall’immaginario solito i luoghi comuni legati al reggae, come l’uso della marijuana e il rastafarianesimo, due cose che noi non pratichiamo.
Mi sembra molto interessante. Soprattutto ora, in assenza di grandi movimenti sociali o d'opinione, è interessante vedere come la musica impegnata possa comunque ritagliarsi una cornice di centralità culturale…
Sicuramente, chiaro che non è facile, soprattutto in Italia, dove c’è una situazione molto triste, preoccupante. L’ideologia comune è che sembra sempre che è tutto a posto, che non c’è niente di cui preoccuparsi, niente per cui sia il caso di lottare. Giorno per giorno ci tolgono sempre più libertà senza che quasi ce ne accorgiamo e ci sono tutti presupposti per sollevarsi, per fare una rivoluzione. Noi non abbiamo la presunzione di voler cambiare il mondo, però almeno suggerire degli spunti di riflessione, il fatto di pensare è già un’ottima cosa, il fatto di porsi delle domande e di andare un po’ a fondo nelle questioni e crearsi un’opinione personale. Se ti affidi agli strumenti di comunicazione di massa, l’indirizzo che ti danno è sempre teso a creare un’opinione di un certo tipo.
A questo proposito avete scritto “Cosa resta”, l’ultimo brano di Rootz, un pezzo che denuncia la farsa mediatica, “lo strumento di distrazione dell’attenzione”…
Certo, in un sistema sociale e politico come l’Italia siamo veramente in balia di quello che ci viene propinato. Bisognerebbe rendersi conto che c’è un modo per trovare l’informazione reale, c’è modo di informarsi, e la rete è una cosa importantissima e, per fortuna, è ancora una fonte libera ed è abbastanza anarchica. Si possono andare a cercare le cose e, con un minimo di approfondimento, si può capire veramente come stanno le cose. Chiaro che affidarsi alle televisioni, alle radio… purtroppo in Italia siamo ibernati in un sistema che punta molto sui media per creare il consenso e per accrescere il proprio potere. E proprio da questo bisogna prendere le distanze… sarebbe importante pensarci.
E soprattutto pensare…
Esatto, è proprio la cosa che non vogliono farci fare. Sembra sempre che, finché c’è “Il grande fratello” e “L’isola dei famosi”, finché hai 20 euro per fare la benzina o la ricarica al cellulare, è tutto a posto. Purtroppo il retroscena è molto più grave e pesante. Gli operai perdono il lavoro, gli studenti non sanno cosa faranno, ci sono problemi che magari non ci toccano direttamente ma che fanno sì che la società italiana viva una situazione molto triste.
Abbiamo parlato della rete e della sua importanza per l’informazione. E per la vostra musica, la rete è stata un aiuto?
Chiaramente anche noi ne abbiamo avuto bisogno. Certo, la vendita dei dischi in questi ultimi anni è scesa molto, un problema forse legato ai pochi soldi che la gente ha, o alla facilità con cui si possono scaricare i pezzi. Eppure il fatto che la musica possa circolare in modo gratuito può fare bene alla musica e anche al gruppo stesso, ne siamo convinti. C’è molta gente che ti conosce, c’è più gente che può venire a vedere i concerti, e quindi ben venga il download, il file sharing e così via. La rete è veramente una risorsa assolutamente da sfruttare…
Che può forse limitare forse lo strapotere delle major…
Assolutamente sì. Un’unica cosa, bisognerebbe trovare un minimo di regolamentazione perché vengano tutelati anche gli autori. È importante che anche chi crea la musica abbia un minimo di ritorno economico. Però va bene così, la musica che circola crea popolarità. Nel nostro caso funziona: abbiamo sempre avuto un pubblico di gente che si copia le cose, che le passa, ma va bene così.
E ora sta partendo il tour europeo. Den Haag, Londra, Dublino, Barcellona…
Si, 8 date in 9 giorni, una cosa abbastanza impegnativa ma bella. È la prima volta che facciamo un tour così strutturato fuori dall’Italia. Abbiamo partecipato a degli eventi occasionali, tipo l’anno scorso siamo stati al Chiemsee Reggae Summer, sempre in Germania, in Spagna al Sunsplash, festival che purtroppo è stato esiliato. Abbiamo sempre fatto cose negli anni, siamo stati in Iraq, in Palestina (1993, n.d.r.), piuttosto che diverse volte in Olanda, però mai una cosa così strutturata: stavolta vogliamo provare in modo più articolato. E speriamo che la gente apprezzi, che ci sia del pubblico anche non italiano.
Progetti futuri?
Dopo questo tour europeo, a giugno partirà quello italiano estivo, un classico, che si concluderà a settembre. Nel mese di maggio uscirà un libro, la biografia degli Africa Unite, che racconta questi trent’anni di Africa, che sono veramente tanti. Noi abbiamo cominciato nel 1981 e, a celebrazione del trentennale, raccontiamo la nostra storia con foto, aneddoti e così via in un libro. Una cosa molto interessante.
Grazie. Allora aspettiamo il libro per saperne di più.
Grazie a voi.
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di Cinzia Frassi
E' tempo di grandi cambiamenti per il management di Big G. Da pochi giorni infatti Larry Page, founder della Google Inc. nel '98 insieme a Sergej Brin, è il nuovo Chief Executive Officer. Dopo dieci anni alla guida dell'azienda più importante del web, Eric Schmidt lascia il timone per passare all'incarico di presidente esecutivo e responsabile dei rapporti con aziende, partner, istituzioni governative. Il co-fondatore di Google, Sergey Brin, si concentrerà tra le altre cose sui prodotti strategici e nuovi progetti.
La notizia non arriva certo come un fulmine a ciel sereno, dato che era già stata anticipata a gennaio, insieme ai risultati eccellenti del bilancio trimestrale dei profitti dell'azienda. Mr. Page pare abbia intenzione di concentrarsi sulle nuove tecnologie, in particolare smartphone e tablet, lavorando sulle risorse e sull'operatività degli sviluppatori. Se Schmidt aveva più a cuore il business, potremmo forse dire che Page si concentrerà più sull'aspetto imprenditoriale, sulle scelte strategiche di sviluppo dei prodotti.
Era il 1998 quando nacque Google Inc., che più tardi avrebbe messo on line il motore di ricerca destinato a diventare il leader incontrastato del web. Larry Page e Sergej Brin forse non immaginavano che la loro intuizione sarebbe diventata un'azienda da 25 mila dipendenti che lo scorso anno ha prodotto quasi 30 miliardi di dollari con profitti pari a circa 8,5 miliardi di dollari.
Non solo: chissà se si immaginavano che la loro teoria, bastata sull'analisi matematica delle relazioni tra siti web come impostazione del motore di ricerca, avrebbe finito con il cambiare totalmente il world wide web. Perché da questo risultato, quello del motore di ricerca, quello che presenta le pagine che hanno un maggior numero di link, sono nati il business di molte aziende, nuove professioni, perfino un nuovo verbo nei dizionari: ad esempio to google, fare una ricerca sul web. Dal '98 ad oggi, tutto il business si concentra sulla serp, su quel risultato visualizzato dalla pagina di ricerca di google dopo aver impostato una stringa.
Ma le novità da Mountain View non sono finite. Del resto come potrebbero finire quando da “semplice” motore di ricerca orami è una sorta di polipo tentacolare che ricomprende servizi come Gmail, Google news, Analytics, Google maps, Google heart, Google alert e molti altri, per non parlare di Chrome e del sistema operativo smart phone Android?
Anzi, l'ultima novità dopo l'avvicendamento a favore di Page, è che una figura importante del management di Big G, Jonathan Rosenberg, ha annunciato in un'intervista la sua imminente uscita dall'azienda. Proprio sotto la sua supervisione sono stati sviluppati proprio Chrome e Android. Questo annuncio ha suscitato perplessità e sospetti sui motivi che possono aver indotto Rosenberg a chiamarsi fuori l'indomani dell'insediamento di Page e dell'illustrazione di quelli che saranno i cambiamenti di rotta dell'azienda.
E' chiaro quindi che l'attenzione su Mountain view è assolutamente altissima in questi giorni. Nuove sfide attendono il “nuovo” Ceo founder di Google a cominciare dal prossimo ingresso nel settore tablet con Sony che porterebbe per la prossima estate nei negozi americani un nuovissimo tablet con sistema operativo Android 3.0 Honeycomb e cioè la versione più recente e completa della piattaforma mobile di Google.
Ed è di pochi giorni fa la notizia dell'acquisto da parte di Big G del portafoglio di brevetti di Nortel Network, ex colosso canadese in bancarotta. L'offerta inziale di acquisto è di 900 milioni di dollari e su questa ci sarebbe già un'intesa. Ciò porterebbe a Mountain view ben 6000 brevetti tutti in settori strategici ricompresi nelle telecomunicazioni, come le tecnologie wireless, ottiche, il 4G e molto altro ancora. Tutto al colosso del web che ha fatto del suo algoritmo segretissimo e di un comportamento non certo candido in merito alla privacy degli utenti, il suo core business.
E' proprio attorno al tema privacy che Consumer Watchdog, associazione no profit in difesa dei comsumatori, mette in guardia senza mezzi termini il neo insediato Larry Page. Consumer Watchdog ha fatto recapitare al nuovo Ceo una breve lettera con la quale richiama l'attenzione sul tema privacy e mette le mani avanti sull'atteggiamento che il founder di Google mostrerà proprio su questo tema.
Si legge, in un breve passo della missiva, proprio l'auspicio che “l’impegno del nuovo CEO sia finalizzato a garantire nuovi diritti a tutela della privacy per i navigatori, così da dimostrare che libertà d’informazione e salvaguardia dei dati personali non sono due concetti incompatibili”. Quello che l'associazione chiede è una netta presa di posizione e un cambio decisivo di rotta rispetto a quella percorsa dal predecessore Eric Schmidt, che in merito ai diritti dei navigatori del web non si è fatto molti scrupoli.
In un altro passaggio importante della lettera si legge che “il commercio online si basa sulla fiducia del consumatore: purtroppo, l'attuale modello di business su Internet si basa sul tracciamento invasivo delle attività degli utenti. E questo non dovrebbe essere il modello adottato da una società il cui motto é non essere malvagio". Staremo a vedere se il nuovo Ceo farà davvero suo un vecchio motto dell'azienda: Don't be evil.
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di Sara Michelucci
Il racconta storie, l’affabulatore, il narra-favole. Paolo Poli è l’attore in tutta la sua essenza, dissacrante e istrionico, sagace e meravigliosamente ironico anche quando racconta favole classiche, quelle che appartengono all’infanzia di tutti i bambini, come La bella addormentata nel bosco, La Bella e la Bestia, Pollicino, ma anche grandi opere come Giulietta e Romeo di Shakespeare o le storie che fanno parte della tradizione popolare.
Le Fate (Favole) è lo spettacolo teatrale che l’attore fiorentino sta portando in tutta Italia, richiamando un pubblico fatto non solo di adulti, ma anche di bambini che, incuriositi da maschere e balletti, ascoltano la voce del grande attore accompagnare le gesta dei personaggi più diversi.
Collodi, dieci anni prima di scrivere la celebre storia del più famoso burattino dell’immaginario collettivo, Pinocchio, aveva raccolto e tradotto in un volume, I racconti delle fate, le fiabe di Perrault e di M.me le Prinoc Beaumont riuscendo, anche grazie alle varianti sia di vocaboli, sia di andatura di periodo, sia di modi di dire, a trasportare la corte del re Sole in una Toscana insieme granducale e umile.
Un vero e proprio tesoro della tradizione popolare, con intrecci analoghi ai racconti di Straparola e Basile che dalla tradizione orale, sono passati alla letteratura scritta, assumendo un valore storico, e arrivando al teatro, ispirazione per musicisti illustri come Ravel e Prokof'ev. Musiche che accompagnano il racconto di Poli, intervallato dalle danze dei valenti ballerini Laura Bravi, Marta Capaccioli, Fabrizio Casagrande, Lucrezia Palandri.
Le note di Poulenc, poi, danno gloria alla storia dell'elefantino Babar, personaggio immaginario creato dal francese Jean de Brunhoff, che lascia la giungla, dopo che un cacciatore ha ucciso la sua mamma, per andare in città ospite di una ricca signora e ritorna nella giungla per portare agli altri elefanti il “beneficio” della civilizzazione.Danza, musica e parole scorrono allora sul palcoscenico, facendo tornare tutti un po’ bambini.
L’82enne Poli, fisico eccezionale e lucidità impeccabile, dimostra ancora una volta il carisma e le peculiarità di una figura che sa andare oltre il tempo e qualsiasi tipo di convenzione. I suoi spettacoli sono sempre caratterizzati da una forte connotazione comica, rifacendosi alle commedie brillanti, surreali e oniriche.
E la fiaba diventa anche in questo caso uno strumento eccezionale nelle sue mani. Non mancano le scenografie importanti e i giocattoli, elementi fanciulleschi, ma dall’efficace rappresentatività, che conducono per mano lo spettatore verso mondi altri.
Dopo la laurea in letteratura francese, Poli si afferma come attore nei primi anni Cinquanta, prima con esordi nei piccoli teatri cittadini, come ‘La borsa di Arlecchino’ di Genova. Successivamente si fa strada grazie al garbato istrionismo, con una poetica surreale, in cui si alternano in maniera impeccabile momenti comici e giochi linguistici.
Le favole fanno parte del suo repertorio e oggi tornano sul palcoscenico in questo spettacolo dove Poli torna a essere un narratore di fiabe. Nei primi anni Sessanta, l’attore è stato infatti protagonista di una trasmissione televisiva sulla Rai in cui leggeva favole per bambini tratte da Esopo e da altri famosi racconti della tradizione. Insomma la favola assurge a strumento importante, che riesce a parlare a tutti, ma che allo stesso tempo parla un po’ di ognuno di noi.
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di Mario Braconi
Nel suo pezzo comparso sul numero online della rivista Seed del 9 marzo, David Weisman spiega come si è convinto che alcuni degli insegnamenti del buddismo possano sovrapporsi ai risultati più recenti delle neuroscienze. Inizialmente, il medico materialista Weisman si era dimostrato diffidente nei confronti dei contributi scientifici che negli ultimi anni. In modo sempre più regolare, essi sottolineavano il valore delle intuizioni del pensiero buddista nel campo della conoscenza della mente e del comportamento umano (si pensi al lavoro svolto dalla Mind & Life Institute, che può contare tra l’altro sulla proficua e sistematica collaborazione del Dalai Lama): “Quando una scoperta scientifica sembra dare conforto ad una credenza religiosa, potete star certi che i suoi fedeli si trasformeranno al volo in empiristi di stretta osservanza”.
Dopo un po’ di ricerca, però, Weisman - suo malgrado - deve ammettere che, almeno sul concetto di “Io”, buddismo e neuroscienze la pensano in modo molto simile. Quello che nella nostra vita quotidiana siamo abituati a considerare un “Io” unico ed indivisibile (chiamiamolo come preferiamo, anima, mente...) è, secondo la moderna scienza, un’illusione. Quella mente, quell’io, quella “cosa” che ci sembra autonoma ed invariabile, è in realtà un aggregato di componenti talmente variabili ed incerte da “mettere in crisi un’elaborazione del concetto resa con termini pre-scientifici”.
I buddisti questo stato di cose l’hanno ben chiaro, al punto che in pali il concetto di “sè” viene reso con la parola anatta, ovvero “non sè”. Un esempio di tale non-univocità è, per Weisman, il caso di un suo paziente trentasettenne sopravvissuto ad un ictus, il quale, dopo la riabilitazione, parlava in modo diverso da come facesse prima della malattia, manifestando all’inizio di ogni frase una esitazione quasi impercettibile, come quella di una persona che stia cercando la parole. Dunque, perfino la luminosa e incorruttibile unità della parola (il logos dei Greci, il Verbo dei Cristiani) è in realtà frutto del lavoro di varie componenti del cervello umano, alcune delle quali recepiscono mentre altre esprimono; come non bastasse, questi elementi, ad esempio dopo un trauma, cambiano “mestiere”.
Sin dall’inizio, il buddismo sembra aver preso molto sul serio la questione dell’impermanenza (anicca); forse ciò è accaduto, ragiona Weisman, per la particolare attenzione di chi l’ha teorizzato verso il fluire delle cose naturali: il sole sorge e tramonta, l’animale più grande mangia il più piccolo, tutto cambia e tutto si trasforma, niente resta uguale a se stesso. Qui, evidentemente, non siamo troppo distanti da Eraclito, il quale, dalle parti nostre, 500 anni prima di Cristo si sollazzava con il suo celebre slogan filosofico “tutto scorre” (panta rei).
Peccato, però, che la sua saggezza non fosse considerata abbastanza sexy dai suoi successori, ormai impazziti per la droga platonica, che, al pari di ogni altra sostanza tossica, prometteva piaceri proibiti: idee primigenie, feconde, invariabili, divine. Questa tradizione basata sull’assunto della straordinaria unicità dell’uomo, involucro di un’anima immortale, ha fatto molti danni.
Ancora oggi, nota Weisman, “quando la fede giudaico-cristiana entra in conflitto con la scienza, il tema vero è, quasi sempre, la rimozione dell’Uomo dal suo piedestallo putativo, il punto nodale della Creazione. In questo, il buddismo, con il modesto diniego che oppone a cotanta vanità, ha dimostrato di essere meno incline all’errore e meno dipendente dal peccato originale della vanità [rispetto ad altre religioni]”.
Non che buddismo e scienza riescano sempre ad andare mano nella mano: ad esempio il concetto di reincarnazione non regge ad alcuna disamina scientifica. Weisman, in estrema sintesi, la vede così: niente attività cerebrale, niente attività mentale, niente attività mentale, niente reincarnazione. Quindi, con la morte fisica del cervello, possiamo dire addio alla possibilità, anche puramente teorica, della reincarnazione. Eppure tale credenza è uno dei dogmi fondamentali della dottrina buddista - al punto che il capo del buddismo tibetano, il Dalai Lama, è considerato dai suoi seguaci la reincarnazione di un saggio maestro vissuto nel passato.
Nonostante tutto, il suo approccio pragmatico, perfino un po’ cinico alla realtà rende il buddismo robusto e capace di affrontare a testa alta il cimento del metodo scientifico, almeno rispetto ad altre fedi. Non dimentichiamo, infatti, che a rigore la dottrina dell’immortalità dell’anima - un classico delle tre religioni della major league - potrebbe essere messa in crisi dalla semplice osservazione empirica del modo di parlare della vittima di un piccolo danno cerebrale; peccato che non tutti abbiano il coraggio di trarre conseguenze coerenti dall’evidenza scientifica.
In breve, la fede nell’impermanenza delle cose e dell’uomo ha traghettato il buddismo nel mondo moderno: e c’è da scommettere che, grazie anche ad essa, questa filosofia accompagnerà l’uomo per altri millenni a venire, a meno che prima o poi non finisca per subire il fascino perverso delle idee iperuranie.