di Carlo Benedetti

MOSCA. Le sue opere sono a Roma per una mostra di valore mondiale nelle sale del “Palazzo delle esposizioni”. E’ la prima e grande presentazione monografica che si organizza fuori dalla Russia di questo grande pittore realista “sovietico”, Aleksandr Deineka (1899-1969), maestro della modernità. I suoi mosaici ornano ancora la stazione più famosa della metropolitana della capitale, quella intitolata al poeta Majakovskij e dove il 6 novembre 1941 fu celebrato, con Stalin, il 24mo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre.

A lui si dedicano rassegne e mostre tematiche relative alla sua modernità, al suo discorso su arte e rivoluzione e alla complessa vicenda delle avanguardie artistiche degli anni venti, quando tumultuosi rovesci politici si abbattevano un po’ dovunque in tutta Europa con episodi che mutavano profondamente gli assetti socio-politici. Erano anni di forte tensione culturale con giovani che si sentivano spinti ad abbracciare istanze e valori di una società nuova, tutta da costruire.

Un artista come Deineka, in tale contesto, allargava notevolmente lo spettro di indagine sociale. Non più soltanto la metropoli, Mosca, centro di propulsione culturale ed intellettuale, ma anche l’ambiente operaio e contadino, il mondo del lavoro. Dando qui a tutti i personaggi rappresentati dignità di “genere” artistico e una visibilità sconosciuti fino ad allora. Il “bello ideale” e il “vero” - prima idealizzato dai romantici - divengono categorie estetiche senza più corso. E così un lavoratore e la sua condizione sono innalzati a monumento di una contemporaneità, di un presente, che diviene una sorta di “pittura storia”.

Deineka è tutto questo. Ed è noto che nel periodo della seconda guerra mondiale nell’Urss l’artista si trovò a convivere con quella retorica culturale che esplodeva in un dilagante “pompierismo” con i temi della costruzione del socialismo che divenivano obbligatori per ogni artista. Sempre in questo periodo Deineka era esaltato come l’esponente di un simbolismo monumentale. Tanto da dimostrarsi degno di ricevere il titolo di “Eroe del lavoro socialista”. Ma nello stesso tempo fu definito, in alcuni ambienti della critica occidentale, come “un volgare autore”.

E Roma, ora, si appresta a conoscere e celebrare questo artista della modernità e di quello che è stato definito “realismo socialista”, quello che esigeva una raffigurazione veridica e storicamente concreta della realtà nel suo sviluppo rivoluzionario. Al tempo stesso la veridicità e la concretezza storica della raffigurazione artistica dovevano unirsi al compito della trasformazione ideologica e dell'educazione dei lavoratori nello spirito del socialismo.

Si è al cospetto di un periodo, tra l’altro, poco noto in occidente sia per le qualità specifiche (per la prima volta apparve alla Biennale del ’28 con la “Difesa di Pietrogrado”) che per le vicende dell’intero itinerario creativo delle avanguardie russe. Tutto questo nel quadro di un rinnovato interesse per quei tre fondamentali movimenti, sviluppatisi anche in Russia fra il 1910 e il 1930: il raggismo, il suprematismo e il costruttivismo. Deineka, in questo ambito, riuscì quasi sempre a sfuggire a quella stanca pittura di maniera ufficiale che ha fatto la fama dei vari Gherassimov, i quali hanno interpretato l'indicazione “realista” di Lenin nel modo più meramente illustrativo e didattico.

Il Deineka che scopriamo oggi aumenta perciò il desiderio di conoscere non soltanto il momento delle avanguardie, ma anche quello successivo, almeno negli esempi più sicuri. Forse da una simile conoscenza anche taluni interrogativi, che oggi ci assillano quando affrontiamo l'argomento dell'arte sovietica, riceverebbero una prima, plausibile risposta.

Ed ecco che Roma saluterà Deineka ricordando anche quel suo soggiorno del 1935 quando realizzò opere fondamentali. La mostra che si apre ora assume, quindi, un grande valore storico ed artistico. E’ realizzata in collaborazione con la Galleria Statale Tret'jakov di Mosca, l’istituzione che detiene la maggiore concentrazione di capolavori di Deineka, e che è in grado di garantire alla rassegna di realizzarsi nel segno della completezza e dell'eccellenza qualitativa.

Sono più di ottanta i capolavori, provenienti oltre che dalla Galleria Tret'jakov anche dal Museo Statale Russo di San Pietroburgo e dalla Pinacoteca Statale Aleksandr Deineka di Kursk. Il percorso offerto ora in prima mondiale abbraccia l'intera opera dell'artista, dagli anni Venti ai Sessanta e contempla, oltre alla pittura, esempi della produzione grafica (disegni, illustrazioni, manifesti), plastica e monumentale.

Diamo quindi il benvenuto in Italia ad un grande esponente di quella generazione d’oro dei Larionov e dei Tatlin: quello strato di artisti sovietici che, dopo l’esaurimento della fase avanguardistica proposero nuove posizioni figurative.

 

di Alessio Crisantemi

Sono gli “ostetrici dell’amore”, la band dal sound aggressivo e dalla lingua tagliente. Che solletica i timpani e stuzzica l’intelletto. Si presentano così, al grande pubblico, i “The Lovely Savalas”. Un gruppo giovane, giovanissimo, ma forte di una lunga esperienza internazionale e una carica di energia da fare invidia alle più blasonate rock star. Un gruppo sui generis, fuori dagli schemi, senza paragoni. Dove i rimandi, inevitabilmente, appaiono infiniti, ma lo stile è davvero unico.

Una band nuova sotto i punti di vista, che unisce un gruppo di musicisti di talento capaci di fondere melodie orecchiabili e accattivanti su arrangiamenti raffinati, dando vita a una miscela di rock alternativo, mai banale, inedito. In loro si ritrovano influenze dei Radiohead, dei Faith no more o dei Queen of stone age, ma in stile Beatles e alla ricerca di una propria dimensione, che al primo disco sembrano già aver trovato.

I “lovely savalas” in poco tempo hanno sviluppato un'intensa esperienza live con decine di concerti negli Stati Uniti - dove hanno inciso il loro primo lavoro - Inghilterra e Italia, partecipando a vari festival, accanto a vari artisti di fama mondiale e di fronte a pubblici importanti, partecipando anche a qualche trasmissione televisiva. Una gavetta che gli è valsa l’attenzione dell’etichetta indipendente americana Above Ground Records che li ha portati in tour negli Stati Uniti nel 2008 per poi registrare il loro primo album nel 2009.

L'immediatezza della loro musica ha spinto alcuni dei più grandi musicisti alternative, come Nick Oliveri (Queens of the Stone Age, Kyuss, Mondo Generator), Martyn Lenoble (Porno For Pyros, Jane's Addiction, Dave Gahan), McLoud Scott (Girls Against Boys, Style Paramount), Massimo Pupillo (ZU, Mike Patton), Xabier Iriondo (Uncode Duello, Afterhours) a raggiungerli in studio per partecipare alle sessioni di registrazione. Tutto questo è finito nell’ultimo album “Pornocracy”, prodotto da Alexander Pappas (ex Finch).

Un affresco musicale dei nostri tempi, dove trovano posto vari generi e stili spesso combinati tra loro e accompagnati da testi pungenti. E quanto mai attuali. Troppo facile parlare di “All the president's girls” dove nulla, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, suona scontato. Una critica allo scenario contemporaneo, al mondo in cui viviamo, alla società attuale. Pornocracy descrive con ironia lo smarrimento del singolo e della società post-industriale globalizzata, alimentato dal sentimento di precarietà e da un modello televisivo che diffonde l'ideale fuorviante e illusorio del successo subito (e subìto) a tutti i costi, al di là della qualità e dei meriti.

E’ evidente in “Fashion Girl” (“she wants her face on your wall and her voice on your stereo” - lei vuole la sua faccia sulla tua parete e la sua voce nel tuo stereo”), colpisce nel paradosso di “Free Disinformation” (“We've lost the vision in the age of information” - Abbiamo perso la visione nell’era dell’informazione”). Ma il pezzo di punta, destinato a raggiungere la massa, è “Trust no one”, un intreccio di melodie rock spinte e musica elettronica che rischia di incatenare gli ascoltatori con un refrain a dir poco penetrante.

Il gruppo nasce qualche anno fa come cover band dei Tool, una band alternative metal californiana, capace di fondere heavy metal e neoprogressive con generi affini; ma i “savalas” spostano verso le sonorità più europee il loro sound di base, mantenendo la fantasia e la freschezza della band ispiratrice e trascinandola verso ritmiche “beatlesiane” (a proposito di Beatles, consigliamo l’ascolto di “Effet Domino”, quella che si può considerare la “Come togheter” dei Savalas seppure scritta - e cantata - in francese).

Provocatori eruditi, talenti indisciplinati, portatori di amore e cultori della libertà. Di espressione, pensiero e di forme. I “Lovely savalas” sono pronti per il grande salto, grazie anche a uno spettacolo - pronto a diventare un vero e proprio tour, dopo il successo della “prima” di Terni, a fine gennaio - che riesce a soddisfare ogni senso oltre l’udito.

La scenografia (come pure la cover del cd) curata dall’artista Cristiano Carotti, propone danze moderne su uno sfondo di proiezioni ed effetti video studiate per l’occasione, lasciando ampio spazio alle improvvisazioni di una band vulcanica e alla voce, potente e polifonica, di Angelo “Clito” Sidori. Insomma, un lavoro veramente completo. Dedicato a chi pensava di aver visto ormai tutto. La musica, come l’arte, in generale, ha ancora molto da dire. E’ sufficiente fermarsi ad ascoltare.

http://www.myspace.com/savalasband

di Sara Michelucci

“E’ fondamentale per me la tenuta costante con lo spettacolo dal vivo. Da qui la nasce la voglia di incrociare il teatro e di portare in scena lo spettacolo di Koltès”. Claudio Santamaria, impegnato in teatro con La Notte poco prima della foresta per la regia di Juan Diego Puerta Lopez, fino all’11 marzo, parla della sua nuova esperienza teatrale durante l’incontro con il pubblico. Attore cinematografico di successo, Santamaria ha scelto di accostarsi al teatro interpretando un ruolo piuttosto complesso. La solitudine dell’uomo e la condizione dello straniero sono le tematiche su cui verte la pièce dell’autore francese Bernard-Marie Koltès e risultano essere drammaticamente attuali.

Il giovane uomo, sotto una pioggia battente e una nebbia continua, racconta la sua solitudine, il suo sentirsi straniero, diverso, esiliato, costretto ad un errare continuo, nella notte, in cerca di una camera. La tensione drammatica, in questo modo, si snoda attraverso sensazioni dolorose e un linguaggio privo di punteggiature e denso di rabbia e nostalgia.

“E’ un testo fortemente funambolico - continua Santamaria - con una valenza decisamente politica. Gli spazi non più liberi e la frustrazione del personaggio di non poter “combattere” personaggi reali e visibili sono al centro del testo. Compare, comunque, anche un sentimento di speranza, forse perché è stato scritto negli anni Settanta. Fosse stato scritto oggi, la speranza sarebbe svanita”.

Ma in una situazione difficile per il teatro e per la cultura in generale, ci si chiede che cosa si possa fare per “aiutare” queste forme di espressione. “Bisogna innanzitutto farlo, il teatro - dice semplicemente l’attore - educare la gente ad un certo tipo di spettacolo, ricostruendo attraverso di esso un rituale collettivo e creando un senso di appartenenza. Lo spettacolo che personalmente mi piace interpretare è quello in cui il processo creativo non s’interrompe mai, rappresentando un banco di prova continuo. Un divenire che fa si che l’attore non sia una semplice marionetta nelle mani del regista, ma metta qualcosa di suo”.

La Notte poco prima della foresta venne rappresentato per la prima volta nel 1977, al Festival Off di Avignone, da un Koltés ventottenne. L’elemento allegorico come quello metaforico rappresentano la “rivoluzione” della scrittura dell’autore francese. Realtà emarginate vengono così poste al centro della scena e trattate attraverso lo sguardo visionario del protagonista sul mondo.

Il cinema resta comunque l’elemento più caratterizzante di Claudio Santamaria. Un cinema che di questi tempi non se la passa affatto bene, con i tagli alla cultura imposti dall’attuale Governo. Un cinema italiano che è stato definito di recente da Michele Placido: “Timido”.

“Secondo me - sottolinea l’attore de L’ultimo Bacio e di Romanzo Criminale - non è il cinema italiano ad essere ‘timido’, ma sono i produttori ad esserlo. C’è invece un difetto politico, con la scarsa tutela del settore da parte delle istituzioni. La Francia potrebbe insegnarci qualcosa in questo senso”.

Per quanto riguarda i progetti futuri, quelli che attirano sempre l’attenzione dei giornalisti e dei fan, Santamaria, seppur con un po’ di ritrosia, confessa: “Di prossima uscita è il film di Roan Johnson, I Primi della Lista, che però è ancora in fase di montaggio, quindi non posso dire ancora nulla sulle date. Mentre un altro lavoro in cui farò la parte del grafologo è la pellicola di Matteo Rovere, Gli sfiorati. Ho scoperto che l’universo della grafologia è davvero un mondo interessante e a molti sconosciuto. Questo film ne svela i retroscena ed è molto avvincente”.

Santamaria sarà protagonista inoltre dell'opera prima di Antonio Morabito Il venditore di medicine, il cui intento è quello di raccontare la malasanità italiana. L'attore si calerà nei panni di un informatore medico pronto a corrompere gli operatori sanitari in cambio della prescrizione di prodotti della casa farmaceutica per cui lavora. Il film è prodotto da Amedeo Pagani. “Ora posso scegliere i film che mi appassionano veramente, e questo è un traguardo importante, perché il cinema si fa con la testa e con il cuore”.

 

di Vincenzo Maddaloni 

Il grande romanzo della vita di Fëdor Dostoevskij si concluse cento e trenta anni fa, alle otto e trentotto del 28 gennaio 1881, in un modesto appartamento a San Pietroburgo. Tre giorni dopo, l0 scrittore fu sepolto nel cimitero del convento di Aleksandr Nevskij. Le esequie furono solenni. La gente era tanto rispettosa e commossa che in chiesa, durante la cerimonia funebre, nessuno fumò. Ricordava la moglie, Anna Grigorevna: «La mattina, quando la servitù fece la pulizia della chiesa, non trovò neanche una punta di sigaretta: cosa che meravigliò i monaci, perché di s0lit0, durante i servizi piuttosto lunghi, la gente negli angoli fumava».

Morì a sessant’anni lasciando una produzione vastissima: «Egli rappresenta», scrisse nel 1920 Nikolai Berdjajev, «una manifestazione mirabile della culture russa: ne é il culmine». Non è un giudizio definitivo, non si è ancora finito di discutere. Mai scrittore fu cosi attentamente scrutato, analizzato, interpretato. La popolarità di Dostoevskij fu sempre grande tra ogni strato di lettori in Russia e, a partire dai primi del Novecento, diventò non meno grande in ogni parte del mondo.

Infatti, particolarmente viva fu la presenza di Dostoevskij nella cultura russa ed europea del primo Novecento, quando le ricerche filosofiche e religiose, le nuove tendenze nel campo letterario e la stessa crisi di valori vissuta dalla intera società, rendevano l’opera di questo scrittore unica per la sorprendente energia con cui il mondo del Ventesimo secolo era stato da esso profeticamente analizzato.

Dopo la rivoluzione russa del Diciassette, la presenza di Dostoevskij si accentua nella vita letteraria e in genere intellettuale dell’Occidente, come si vede dai saggi che all’autore de ”I fratelli Karamazov” dedicarono scrittori come André Gide, Thomas Mann e David Herbert Lawrence, per non parlare dell’influss0 esercitato su infiniti altri.

E adesso? Adesso, dopo cento e trenta anni rimane attuale la domanda di sempre. Dostoevskij da che parte sta? E’ buono o cattivo, saggio o folle, ateo o cristiano? L’ex ergastolano, l‘ex giocatore, l’ex ufficiale dello Zar, l’ex rivoluzionario ha ancora qualcosa da dire alle generazioni del Ventunesimo secolo? Secondo alcuni critici rimangano di grande attualità le opere come “I dèmoni” o certi passi de “I fratelli Karamazov” che sembrano prefigurare spaventosi fenomeni sociali e contemporanei, come sono il terrorismo di regime o quello dell’anarchia rivoluzionaria. Secondo altri, l’attualità di Dostoevskij consiste soprattutto nel fatto che l’uomo di oggi vede nelle sue opere riflesso il proprio dramma personale, che è poi quello della scelta tra la realtà e il sogno, tra il bene e il male, tra Satana e il Credo; una scelta resa straziante dalla debolezza dell’uomo, dalle malattie delle spirito, dalle polivalenze della verità.

Infatti, Dostoevskij é stato un narratore del tutto particolare, un narratore-filosofo, si potrebbe dire, e i suoi romanzi, che costituiscono un’avvincente lettura per un pubblico di ogni livello, hanno una ricchezza intellettuale che li pone tra le opere più intense e originali del pensiero moderno e come tali sono state studiate. Nei romanzi di Dostoevskij vive in tutta la sua drammatica forza quella crisi dell’umanità europea che è stata testimoniata, ad esempio, nel pensiero di Nietzsche.

Dostoevskij raffigura le forme molteplici del nichilismo del nostro tempo, ne indaga le ragioni storiche e colloca le sue vicende in un ampio orizzonte metafisico, senza togliere per questo concretezza ai destini dei suoi personaggi. Il problema del cristianesimo e del socialismo, della tradizione e della rivoluzione, della Russia e dell’Europa trovano nell’opera dostoevskiana una illuminazione problematica e drammatica senza pari. Per questo Dostoevskij é forse il più attuale degli scrittori russi ed europei dell’Ottocento e anche del Novecento, ed é destinato a restare tale anche in questo secolo.

Dostoevskij è stato definito il cronista critico, analitico del tumulto spirituale della Russia prerivoluzionaria, quasi il profeta della rivoluzione russa di cui aveva preannunciato tanti aspetti. E tuttavia per quasi mezzo secolo è stato messo in disparte. Molti dei suoi libri, non più dati in ristampa, erano divenuti inaccessibili per il lettore sovietico. Negli Anni Trenta, nell’Urss non soltanto non vengono più pubblicati studi di rilievo su questo scrittore, ma le sue stesse opere vengono stampate raramente, e alcune, come “I dèmoni”, sono apertamente proibite dalla censura politica.

Tuttavia non si può dire che Dostoevskij abbia avuto allora la sua sorte peggiore: a una vera e propria campagna di falsificazione l’opera dostoevkiana sarà, infatti, sottoposta nell’ultimo periodo dello stalinismo, dopo la Seconda guerra mondiale, quando la vita culturale sovietica sarà dominata dallo zhdanovismo. Dopo la morte di Stalin si assistette a una crescita d’interesse per Dostoevskij da parte delle case editrici sovietiche e dei critici e storici letterari, segno della grande attualità di questo scrittore.

Ma, nonostante questo indubbio miglioramento della situazione, (persino ai tempi di Gorbacev quand’ero corrispondente a Mosca), Dostoevskij nell’Urss non poté espandersi in tutta la sua forza problematica, poiché l’intera vita culturale di quel Paese era limitata e svigorita dal controllo della censura politica e ideologica.

Questo accadde sebbene Dostoevskij  sia uno slavofilo del tutto particolare e la sua filosofia del suolo, come si chiamava la sua particolare concezione dello spirito nazionale russo, costituisca un’originale diramazione dello slavofilismo. Si aggiunga che Dostoevskij, nei vent’anni di attività intellettuale che stanno tra il suo ritorno dalla deportazione e la sua morte, non si mantenne su rigide e statiche posizioni dogmatiche, ma, pur nella fedeltà a certe tendenze di fondo, sviluppò le sue idee al contatto con la realtà. Si tenga presente, infine, che in quel periodo lo slavofilismo vero e proprio aveva compiuto il suo ciclo e l’ambiente politico e intellettuale russo, caratterizzato dalle riforme governative e dalla sovversione rivoluzionaria, era mutato profondamente rispetto a quello in cui, qualche decennio prima, si era formato ed era fiorito lo slavofilismo, e mutato era anche il mondo europeo.

Ricordo tutto questo perché non si deve chiudere il pensiero di Dostoevskij in rigidi schemi ideologici, ma si deve vederlo piuttosto come impegnato in una incessante ricerca. Solo così si possono capire gli aspetti deboli e caduchi del suo pensiero politico, come certe manifestazioni del suo nazionalismo, ad esempio, ma soprattutto si può cogliere anche il nucleo vivo e valido del suo pensiero, liberandolo dalle scorie in cui è avvolto. In questo modo non solo il Dostoevskij romanziere potenzia la sua già indubbia forza poetica e intellettiva, ma anche la sua riflessione contenuta nelle opere pubblicistiche presenta vari aspetti di validità e di modernità. Tant’è che ancor oggi rimane a pieno titolo, e non è un’esagerazione, il profeta delle nostre paure.

 

di Mario Braconi

Secondo Jessie Schell, designer di videogiochi e ricercatore presso l’Entertainment Technology Center, dell’Università Carnegie Mellon della Pennsylvania, la parola del momento è decisamente una sola: “gamification” (potremmo tradurre con “giochificazione”). Alla base di questa bislacca nuova teoria, che sembra eccitare tanto esperti di marketing quanto psicologi e sociologi, l’assunto secondo cui “qualsiasi cosa siamo in grado di percepire può diventare un gioco”.

E oggi la gamma di dati che possiamo conoscere e trasmettere in tempo reale ad altri eventualmente interessati è davvero notevole, grazie all’ampia disponibilità di dispositivi elettronici a basso costo: accelerometri (la “mente” che anima gli airbag, la Wii e l’iPhone), videocamere, localizzatori satellitari, RFID (etichette con trasponder a radiofrequenza).

L’eccitatissimo Schell, sulla rivista britannica The New Scientist, si è prodotto nel seguente esempio: una tazza di caffè di cartone, dotata di RFID, un secondo prima di finire nell’apposito cestino per il riciclaggio, fa a tempo a trasmettere informazioni al nostro smartphone, consentendoci di caricare punti sulla nostra tessera fedeltà, mentre aggiorna il punteggio di un gioco online in cui vince chi smaltisce nel modo corretto la massa maggiore di materiale di scarto.

La gamification prossima ventura, lungi dall’essere una vera novità, è solo la declinazione paradossale e compulsiva di una tendenza psicologica ben radicata nell’uomo moderno: quella che lo spinge a raccogliere e collezionare (dai francobolli ai punti fedeltà del supermercato o dell’operatore telefonico). Il resto lo fanno le potenzialità virtualmente illimitate dei nostri giochini elettronici: ad esempio, chi frequenta un certo bar può guadagnarsi, via smartphone, un “gettone” virtuale di presenza per ogni volta che vi si reca: se sarà riuscito ad ottenerne abbastanza, grazie al suo luccicante medagliere, potrà accreditarsi presso i nuovi frequentatori che non lo hanno mai visto né conosciuto come un habitué cui chiedere informazioni e consigli.

Per la verità, la tendenza al gioco è ancora più antica e profonda, come conferma la biologia evoluzionista: anche nel mondo animale, il gioco viene infatti impiegato come “palestra” per sviluppare capacità utili in altri contesti (cacciare, lottare, procurarsi cibo, stringere relazioni sociali con altri membri del branco eccetera). Il gioco stimola la produzione di dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto in attività piacevoli quali mangiare ed accoppiarsi; non c’è dunque da stupirsi che la adulti perdano tanto tempo davanti alla Wii che hanno comprato per i loro figli... Da un punto di vista delle funzionalità del cervello, le attività ludiche attivano una sezione subcorticale, lo striato, legato al sistema delle ricompense. La cosa più interessante è che, per quel componente del cervello, una somma in denaro vale quanto una gratificazione non monetaria, quale ad esempio il riconoscimento sociale.

Per questa ragione, i giochi migliori sono quelli che riescono a motivare chi vi si applica soddisfacendo la triade dei desideri primari messa a punto dagli psicologi Edward Deci e Richard Ryan, dell’Università di Rochester (New York): “Autonomia, competenza e relazione (ovvero bisogno di connessione sociale ed intimità)”. Se il gioco è kosher, ci sono alte probabilità che il giocatore vi resterà fedele. La fantasia è il solo limite ai giochi virtuali disegnati per controllare e dirigere la condotta nella vita reale. Si va da Chore Wars, nel quale si “fa carriera” nel mondo virtuale man mano che si guadagnano punti lavando i piatti o pulendo l’appartemento condiviso con altri compagni (reali, ma anche virtuali) a Epicwin, un gioco di ruolo il cui obiettivo è mantenere organizzata e funzionale l’agenda del giocatore: se ci si sarà ricordati di fare il regalo di compleanno alla vecchia zia, si potrà ottenere una “promozione” nel mondo elettronico.

Non mancano, infine, forme di intrattenimento ludico finalizzate a mantenerci puliti ed in buona salute: si pensi al dispositivo messo a punto alla Yu-Chen Chang of National Taiwan University di Taipei - uno speciale spazzolino da denti dotato di sensori abbinato ad un display, che ha quadruplicato il tempo investito dai bambini-cavia a lavarsi i denti, aumentando del 100% la pulizia complessiva delle loro bocche; o il Gamewalk, che “sblocca” personaggi del Pokemon ai soli bambini “responsabili” che potranno provare (dati alla mano) di aver fatto almeno un po’ di attività fisica.

Alcuni esperimenti dimostrano che l’appeal di una remunerazione certa tende a perdere smalto nel tempo, rendendo questi giochi poco attraenti ed efficaci nel lungo periodo; ma questo, ovviamente, non è il solo problema: una gamification spinta configura un futuro da incubo, funestato da manipolazioni sempre più sofisticate e da un livello di controllo talmente onnipresente ed ineludibile da far sembrare Disneyland il mondo dipinto da Orwell in 1984. E non è tutto: perché c’è qualcuno che, forse sfruttando impropriamente i “bug” del nostro striato, sta cominciando a far passare il concetto che è giusto remunerare con divise virtuali il lavoro vero.

Ad esempio Crowdflower (una società di crowdsourcing, ovvero organizzazione di team temporanei di lavoratori via internet per svolgere “le attività che i computer non svolgono molto bene, come descrivere esattamente che cosa mostra una fotografia”) che in certi casi paga i suoi associati con “buoni” per giocare a Farmville (un gioco sviluppato per Facebook). Forse è poco più un giochino, appunto, ma ad occhio e croce sembra un precedente preoccupante…

 


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