di Luca Mazzucato

NEW YORK. L'olografia è il principio più promettente per descrivere la bestia nera della fisica teorica chiamata gravità quantistica. Nel corso dell'ultimo anno, un nuovo punto di vista sta via via prendendo forma nella comunità scientifica: ovvero che l'olografia è un fenomeno molto più generale della teoria delle stringhe, che pure ne ha fornito il primo esempio concreto.

Grazie al dizionario olografico, possiamo tradurre la misteriosa fisica della gravità quantistica in un linguaggio più familiare. Alcuni termini di questo dizionario sono noti da quindici anni. In un recente articolo, il gruppo di ricerca dell'Università di Stony Brook (di cui chi scrive fa parte) ha scoperto un metodo per derivare sistematicamente questo dizionario. E' il primo passo verso la dimostrazione della congettura olografica.

Immaginate un ologramma, come quello nella figura, in cui la Principessa Leyla viene proiettata in tre dimensioni dal robottino di Guerre Stellari. Possiamo guardare all'immagine in due modi: uno è l'eterea immagine tridimensionale di Leyla che fluttua nell'aria, l'altro è la superficie bidimensionale da cui la Principessa viene proiettata (in questo caso un proiettore, che chiameremo matrice). Apparentemente, Leyla e la sua matrice bidimensionale non hanno niente a che vedere, eppure sono due descrizioni identiche dello stesso oggetto: contengono la stessa quantità d’informazione.

Mentre la figura  tridimensionale è semplice da riconoscere, la matrice bidimensionale che proietta l'immagine richiede invece una conoscenza di complicate regole ingegneristiche. Se guardiamo la matrice, non abbiamo la più pallida idea dell'immagine che proietterà. Per ricostruire un ologramma tridimensionale, dobbiamo seguire delle particolari istruzioni per realizzare una matrice che proietti l'immagine voluta. Queste istruzioni sono il nostro “dizionario olografico.”

L'esempio di questo ologramma ottico è estremamente utile per capire il suo analogo gravitazionale. Ci insegna che una delle due parti del sistema duale è semplice, mentre l'altra è complicata. Partendo da quest'ultima osservazione, chi vi scrive, insieme a Michael Douglas e Shlomo Razamat, ha attaccato il problema di decodificare il dizionario olografico, nel caso della più semplice tra le possibili “matrici bidimensionali,” derivando a una a una le istruzioni che ci permettono di leggere in questa matrice la teoria “duale olografica.”

La matrice più semplice è nota tecnicamente come teoria di campo scalare libera, cioè un numero infinito di oscillatori armonici disaccoppiati. Un oscillatore armonico non è altro che una biglia messa in una ciotola, libera di oscillare avanti e indietro senza attrito. Immaginate ora di avere un numero infinito di ciotole, ciascuna con una sua biglia oscillante all'interno. Questo è l'analogo della nostra semplice “matrice bidimensionale” da cui proietteremo l'ologramma gravitazionale.

Per ciascuna biglia, immaginate di avere una bacchettina di legno con cui toccare la pallina, per misurare a che velocità questa sta oscillando avanti e indietro nella sua ciotola. Il punto cruciale è che, se misuriamo cosa succede alla pallina quando si muove ad una certa velocità, possiamo calcolare cosa succederebbe alla pallina se avesse una velocità differente. Il modo in cui il comportamento della pallina cambia, al variare della forza con cui la spingiamo con la bacchetta, si chiama “gruppo di rinormalizzazione.”

In genere, le equazioni che descrivono il gruppo di rinormalizzazione sono complicate ed è estremamente difficile risolverle. L'unico caso in cui si possono risolvere esattamente è quello che abbiamo appena descritto, in cui abbiamo una collezione di biglie che non parlano tra di loro. La soluzione di queste equazioni ci mostra come manovrare la bacchettina di legno se vogliamo studiare come oscilla la biglia ad una certa velocità.

Applichiamo l'olografia a questo sistema. Il significato “duale” della velocità della biglia è una delle poche voci note del dizionario olografico, compresa dai due gruppi di ricerca dell'Institute for Advanced Study e dell'Università di Princeton all'indomani della scoperta del primo sistema olografico da parte di Juan Maldacena. L'energia posseduta dalla biglia oscillante viene tradotta, usando questo dizionario, nella quarta direzione olografica. La bacchetta che usiamo per misurare la velocità della biglia rappresenta una particella “duale” che si muove in questo nuovo spazio olografico, che ha una dimensione in più rispetto al sistema di partenza. In particolare, una bacchetta dotata di due unità di momento angolare o spin, che faccia ruotare la biglia all'interno della ciotola, viene tradotta dal dizionario olografico in un “gravitone,” la particella responsabile della forza gravitazionale.

La geometria dell'ologramma, dove vive il gravitone, è nota come spaziotempo di Anti-de Sitter. Questo spaziotempo è caratterizzato dall'avere una costante cosmologica negativa (di segno opposto a quella, positiva, misurata nel nostro universo) e una geometria molto particolare: lo spazio è racchiuso dentro un bordo, un po' come un'arancia è racchiusa dalla sua buccia. Una particella che si muova nella direzione radiale, dopo una certa distanza incontra la fine dello spazio, una specie di muro invalicabile, che altro non è se non la superficie bidimensionale dove vivono le nostre biglie di partenza.

Il dizionario olografico ci insegna che, per quanto diversi, la collezione di biglie oscillanti in tre dimensioni che vive sul bordo e lo spaziotempo a quattro dimensioni che descrive il “bulk” sono in realtà la stessa cosa. Questa intuizione olografica è stata resa precisa per la prima volta nel nostro recente articolo, pubblicato su Physical Review D. Partiamo dalle equazioni del gruppo di rinormalizzazione, che descrivono il comportamento delle biglie al variare dell'energia. Grazie ad un cambiamento di variabili, è possibile riscrivere queste equazioni in un modo completamente diverso e mostrare che sono equivalenti alle celebri equazioni di Einstein, che descrivono la dinamica del campo gravitazionale.

Le tre dimensioni in cui vivono le biglie, più la quarta variabile energia, vengono trasformate nelle quattro dimensioni dello spaziotempo olografico. In particolare, l'energia delle biglie oscillanti diventa la coordinata radiale di questo spaziotempo a quattro dimensioni. Un'energia molto elevata viene mappata in un punto dello spaziotempo quadridimensionale vicino al bordo.

Un'energia molto bassa viene mappata in un punto all'interno dello spaziotempo, molto distante dal bordo olografico. Le equazioni del gruppo di rinormalizzazione, che ci dicono come si comportano le biglie oscillanti al variare dell'energia, sono le stesse equazioni che descrivono il comportamento di un gravitone nella quarta dimensione “extra.”

Quando una faccia del sistema olografico è semplice, l'altra è molto complicata. Nel caso di Leyla, l'immagine della Principessa ribelle (nella nostra analogia, lo spaziotempo nel “bulk”) è d’immediata comprensione, mentre la matrice da cui è proiettata (che corrisponde all'oggetto sul bordo olografico) è un guazzabuglio di puntini incomprensibili. Nel caso delle biglie oscillanti, accade l'opposto. Una delle due facce della medaglia olografica, le biglie oscillanti sul bordo, è un sistema molto semplice.

La teoria duale di gravità nel “bulk,” purtroppo, è molto complicata e si chiama “teoria di spin elevato”. Oltre al gravitone, questa teoria contiene un infinito numero di particelle di spin sempre più elevato che interagiscono tra di loro. Vediamo all'opera anche questa volta il teorema di conservazione della difficoltà, una scherzosa versione della legge di Murphy applicata alla fisica teorica.

La strada da fare per dimostrare rigorosamente che la gravità quantistica è una teoria olografica e per applicare questa intuizione al nostro universo (molto diverso dal tipo di universo duale descritto più sopra) è ancora molto lunga. Ma la lezione che l'olografia ci ha insegnato è senza dubbio di portata rivoluzionaria, conciliando gravità e meccanica quantistica in modo del tutto nuovo e ortogonale agli sforzi di unificazione, molto popolari tra i fisici del secolo scorso. La ricerca di una teoria unificata, il Sacro Graal della fisica teorica che riunisca in una sola equazione le tre forze del Modello Standard delle particelle elementari e la forza gravitazionale, sembra basata su un’assunzione sbagliata. Cioè che la gravità sia della stessa natura delle altre forze elettromagnetiche e nucleari.

L'olografia ci insegna invece che la forza di gravità ha una natura completamente diversa: non è una nuova forza, ma è una descrizione efficace di un sistema molto più semplice, privo di gravità, che vive sul bordo dell'universo gravitazionale.

di Eugenio Roscini Vitali

Inaugurato il primo luglio scorso, è stato riaperto a Prora il gigantesco complesso turistico voluto dal regime nazista per i lavoratori tedeschi affiliati al Kraft durch Freude (KdF - Forza attraverso la gioia), l’organizzazione ricreativa associata al Deutsche Arbeits Front (DAF - Fronte Tedesco del Lavoro), il sindacato unitario del Terzo Reich che dal 2 maggio 1933 prese il posto di tutte le associazioni di categorie presenti in Germania in quegli anni.

Per il momento verrà rimesso in funzione il blocco 5, che ospiterà un ostello da 400 posti letto; per i blocchi 1 e 3 è invece in programma la realizzazione di 3.000 appartamenti, mentre il blocco 4 continuerà ad essere la sede del centro di documentazione permanente Macht Urlaub. Costruito sull’isola di Rugen, sul Baltico occidentale, il centro vacanze di Prora venne progettato a Colonia dall’architetto Clemens Klotz, ideatore per il partito Nazista dei campi educativi di Krössinsee, Vogelsang e Chiemsee.

La struttura che avrebbe dovuto stupire il mondo e che restò comunque incompiuta, fu solo l’inizio della politica del tempo libero pensata dal Fuhrer: il Reich aveva in programma la costruzione di 60 navi da crociera, 5 complessi balneari e 20 alberghi da 2.400 letti ciascuno; progetti che non videro mai la luce, nel 1939 scoppiò la guerra e con essa svanirono i piani della KdF.

Dalle vacanze per i lavoratori si passò così a pensare a ben altri problemi, finanche al “progetto Borghild”, le bambole gonfiabili, occhi azzurri e capelli biondi, ordinate dal Fuhrer per i suoi soldati dopo l’allarme lanciato dal capo delle Schutzstaffeln (SS), Heinrich Himmler, che nel 1940 scriveva: «Il pericolo più grande a Parigi sono la diffusione e la presenza incontrollata di prostitute, che adescano clienti in bar, sale da ballo e altri posti. E' nostro dovere impedire ai soldati di rischiare la salute per il piacere di una rapida avventura».

La costruzione del complesso turistico di Prora, un gigante che secondo i voleri di Hitler in caso di guerra sarebbe dovuto diventare un ospedale militare, ebbe inizio nel maggio del 1936: quarantotto aziende e 9.000 operai impegnati nella realizzazione di strade, ferrovie e di un porto per le navi da carico, oltre al cantiere per un fabbricato lungo 4,5 chilometri, da costruire sulle rive della baia di Prorer Wiek, tra la laguna di Kleiner Jasmunder Bodden e la spiaggia che unisce il comune di Binz al porto di Sassnitz. Composto da blocchi di sei piani ciascuno, il complesso avrebbe dovuto avere otto ristoranti, un teatro, due piscine e un’arena capace di ospitare i 20.000 ospiti presenti nel complesso.

Secondo il progetto, premiato all’Expo di Parigi del 1937, ogni piano sarebbe stato dotato di bagni e docce in comune e le 10.000 stanze (5 metri per 2,5 attrezzate con 2 letti, un armadio e un lavandino) avrebbero avuto la vista sul mare. Durante una visita ai cantieri il Dr. Robert Ley, leader sindacale del DAF, lo definì il modello tedesco del Butlins British “holiday camps”, la catena di centri vacanze per lavorati inglesi fondata a Skegness da Bill Butlins.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale Berlino decise di fermare i lavori e gli operai furono trasferiti a Peenemünde, una piccola città sull'isola di Usedom, a circa 50 chilometri da Prora, dove il Generale Dornberger stava traslocando le infrastruttura tecnico-logistiche del progetto Vergeltungswaffe 2 (V2).

Le due piscine e l’arena non vennero mai iniziate, mentre gran parte degli edifici, del teatro e del cinema non rimasero che gli scheletri; prima di cadere nelle mani dell’Armata rossa, le poche sezioni completate vennero adibite a rifugio per i civili scampati ai bombardamenti e per gli sfollati fuggiti dalle città distrutte.

Dopo il 1949, con la nascita della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), l’isola di Rugen divenne parte della Germania Est e il più gigantesco relitto della storia nazista prese il nome di “Walter Ulbricht Home”. Anche se gran parte del sito venne chiuso ed abbandonato a se stesso, lo Stato socialista, sfruttando il lavoro dei dissidenti, portò a termine la costruzione di alcuni edifici che dopo il 1956 divennero un centro vacanze del il personale militare del Nationale Volksarmee, l’Armata Popolare Nazionale della Germania Est.

Si tornò a parlare del monumentale colosso di cemento dopo la caduta del muro di Berlino, quando una parte dell’opinione pubblica tedesca decise di riportarlo in vita. Per alcuni il centro vacanze di Prora ancora rappresenta, insieme al Reichsparteigelande di Norimberga e all’Olympic Stadium di Berlino, il grande patrimonio architettonico del nazionalsocialismo, un’eredità storica che in qualche modo spiega come mai la Germania rimase così affascinata dal Terzo Reich; per altri il futuro dell’edificio non riguarda soltanto la memoria della repressione nazista, ma anche parte della storia della Germania dell’Est e delle persone che ebbero il coraggio di dire no al regime comunista.

Secondo i più critici la mostruosa struttura in cemento potrebbe diventare altresì un cimelio carico di simbolismo, un’occasione per attirare i fanatici dell’estrema destra e trasformare l’ostello in una reliquia del nazismo.

 

 

 

di Vincenzo Maddaloni 

MOSCA. Pjotr Leonidovich Kapitza negli anni bui della dittatura staliniana rifiutò di dedicarsi al progetto della bomba atomica, convinto che la scienza deve essere al servizio dell’umanità. Pagò il diniego con gli arresti domiciliari e con quaranta anni di attesa perché gli dessero il premio Nobel che il suo collega inglese, Paul Adrien Maurice Dirac, ricevette nel 1933. Non mostrò mai di pentirsi di quella sua scelta, che rimane esemplare sebbene desueta ai nuovi mentalismi.

M’è tornato in mente davanti al grande portone dell’Accademia Russa delle Scienze in russo, l'istituto scientifico più importante della Federazione Russa che fino al 1991 era conosciuta come Accademia delle Scienze dell'URSS. Pjotr Leonidovich Kapitza, lo scienziato, con indosso la casacca grigia che gli stava un po’ larga e ai piedi le scarpe di pezza con la suola di corda, nuove. Gli era al fianco la moglie che per tutta la durata del convegno era stata seduta sull’ultimo banco e prendeva appunti su piccoli fogli.

Si erano ritrovati fuori, davanti al portone. Si era unito a loro Paul Adrien Maurice Dirac http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Dirac  che per la sua teoria sull’antielettrone ricevette il premio Nobel appunto nel 1933. Probabilmente la stessa cosa sarebbe accaduta a Kapitza che scoprì la superfluidità dell’elio liquido, se non fosse stato “rapito” nel 1934 da Stalin e per quattro lustri non si seppe più nulla di lui e delle sue ricerche. Tant’è che il Nobel lo ricevette soltanto nel 1978, quaranta quattro anni dopo la sua invenzione.

Sicuramente me l’ha fatto ritornare in mente la recente scomparsa di Elena Bonner, la compagna di Andrej Sacharov, lo scienziato dissidente http://it.wikipedia.org/wiki/Andrej_Dmitrievi%C4%8D_Sacharov del quale ella è stata più della sua metà come disse Gorbaciov http://www.megachip.info/rubriche/34-giulietto-chiesa-cronache-marxziane/6354-e-gorbaciov-sussurro-qe-molto-piu-della-sua-metaq.html. Molto vi hanno influito pure i riccioli dorati e assurdi del tetto dell’Accademia che spaziano da ogni dove sul panorama di Mosca dopo essere sbucati di tra gli alberi delle colline (non so come le hanno ribattezzate oggi) che per me continuano a chiamarsi Lenin.

Kapitza appartiene alla generazione di scienziati precedente a quella di Sacharov. Quando l’incontrai, di questi giorni di trenta anni fa, era già molto avanti nell’età (8 giugno 1894 - 8 aprile 1984), ma era ancora una personalità di spicco non tanto per la sua fama indiscussa di ricercatore, ma piuttosto per la coerenza con le proprie ragioni morali tutte volte a sostegno di una scienza a servizio dell’umanità. E’ un ideale che aveva condizionato da sempre la sua esistenza e lo aveva spinto a gesti clamorosi: si rifiutò energicamente di dedicarsi al progetto della bomba all’idrogeno sfidando le ire di Beria http://it.wikipedia.org/wiki/Lavrentij_Pavlovi%C4%8D_Berija e di Stalin; più tardi confutò con coraggio e lucidità la partijnost, la partiticità del sapere, sicché persino il New York Times dovette riconoscere che « il contributo di Kapitza a favore di una libera scienza russa, contro la rigida sorveglianza degli ideologi marxisti, è stata enorme».

Robert Jungk nel suo libro Destino degli scienziati atomici, apparso in Italia da Einaudi (ora trovabile soltanto su ebay) con il titolo Gli apprendisti stregoni, ne traccia un ritratto singolare, quando parla dei giovani scienziati che lavoravano attorno a Lord Rutherford http://nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/1908/rutherford-bio.html nell’Istituto di fisica di Cavendish, il laboratorio di ricerca più attrezzato del mondo negli anni Venti e Trenta: lì fu scoperto il neutrone. Kapitza era tra i suoi discepoli prediletti perché, spiega Jungk, «egli possedeva la stessa vitalità entusiasmante del suo maestro, la stessa sfrenata vigoria e fantasia, a cui aggiungeva però anche una punta di eccentricità russa. Sia che si avventasse in auto a folle velocità sulle pacifiche strada di campagna inglesi; sia che in un week end, con scandalo dei suoi ospiti puritani, si tuffasse nudo in un fiume vicino e spaventasse i cigni imitando il loro gracchiare, sia che passasse più notti a fare esperimenti con le sue macchine ad alta frequenza senza chiudere gli occhi».

Era il 1921, Pjotr Kapitza  aveva lasciato san Pietroburgo per via di un’epidemia che gli aveva ucciso, l’anno prima, la moglie e i due figli. Voleva cambiar vita e scelse Cambridge perché a quell’epoca - come detto - la cittadina inglese era il centro della fisica mondiale. Paul Dirac che lo conosceva dal 1923 raccontava che a Cavendish, ogni giovedì sera, il “russo” aveva l’abitudine di radunare i colleghi per discutere e scambiare pareri ed esperienze. «Ci vediamo - si usava dire tra gli scienziati - al Kapitza club»; anche questo è scritto sui libri di storia. Durò fino al 1934.  In quell’anno l’Accademia delle Scienze, trasferendosi da San Pietroburgo (che nel frattempo era diventata Leningrado) a Mosca, volle iscrivere Kapitza tra i suoi soci e l’invitò per celebrare l’avvenimento.

Non era il suo primo viaggio in patria: ci andava ogni anno in compagnia della seconda moglie Anna Aleksejeva, pure lei emigrata nel Venti in Inghilterra per fuggire il contagio, più che per approfondire gli studi di archeologia. Rimanevano ogni volta due, tre mesi, ma in quel settembre del Trentaquattro, quando Kapitza decise di rientrare a Cambridge, gli fu fatto capire che l’Unione Sovietica “non poteva fare più a meno di lui”. Fu - in effetti - bloccato. Soltanto la moglie ritornò in Inghilterra, giusto il tempo per riprendere i figli e portarli a Mosca.

Da allora, ogni anno durante i mesi estivi era Paul Dirac ad andare in Russia per portargli le ultime novità e le scoperte di Cavendish. Erano quelli tempi di fede nell’internazionalità della scienza: Rutherford - è un esempio significativo -  visti vani i tentativi di riavere Kapitza, decise di inviargli il laboratorio con tutte le attrezzature. Fu lo stesso Dirac a curarne il trasferimento. Narra Jungk che il Governo sovietico, «per assicurarsi Kapitza non soltanto pagò trentamila sterline dell’epoca per il Laboratorio Mond, ma costruì a Mosca un nuovo istituto sullo stile di una dimora signorile inglese, appositamente per lui. E così Kapitza si arrese nella sua aurea prigionia».

Non si seppe più nulla di lui fino al 1946, all’epoca dell’esplosione di Bikini http://www.youtube.com/watch?v=YKwGtfCtrYM, quando inviò ai suoi colleghi occidentali un appello, invitandoli a non impegnarsi nello sviluppo dell’energia atomica a scopi militari: «Parlare di energia atomica e insieme di bomba atomica è insensato, come se parlando dell’elettricità ci si riferisse principalmente al suo impiego nella sedia elettrica», scrisse. Poi seguirono altri anni d’inspiegabile silenzio, mentre i giornali americani andavano scrivendo di lui che dirigeva l’équipe di costruttori delle bombe atomiche sovietiche. Invece Kapitza - lo si seppe molto tempo dopo - era agli arresti  domiciliari a Zvenigorod http://it.wikipedia.org/wiki/Zvenigorod  proprio per essersi rifiutato di dedicarsi al progetto della bomba H.

Lo avevano esonerato dalla carica di direttore dell’“Istituto per i problemi fisici”, costruito appositamente per lui, lo avevano privato di tutte le decorazioni, gli avevano dimezzato lo stipendio e lo avevano “rinchiuso” con moglie e figli nella sua piccola dacia di Zvenigorod. Unica concessione, il permesso di costruirsi un piccolo laboratorio, ma gli negarono gli assistenti. Erano gli anni bui del terrore staliniano durante i quali, altri scienziati per il medesimo rifiuto subirono sorti peggiori.

Kapitza era comunque uno studioso troppo prezioso, forse speravano in un suo ravvedimento; gli concessero il laboratorio perché continuasse a sperimentare: così fece, assistito dalla moglie. Tuttavia l’esperimento più audace fu quello di scrivere una lettera a Stalin avvertendolo di stare in guardia da Beria. Ebbe fortuna, Stalin tenne in buon conto il messaggio e intimò a Beria di non toccare Kapitza. Venne così a crearsi una ben strana situazione nella quale Stalin, che essenzialmente avversava Kapitza, divenne in suo maggior protettore contro i tanti nemici che volevano eliminarlo.

Poi, col passare del tempo, gli restituì alcuni privilegi, e gli permise - cosa di cui lo scienziato più soffriva la mancanza - d’incontrasi con altri fisici, e fu per lui quasi un ritorno alla vita normale. Che durò poco, poiché Kapitza si rifiutò di partecipare ai grandi festeggiamenti per il settantesimo compleanno di Stalin. Non glielo perdonarono. Fu di nuovo privato di tutte le concessioni, fu di nuovo isolato nella sua dacia di Zvenigorod dove vi rimase fino alla morte del dittatore. Ricordo che chiesi a Kapitza di parlarmi di quei sette anni - tanto durò il periodo di isolamento - di cosa significasse per un ricercatore vivere in quella situazione e perché scrisse a Stalin. Rispose, con un sorriso candido, che la vita a quell’epoca era sì angosciosa, ma c’era pur sempre il sollievo della ricerca quotidiana. Non scese in particolari, poiché era convito che la vicenda della sua vita non interessasse alcuno.

La moglie Anna Aleksejevna, che l’affiancava, rimase con le labbra strette. Per dire lo stile di quella coppia. Invece parlò Paul Andrien Maurice Dirac, dopo aver premesso che tutto quanto sarebbe andato dicendo gli era stato raccontato da Kapitza, la posizione del quale era diventata ancora più precaria dopo la morte di Stalin perché non aveva alcuno che lo proteggesse da Beria. «Una mattina si presentarono due uomini e gli chiesero di visitare il laboratorio; gli dissero che volevano conoscere nel dettaglio ogni macchinario.

Kapitza comprese presto che quei due individui non erano affatto dei fisici e cominciò a chiedersi cosa volessero da lui. Ma quelli non gli lasciarono tempo per le riflessioni, continuarono a tempestarlo di domande. Poi a mezzogiorno in punto i due dissero di aver già visto abbastanza e si accomiatarono, lasciando Kapitza nel più grande sconcerto.

Tutto divenne chiaro ventiquattro ore dopo, quando sentì alla radio che Beria era stato arrestato alle dodici del giorno avanti: quei due uomini erano venuti per difenderlo nel caso che Beria, nei suoi ultimi momenti di potere, avesse deciso di sopprimerlo», raccontò Dirac mentre la coppia assentiva col capo.

E così Kapitza ritornò a dirigere il suo Istituto e, forte dell’appartenenza all’Accademia delle Scienze, una corporazione così antica e potente da sfuggire persino al controllo del Pcus (era l’accademia che gli pagava lo stipendio durante il periodo di “confino”) divenne leader dell’ intelligencija liberale sovietica. Il timido disgelo krusceviano gli consentì di criticare il dogmatismo ideologico sulle pagine della Ekonomiceskaja Gazeta e su Junost, il giornale della gioventù.

A chi gli prospettava i pericoli di una discussione al di fuori degli schemi di partito rispondeva: «La scienza diviene falsa quando non riconosce l’errore, il quale in sé è dialetticamente necessario. Non bisogna sopra stimare mai il danno dell’errore. Organizzatevi in club, discutete, non stancatevi mai di discutere». Diventò così una sorta di padre spirituale, il punto di riferimento ideale degli scienziati contestatari che ne ripresero poi il messaggio teorico dandogli un contenuto concreto.

Quando nel 1965 il periodo “liberale” ispirato dalla destalinizzazione finì e i dibattiti tornarono ad essere proibiti, quello che prima era tra gli scienziati sovietici un dissenso verbale divenne, per ragioni contingenti, più concreto: cominciò il periodo delle petizioni, delle lettere aperte, delle dimostrazioni, di un diverso modo di criticare il regime ed emersero altri nomi: Sacharov, Medvedev, Turcin, Levic, Calidze. Kapitza si tenne in disparte, e fu anche quella una scelta coerente con il suo esistere: aveva valutato che non ci si poteva spingere oltre, che non si sarebbe mosso nulla. Infatti, Gorbaciov sarebbe arrivato soltanto nel 1985. Kapitza era convinto, e l’aveva già scritto a Rutherford il 18 giugno del 1921 http://kapitza.ras.ru/history/PLKapitza/letter.html, che «alla fin fine noi tutti non siamo che piccole particelle di una massa trascinata da una corrente che chiamiamo destino. Al massimo riusciamo di tanto in tanto a discostarsi dalla nostra via e a nuotare a galla. La corrente ci dirige».

Ma siccome non riusciva a rassegnarsi, continuava a ricordare a ogni occasione ai “falchi” dell’una e dell’altra parte che urgeva innalzare un inno alla pace. «Ricordiamoci di Hiroshima, pensiamo alla pace», continuava a dire a Dirac alto, filiforme, che un po’ piegato in avanti come un punto interrogativo sembrava come ascoltasse quell’esortazione per la prima volta. Era bello vederli muoversi tra una folla anonima di un pomeriggio di luglio del secolo scorso. Così distanti, così diafani. Emozionanti come un cespuglio di arnica su un passaggio di roccia.

    

 

 

di Mario Braconi

L’uomo che, in un elegante ristorante parigino, siede davanti a  Dorian Lynskey, il critico musicale del Guardian, sembra proprio Prince. O per lo meno una sua versione insolitamente sobria e disciplinata: pantaloni e polo neri, capelli ancora perfettamente neri ed in ordine, unica concessione alla stravaganza, una grande catena d’argento lucido. Anche se il cantante di Minneapolis, a dispetto dei suoi 53 anni, conserva l’aspetto di un ragazzo, l’intervista finisce per rivelare quanto l’uomo sia cambiato con il passare degli anni, al punto da farlo assomigliare ad un Dorian Gray in negativo.

Musicista geniale ed eclettico, in 35 anni di carriera ha pubblicato almeno altrettanti album in studio (80 milioni di copie vendute), muovendosi disinvoltamente tra rock, soul, jazz, r&b, rap, dance, psichedelia. Nell’immaginazione dei fan ha addirittura assunto dimensioni mitiche la cosiddetta “cassaforte” di Prince, ovvero l’archivio del materiale da lui prodotto e mai pubblicato: secondo un musicista che ha curato una raccolta di successi, conterrebbe centinaia di spartiti e di canzoni registrate e remixate, alcune decine di album completi e perfino una cinquantina di video musicali.

Ma Prince non verrà ricordato solo per la sua torrenziale creatività e per il suo talento chitarristico: forse pochi artisti mainstream, ad esempio, hanno saputo impregnare di sesso la loro musica con altrettanta forza ed insistenza. Sono bastati due soli versi della sua “Darling Nikki” del 1984 (“L’ho incontrata nella lobby di un hotel / mentre si masturbava con una rivista”) a provocare un effetto epocale sulla cultura popolare americana.

Per niente divertita dall’incongrua situazione descritta dal testo della canzone, la ex Second Lady Tipper Gore (ex moglie del Al Gore) prese la palla al balzo e si diede, assieme ad altri pudibondi insegnanti e genitori, alla costituzione del Parents Music Resource Center (PRMC), un’associazione esplicitamente dedita alla censura. Tra le altre cose, la PRMC impose l’esposizione dell’etichetta “Parental Advisory - Explicit Content” (“Consiglio per i genitori, contenuti non adatti ai minori in quanto espliciti”) sulle copertine dei CD reputati troppo libertini (a riprova di quanto assurda e ridicola sia questa iniziativa, perfino un album interamente strumentale di Frank Zappa ricevette l’anatema).

Talento musicale a parte, il look kitsch, eccessivo e talora sessualmente ambiguo di Prince era proprio quello che ci voleva per sfondare ai tempi della musica diffusa via tubo catodico. Per dirla con le sue stesse parole: “Michael [Jackson] ed io siamo usciti in un momento in cui non c’era praticamente niente. MTV non aveva nessuno con il look giusto. Ecco, Bowie, magari. Sì, un mucchio di gente faceva buoni dischi, ma andava in giro vestita come se andasse a fare la spesa”.

Prince, pur essendo un artista singolarmente inquieto e talora non molto affidabile, può essere considerato l’emblema della ribellione di un artista contro gli eccessi mercantili delle major. Anche i più maliziosi ritengono che a motivare Prince sia più l’ossessione a non farsi sfuggire neanche un centesimo di royalty più che questioni di principio. Celeberrima è stata la querelle che l’ha contrapposto per molti anni alla Warner, colpevole, secondo Prince, di sfruttamento e di scarsa attenzione verso le sue potenzialità artistiche.

Fra i primi a reagire allo strapotere delle società discografiche, Prince fu uno dei primi artisti a vendere le sue canzoni (esclusivamente) via internet. E a tentare in seguito metodi distributivi inediti ed intelligenti, con discreti risultati: ad esempio far pagare il biglietto del concerto 10 dollari in più in cambio di una copia originale dell’album, ovvero distribuire il nuovo disco assieme ad un quotidiano (è successo in Gran Bretagna, dove, a luglio del 2010, il suo disco 20TEN è stato regalato assieme alle copie del Daily Mirror).

Sfortunatamente, quel Prince oggi è scomparso, forse segnato da un evento tragico che ha marchiato la sua vita privata (la morte di un figlio neonato), certamente a causa della sua conversione religiosa (nel 2000 è si è divenuto testimone di Geova). Ha rinnegato il suo passato sexy e provocatore che tanto bene si attagliava ad un soul-man di fine millennio, trasformandosi nel bell’uomo di mezza età dall’eloquio sentenzioso ed oscuro e dalle idee reazionarie.

Basta con internet, fine della musica digitale: “Personalmente, non sopporto la musica digitale. Il suono ti arriva in bits. Va a toccare una parte diversa del cervello [rispetto a quella analogica]. Quando la suoni, non senti niente. Siamo gente analogica, non digitale.”

Prince è particolarmente arrabbiato contro la pirateria, uno dei sottoprodotti indesiderati della musica digitale di cui a suo tempo fu pioniere. La sua “attenzione” maniacale ai diritti d’autore si è spinta a far rimuovere da YouTube un video dei fan che lo ritraeva mentre eseguiva dal vivo una cover di “Creep” dei Radiohead, suscitando le vibrate proteste perfino della band britannica. In generale, se si cerca un video di Prince su YouTube, spesso il sonoro è sostituito con un altro brano mentre un pop up spiega: “audio rimosso perché Prince non vuole la sua musica su YouTube”.

Nell’intervista non manca un momento di catechesi particolarmente indigesto: "Quando sei in un posto dove non ti senti stressato, dove non si sentono allarmi di macchina, né jet che ti rombano sulla testa, capisci che cosa vuol dire inquinamento sonoro. Una società senza Dio, senza un collante sociale, è una forma di rumore. Non possiamo fare ogni volta quello che vogliamo. Cosa succederebbe se non vi fossero confini?”. La frase successiva fa rizzare i capelli non solo ai fan che ancora ricordano un Prince grande estimatore della bellezza femminile: “E’ fico vivere nei paesi islamici, sapere che c’è solo una religione. C’è ordine. Ti metti il burqua. Non c’è scelta. La gente è contenta”. E se ci sono persone non contente, prova a buttar lì l’esterrefatto cronista. “Alcune persone non sono mai contente, è questo il fatto”. A dispetto di tutto, alla fine spunta fuori un po’ della vecchia intelligenza di Prince: “Non è mia intenzione fare comizi. Possiamo star qui a parlare per sempre della mia visione del mondo. Ma io sono soprattutto un musicista”. Fortunatamente, verrebbe da dire...

di Mario Braconi

Chi pensa che il 25 giugno 2011 sia stato solo un sabato come gli altri dovrà forse ricredersi: la Sony, impegnata nel lancio del nuovo film in 3D sui Puffi, ha deciso di trasformare quella data nella “giornata globale dei Puffi”. Obiettivo dichiarato della multinazionale, “animare il più grande raduno di persone vestite da Puffo in un periodo di 24 ore”. A conferma del fatto che i meccanismi mentali alla base dell’agire umano sono spesso imperscrutabili, alcune città del globo si sono prestate volentieri alla discutibile celebrazione.

Ad esempio, le abitazioni bianche del villaggio andaluso di Juzcar, dove la pellicola verrà presentata in anteprima mondiale, sono state dipinte in azzurro-Puffo. Mentre la Casa Rossa di Taiwan, un mercato coperto completo di sala cinematografica, si è trasformata in un’improbabile “casa azzurra”, pronta ad accogliere un bel numero di cinesi vestiti da Puffi.

La data scelta dalla Sony per le “celebrazioni” corrisponde con l’anniversario della nascita del papà dei simpatici pupazzetti azzurri, il disegnatore anglo-belga Pierre Culliford, detto Peyo, morto nel 1992. I celebri gnometti nascono come personaggio secondario di un fumetto di argomento cavelleresco realizzato da Peyo alla fine degli anni Cinquanta, dal titolo “Johan & Pirlouit”. In un episodio uscito ad ottobre del 1958, infatti, i due protagonisti evocano dei folletti per aiutarli a trovare un flauto a sei fori.

Per quanto riguarda il buffo modo di parlare dei personaggi (sostituiscono tutti i verbi con il neologismo passepartout “puffare”), la leggenda vuole che esso sia la conseguenza di un piccolo lapsus del disegnatore: un giorno, mentre era a tavola, temporaneamente incapace di pronunciare la parola sale, chiese ad un vicino se gli potesse passare il “puffo” (ovvero la saliera). L’altro, divertito, iniziò uno scambio di battute, rimpiazzando i verbi necessari con declinazioni del polifunzionale “puffare”.

Benché conosciuti fuori dal Belgio (anche in Italia) fin dagli anni Sessanta, i Puffi divennero però un successo globale solo quando un produttore americano decise di ricavare dalle strisce una ciclopica serie di cartoni, articolata in 256 episodi, successivamente tradotti in 30 lingue e distribuiti in 120 paesi.

Secondo Veronique Culliford, figlia di Peyo, l’incredibile successo globale delle serie televisive si spiega con la natura fondamentalmente buona dei piccoli protagonisti e con la loro sostanziale neutralità culturale. Come dichiara alla BBC, i Puffi, di solito “non s’interessano di politica o di religione e sono dunque multi-culturali: ogni persona al mondo può identificarsi con uno dei Puffi, riconoscendosi nei loro valori di amicizia, gentilezza e aiuto al prossimo, indipendentemente dalle loro storie personali”.

Ci sono anche delle eccezioni: in un episodio Peyo narra il delirio di onnipotenza di un ambizioso Puffo, che, servendosi di promesse populistiche, dà la scalata al potere, divenendo infine un (piccolo) dittatore azzurro (ricorda qualcuno?), salvo poi tornare a più miti consigli dopo aver rimesso a posto tutti i danni provocati. Una storiella adatta ai piccini, da cui però traspare un chiaro messaggio antiautoritario. E in generale non si può ignorare il significato blandamente politico intrinseco in questa ingenua quanto gioiosa rappresentazione di una comunità priva di denaro e generamente dedita al bene comune più che al tornaconto personale.

Non mancano, però le zone d’ombra, su tutte un chiaro atteggiamento discriminatorio nei confronti delle donne: nel mondo dei Puffi se ne contano infatti soltanto tre, di cui solo una assurge al rango di personaggio di primo piano, Puffetta. Quando arriva al villaggio, la puffa non è altro che uno strumento (inadeguato) nelle mani del cattivo Gargamella; dato che è bruttina e sgraziata, ovvero inadatta al desiderio “puffo”, il Grande Puffo la trasforma con la chirurgia plastica in una bellezza convenzionale (capelli biondi, ciglia lunghe). Ma la femmina continuerà a creare problemi ai maschietti azzurri, fino a che deciderà di auto-esiliarsi.

In generale, la caratterizzazione di questo personaggio è basata su un concentrato di luoghi comuni che non è eccessivo definire reazionari. Secondo Willem de Graeve, direttore del Centro Belga del Fumetto di Bruxelles, “questa è la conseguenza dell’educazione cattolica. Ai tempi in cui sono stati ideati i Puffi, non era una cosa dabbene mostrare maschi e femmine che si divertivano assieme vivendo avventure, per quanto innocenti esse fossero”.

E’ comunque un fatto che attorno ai folletti azzurri e alla loro organizzazione sociale si sia sviluppata un’inattesa quantità di riflessioni politiche e culturali. Nella pacifica e maschilista collettività puffesca ognuno sembra vedere ciò che preferisce: dall’esemplificazione di una società anarchica alla condanna del collettivismo.

In un libro a firma di tale Antonello Soro, recensito da Massimo Introvigne del CESNUR, addirittura, il grande Puffo è il Gran Maestro di una loggia massonica (il cappuccio e i pantaloni rossi, colore del fuoco, parlano chiaro…), mentre il nerovestito Gargamella rappresenterebbe un prete o rabbino, combattuto tra la lotta contro l’esoterismo e la fascinazione che esso produce su di lui.

E ancora: le casette dei Puffi assomigliano all’amanita muscaria, un fungo allucinogeno, usato da sciamani per “mettersi in contatto” con l’altro lato; i loro copricapi bianchi alluderebbero alla purezza; i Puffi, infine, “nascono” per cercare un flauto, tema che richiama il Flauto Magico di Mozart, un singspiel di chiaro riferimento massonico. Sembra dunque che saranno moltitudini eterogenee per età, cultura e visioni politiche a festeggiare la creazione dei Puffi. Ma non sarebbe più saggio lasciare che a gioire siano solo i bambini?


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