di Mario Braconi

La band inglese Florence and the Machine ha fatto un grave passo falso: il video realizzato per promuovere “No light, no light”, il secondo singolo estratto dal loro album “Ceremonials”, ha contenuti fortemente razzisti. Anzi, come nota correttamente il sito Racialicious, è “perfino lievemente sconcertante la quantità d’iconografia razzista che (i produttori) sono stati in grado di stipare all’interno di un video di soli 4 minuti e 15 secondi”.

Questo il plot: una giovane donna esile, pelle diafana e fiammeggiante capigliatura rossa (Florence Welsh, cantante e volto pubblico della band), assume pose melodrammatiche, che probabilmente vorrebbero alludere ad una qualche forma di turbamento erotico o sentimentale; il tutto mentre si mantiene faticosamente in equilibrio…sul cornicione di un grattacielo. Nel frattempo, un gruppo di ragazzini vestiti da preti, prende posto nel coro di una chiesa ed inizia a cantare: per l’esattezza, nella fiction del clip, sono le loro voci ad interpretare i cori dello (splendido) brano dei Florence and the Machine. Finalmente si comprende la ragione del turbamento della donna: su un pavimento a quadri bianchi e neri (si noti il raffinato gusto per la metafora), davanti a una moltitudine di moccoli accesi, si sta agitando uno strano personaggio da Carnevale di New Orleans; atteggiamento tra il grottesco e il minaccioso, braghe sgargianti in netto contrasto l’ebano della pelle.

Quando si toglie la maschera, lo zoom mostra il volto di un nero con gli occhi a fessura, su cui è dipinta una smorfia minacciosa. Non c’è dubbio che qui siamo alla presenza di un essere demoniaco. E, tanto per fugare ogni residuo dubbio, il ragazzo ora si sta esercitando con una bambolina vudù nella quale affonda soddisfatto immensi spilloni, causando contorsioni sempre più violente nella pallida protagonista. La quale, ricordiamo, sia pur vestita da sera, truccata e pettinata come si deve, si trova pur sempre sul bordo di un cornicione. Il perverso rito dell’uomo nero le provoca tali contorcimenti che alla fine, con sollievo dello spettatore, Florence precipita nel vuoto. Nel frattempo scorrono, giustapposte, sequenze che documentano il calvario della “povera” donna bianca perseguitata dalla (o)scura creatura, con tanto di inseguimenti per le strade, nei tunnel della metropolitana, per le scale...

Una vera fortuna per Florence che stia precipitando proprio sopra alla chiesa che abbiamo visto all’inizio, nella quale un piccolo esercito di giovani preti sta inneggiando al Signore, indubitabilmente chiedendogli di risparmiare la vita alla giovane. Circostanza ancora più singolare, la chiesa, di stile gotico, è dotata di un rosone decorato da una vetrata colorata, opportunamente collocato sul tetto, anziché sulle pareti laterali. In questo modo la donna non finisce impalata su una guglia, ma, attraversato il vetro colorato, termina la sua corsa tra le braccia protese dei bimbi-preti, che la accolgono come un telo da salto umano e ne sostengono il lungo corpo sottile.

Insomma, alla fine grazie ai “lumi di chiesa”, il Bene le suona di santa ragione al Male, personificato da quella molesta creatura dalla pelle scura che viene anche immortalata davanti ad un muro imbrattato di graffiti, simbolo che contrasta con la serena austerità che regna nella casa che i buoni bianchi hanno costruita per il loro Dio. Non c’è scampo per il ragazzo nero che, ferito a morte dalla irresistibile bontà dei bianchi, dopo una serie di sgangherate piroette si porta una mano al petto ed esala il suo ultimo respiro. Finalmente Florence può riabbracciare l’amato, un bel giovane di incontaminata razza ariana, che la abbraccia teneramente mentre si riposa dalle sue epiche imprese.

A parte la rappresentazione incredibilmente superficiale e distorta della religione vudù (identificare il vudù tout court con la magia nera, ricordiamo, è come identificare il cristianesimo con le crociate), non è chiaro se le intenzioni di Florence fossero o meno razziste e, forse, non è nemmeno troppo importante fare chiarezza su questo punto. Non importa, infatti, se un simile obbrobrio sia stato partorito per superficialità, ottusità morale o piuttosto furbizia commerciale; non sarebbe possibile transigere perfino se si trattasse (come si vorrebbe dal profondo del cuore per la stima che si deve alla Florence musicista) di una rappresentazione ironica tesa a stigmatizzare gli stereotipi mandandoli in corto circuito semantico.

Perché il fatto inequivocabile è che il video dà corpo ad un esecrabile immaginario basato sullo svilimento dei non-bianchi e sulla magnificazione di una fantasmagorica supremazia della razza bianca. Fornisce un indesiderabile passaporto pseudo-artistico a un razzismo che purtroppo sopravvive e si manifesta molto più spesso di quanto si creda. E questo, per un’artista, dotata del soprannaturale potere di entrare in contatto con milioni di persone, è (per lo meno) molto irresponsabile.

Come noto, infatti, il rapporto tra artista e fan non è troppo diverso da quello amoroso: in Rete si possono legger alcuni commenti dei fan dei Florence & the Machine che, accecati dall’amore, finiscono per minimizzare quello che invece è un dato molto grave e che merita una esplicita condanna. In ogni caso, come nota Racialicious, l’inconsapevolezza dei produttori difficilmente potrà essere accampata, specie “se si analizza la faccenda e si pensa al numero di persone che devono aver lavorato allo storyboard, alle coreografie, al casting e alla direzione artistica del video”. Nel frattempo, a dispetto delle petizioni e delle proteste che chiedono che la clip venga ritirata, o girata di nuovo, tanto Florence che l’etichetta discografica non hanno ritenuto di scusarsi, o anche solo di cercare di spiegarsi, con il loro pubblico. E con tutti i non bianchi.

di Sara Michelucci

Una Favola nera, una favola amara, una favola che di fiabesco ha ben poco e che riesce a catapultare lo spettatore in quell’America anni ’50 con le tendine rosa alle finestre, i giardini ben curati, ma tanti terribili segreti racchiusi tra le mura domestiche. Favola, c’era una volta una bambina, e dico c’era perché ora non c’è più è il lavoro teatrale che Filippo Timi sta portando in giro per l’Italia.

Vestito da donna incinta, picchiata dal marito, Timi interpreta in maniera meravigliosa Mrs. Fairytale, dando al personaggio uno spessore tale, dove l’umorismo e l’ironia fanno il paio con la drammaticità di una vita senza amore. Gonne ampie, capelli gonfi, tacchi altissimi, un barboncino imbalsamato, fanno di questa donna un’icona di conformismo e buonismo che ben presto lasceranno il posto ad altro.

Mrs. Fairytale e Mrs. Emerald (una brava Lucia Mascino) sono due vecchie amiche di infanzia, due impeccabili mogli, curate nell’aspetto come nell’arredo della casa. Ma entrambe hanno delle zone nere e un terribile segreto da nascondere. Le frasi, come i gesti, stabiliscono i pensieri, danno adito a ciò che le due donne vogliono dalle proprie vite.

“Ogni uomo è una trappola - dice Mrs. Fairytale - alcuni sono trappole taglienti, altri pozzi vuoti, altri meravigliosi come un veleno irresistibile, ma di base, l’uomo ha l’omicidio nel cuore…Vivo come in una farmacia, morirò pulita come una supposta scaduta. C’è qualcosa dentro di me che vive, s’inaugura e io mi sento come se non fossi stata invitata a questa festa”.

L’amica, Emerald, il cui marito ha una relazione omosessuale con il maestro di ballo, non è da meno e aggiunge: “Hai ragione, dobbiamo fare qualcosa, rischiamo di vivere una vita per la pietà di fare felice qualcuno che non siamo noi”. In questo dialogo è racchiusa gran parte dell’essenza dello spettacolo. Le vite vuote delle due donne, le loro frustrazioni affettive e sessuali si placheranno e troveranno finalmente soddisfazione nel rapporto che sapranno costruirsi, soprattutto dopo che a Mrs. Fairytale spunterà il pene. Dopo aver fatto fuori il marito manesco, scapperà con la sua amica, ma sarà rapita da un ufo e trasformata in una stella che chiede al pubblico di non dimenticarla mai.

Timi gioca con il sogno americano, in questo spettacolo di cui è autore, regista e interprete, svelando quelle storture che già tanti registri cinematografici avevano portato sugli schermi.
Viene in mente Velluto Blu di David Lynch, ma anche il più recente American Beauty di Sam Mendes, dove nell’apparenza di una casa perfetta e di una famiglia a modo, si cela la violenza e il tradimento.

Molto carina e azzeccata la scelta di inserire tra un cambio di scena e l’altro una pubblicità, proiettata sul sipario, degli anni Cinquanta, mettendo in essere un mix di citazioni e rimandi che danno il senso e l’idea di un’epoca che poi tanto lontana non è. I passettini, a cui Timi ci abitua durante lo spettacolo, ci conducono verso un vortice di follia e surrealismo che però ha i piedi ben piantati in quei cliché che hanno reso irrealizzabile il sogno americano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Mario Braconi 

Una sentenza della Corte Europea di Giustizia, il cui contenuto è stato reso noto giovedì, stabilisce che i sistemi di monitoraggio del traffico internet possono potenzialmente ledere il diritto alla libertà di espressione; quanto ai diritti della proprietà intellettuale, se è vero che la loro tutela è riconosciuta dalla Carta dei diritti fondamentali, “nulla in quel documento fa pensare che essi siano involabili e pertanto debbano essere protetti ad ogni costo”. In altre parole, la Corte Europea ha dato rilievo formale ad un concetto noto al senso comune: la libertà di espressione è più importante degli interessi commerciali delle major che producono e distribuiscono contenuti (film, musica e ora anche libri).

Tutto é nato nel 2004 quando, alla Sabam, la SIAE belga, si sono accorti che alcuni clienti dell’internet provider Scarlet (allora controllato da Tiscali) utilizzavano illegalmente contenuti di proprietà dai suoi associati, ovvero se li scambiavano mutualmente, utilizzando architetture peer-to-peer. Sabam ha trascinato in tribunale Scarlet chiedendo, ed ottenendo, che l’ISP filtrasse gli account dei suoi clienti per impedire loro di condividere contenuti i cui diritti patrimoniali erano gestiti da lei gestiti.

Scarlet si è rivolta alla Corte d’appello, sostenendo che la decisione del tribunale di primo grado era in contrasto tanto con la legge europea sulla privacy quanto con la direttiva sull’e-commerce: quest’ultima, pur consentendo la possibilità al danneggiato di agire legalmente contro chi utilizza illegalmente materiale coperto da copyright, vieta di imporre agli ISP sistemi di monitoraggio generalizzato del traffico dei loro clienti. Nel frattempo, una seconda sentenza del 2007 faceva ricadere su Scarlet l’improbo compito di “impedire ai suoi clienti di violare i diritti d’autore”. Nel 2010, la Corte d’appello belga ha chiesto alla Corte Europea di giustizia (CEG) di fare chiarezza.

Il contenuto della sentenza era stata già largamente anticipato lo scorso aprile dalle dichiarazioni di Pedro Cruz Villalón, uno dei suoi Avvocati Generali, organi consultivi della CEG, i cui pareri non sono legalmente vincolanti. Cruz Villalon aveva sbriciolato le fondamenta dell’ordine di filtraggio obbligatorio dei clienti facendo leva su tre punti: primo, se esso fosse stato valido, su tutti i provider europei sarebbe ricaduto un identico obbligo, cosa impossibile. Secondo: un simile ordine avrebbe riguardato anche i non clienti di Scarlet che condividevano illegalmente contenuti con i clienti del provider belga (potevano essere residenti in altri stati e quindi soggetti a leggi diverse).

Infine, secondo l’Avvocato Generale, le disposizioni di leggi vigenti in Belgio ai tempi della sentenza non prevedevano in modo esplicito e chiaro l’obbligo dei provider di installare software di filtraggio e blocco, oltretutto a loro spese.

La sentenza di ieri, oltre a ribadire quanto già detto da Cruz Villalòn, sottolinea che “l’ingiunzione caduta su Scarlet può mettere potenzialmente a rischio la libertà di informazione, dal momento che un sistema di filtraggio non è in grado di distinguere tra contenuto liberamente scambiabile e contenuto protetto da copyright, cosa che può significare un blocco delle comunicazioni legali”.

Secondo Alex Hanff, attivista di Privacy International, sentito dal sito di informatica ZdNet, la sentenza costituisce un precedente importante, specialmente in Gran Bretagna. Nel Regno Unito il dibattito su cosa si dovrebbe vietare e come nel cyberspazio è vivo e tutt’altro che facile da districare: tanto è vero che le disposizioni della legge che dal 2010 disciplina la cosiddetta “economia digitale” (il “Digital Economy Act”) sono state sottoposte ad un processo di revisione che si protrae praticamente dal giorno dell’approvazione della legge e minaccia di protrarsi fino al 2013.

Una delle norme più dibattute è proprio quella che riguarda la possibile “schedatura” degli IP dei clienti che condividono materiale soggetto a copyright, con l’obiettivo di comunicarne le generalità a chi gestisce patrimonialmente i diritti d’autore.

La nuova sentenza, però, non impedisce il blocco di siti internet notoriamente dediti allo scambio illegale di file, dal momento che questa misura è consentita dalla Direttiva comunitaria sull’e-commerce. Secondo Hanff, però, bloccare siti come The Pirate Bay (in sé legalmente ammessa) comporta la necessità tecnica di filtrare i contenuti dei clienti degli Internet provider. Un sito come The Pirate Bay, infatti, funziona grazie al grande numero di “tracker” e “mirror”, e, secondo Hanff, l’unico modo per impedirvi l’accesso è quello di analizzare quello che scaricano i clienti degli ISP.

Sembra comunque che in Gran Bretagna tale tipo di filtraggio non venga effettuato: secondo una fonte di ZdNet, la Virgin Media (parte di un gruppo che, offrendo al pubblico tanto contenuti che connettività, si trova in una situazione unica per valutare la questione), abbia deciso di abbandonare un software “packet-sniffing” (“annusa-pacchetti”), dopo il periodo di test.

Con tutte le cautele del caso, oggi è un giorno importante per la libertà di espressione digitale in Europa. E’ comprensibile la disperata frustrazione provocata alle industrie dell’intrattenimento dalla condivisione illegale di contenuti: essa infatti danneggia le loro rendite, minacciando un modello di business obsoleto quanto redditizio. Il vero problema, però, è oggi all’estrema rigidità delle major, si contrappone un atteggiamento anarcoide degli utenti, che tendono a considerare il giusto ricavo di un artista un “furto del sistema”.

Entrambi gli atteggiamenti sono errati e dannosi: il rischio è quello di strozzare gli artisti. Il fenomeno, non controllabile, dei peer-to-peer dovrebbe però stimolare il settore a trovare nuovi modi per rendere legale (e ragionevolmente redditizio, con accento sull’avverbio) quello che comunque verrà consumato illegalmente: una sana logica di riduzione del danno. Viceversa, la strada che le major hanno scelto per combattere la pirateria passa attraverso la violazione dei diritti fondamentali dei cittadini ed il tentativo di imporre assurdi obblighi di monitoraggio agli internet provider. Almeno è stato così fino a ieri.

di Sara Michelucci

Un pezzo di Africa arriva in teatro con lo spettacolo Storie di Kirikù della compagnia Teatro dei colori, per la regia di Gabriele Ciaccia. Luci, suoni, immagini che scorrono sul telo della capanna, fanno di questa rappresentazione il racconto di una cultura che porta con sé valori importanti e che ben si applicano anche alla società occidentale.

Kirikù è un bimbo speciale. La sua voce si sentiva già dal ventre della mamma e appena nasce si dà il nome. È un eroe-bambino che scopre ben presto che il suo villaggio è sotto scacco di una strega che ha fatto seccare la fonte dell’acqua, scomparire gli uomini tra cui c’è anche il suo papà e rubato tutto l’oro agli abitanti.

Kirikù è piccolo, nessuno vuole giocare con lui, ma poi tutti lo cercheranno e festeggeranno le sue gesta con canzoni e danze perché è coraggioso, supererà prove, libererà il villaggio dalle maledizioni. Kirikù è un personaggio che deriva dal mito della danza e che per questo va veloce, un po’ come il vento.

Gli elementi scenici ben si amalgamano con personaggi che rappresentano il bene e il male, il piccolo e il grande, la gioia e il dolore, il giorno e le tenebre. Opposti che si scontrano e fanno nascere il racconto. Il feticcio rappresenta l’oggetto che raccoglie gli elementi della vita naturale, del racconto, oggetto che diventa la porta dei rituali di iniziazione. È davanti al feticcio che si affrontano e si vivono le paure.

Karabà, la strega, non è solo un personaggio malvagio, ma una persona che ha subìto un grave torto, vittima lei stessa di una maledizione, con una spina conficcata nella schiena che, oltre al dolore, le provoca rabbia e cattiveria. Insomma alla strega viene data un’umanità tale da renderla vicina agli altri uomini.

La cosa bella di questo spettacolo, rivolto soprattutto al pubblico dei più piccoli (bambini dai 5 anni in su, ma che è piacevole anche per gli adulti) sta nella capacità di veicolare con semplicità tematiche importanti: è la paura che rende prigionieri, dice il saggio del villaggio, nonno di Kirikù, ma solo l’innocenza e l’intelligenza possono spezzare questo incantesimo. Un tema decisamente attuale, quello della creazione della paura, che richiama fatti e avvenimenti che ogni giorno accompagnano la vita politica, istituzionale e sociale della società contemporanea. La paura schiaccia le coscienze, impedisce al pensiero critico e razionale di avere la meglio su superstizioni e preconcetti.

Kirikù insegna, attraverso le sue gesta e la sua voce, che la paura è qualcosa che impedisce la conoscenza e la risoluzione dei problemi e nonostante la sua piccola età riesce ad avere un contatto diretto con la strega e a salvare il suo villaggio grazie al coraggio.

La storia nasce dall’Africa occidentale e vive delle forme del racconto che, nella tradizione africana, diventa un “lungo tempo del racconto”, in forma additiva si innestano altre storie ed altre origini. Nella tradizione africana, il racconto diventa anche animato, gli spettatori sono intorno ad una “capanna”, da dove nascono tutte le storie. Ed in questo cerchio si danza, si ascolta, si risponde, si partecipa. Bravissimi Valentina Ciaccia, Monica Di Bernardo e bravo Gabriele Ciaccia sul palcoscenico e alla regia.

L’idea del Teatro del Colore è quello di riproporre proprio questo schema del racconto e quindi sul palcoscenico troviamo un musicista, una voce narrante, gli animatori-interpreti che sono quasi dei burattinai, che al posto dei fili utilizzano il proprio corpo per far muovere i personaggi. E non mancano anche riferimenti digitali, come le video proiezioni che ripropongono immagini documentali dell’Africa, della sua popolazione e dei villaggi.

Una contaminazione interessante che offre una lettura ulteriore a quella classica del teatro. Lo spettacolo dona così spunti di riflessione come la nascita e la crescita, le paure e i desideri, la capacità di affrontare le difficoltà e di superarle, il singolo e il gruppo, la differenza tra fantasia e realtà, la conoscenza di altre forme culturali. Il teatro diventa educazione al diverso, al nuovo. Utile strumento non solo artistico, ma di vera e propria formazione per grandi e piccini.

 

di Vincenzo Maddaloni

STETTINO. Sono degli anni Cinquanta o giù di lì i tram che percorrono Aleja Wojska Polskiego (Corso dell’Esercito polacco) a Szczecin, così si chiama in polacco la città - in tedesco suona Stettin e in italiano Stettino - che è il capoluogo della Pomerania occidentale. Certamente il tram è un mezzo di trasporto tra i più longevi, ma quelli delle città dell’Est sono legati in modo indissolubile al ricordo del governo comunista, che rivive ogniqualvolta lo sguardo del visitatore si posa sui percorsi  ferrati.

A Stettino per chi vi giunge la prima volta e fresco dei resoconti giornalistici sulle elezioni di ottobre, il cigolio dei vecchi tram diventa per molti versi una sorpresa, poiché mal si concilia con l’immagine della Polonia designata a diventare uno dei “grandi” dell’Unione europea, perché le è riconosciuto un governo saldo e soprattutto una crescita economica che non ha confronti nella Comunità. Essa, infatti, è tornata al 4 per cento, un risultato invidiabile perché, sebbene in flessione rispetto ai ritmi antecedenti al 2008, resta di molto superiore alla media europea (1,7 per cento). Essa è destinata a migliorarsi e quindi a consolidarsi, poiché con la ripresa delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni sono attesi nuovi flussi di capitali che si aggiungeranno ai fondi europei e alle positive ricadute connesse agli Europei di calcio del 2012 che la Polonia ospiterà insieme all’Ucraina.

Si tenga a mente poi che Donald Tusk è il primo capo dell’esecutivo polacco a essere stato riconfermato, dai tempi della caduta del regime comunista nel 1989. Senza dimenticare però il 10,1 per cento dei consensi ricevuti da Janusz Palikot, industriale di spicco e leader del Movimento Palikot che porta avanti istanze come la decisiva separazione tra Stato e Chiesa; la legalizzazione dell’aborto; il riconoscimento delle unioni di persone dello stesso sesso e la legalizzazione della marijuana. Ne fa parte anche Anna Grodzka, la prima deputata transgender della storia polacca. Sicché sono molti a individuare nei risultati di questo voto i tratti di una generazione post-comunista, emancipata dalla tradizione e dal peso del passato, desiderosa di guardare avanti in maniera autonoma e decisamente laica.

Facile da dire, meno facile da concretizzare. Ne è una conferma questa città che per popolazione - più di 400 mila abitanti - è la settima del Paese e il suo porto è il più grande tra quelli polacchi che si affacciano sul mare Baltico. Eppure a Stettino più che altrove, il ricordo del passato governo comunista fa parte del paesaggio come le strade disselciate o rattoppate in modo incredibile. E poi le case fatiscenti; le facciate di molte delle quali sono ancora annerite dagli incendi come se la guerra si fosse conclusa l’altro ieri. I chioschi, come i tram, sono quelli di cinquant’anni fa e davanti alla cattedrale di san Giacomo Maggiore apostolo, in via Papiewza Pawla VI, incombe la grande croce in legno che è lì da trent’anni cioè dai tempi di Solidarnosc.

Essa è la riprova che la secolarizzazione auspicata dal Movimento Palikot, che reclama una netta distinzione fra religione e Stato, è destinata a rimanere un desiderio in un Paese che nella sua stragrande maggioranza si riconosce ancora nelle  parole dell’arcivescovo e primate polacco Stefan Wyszyski http://it.wikipedia.org/wiki/Stefan_Wyszy%C5%84ski che ai tempi del comunismo si oppose ad ogni mediazione affermando che i garanti della Chiesa non sono gli accordi cartacei, bensì i fedeli con la loro fede e l’attività religiosa. I quali sono ancora falangi anche in questa città a 150 chilometri da Berlino, che fino al 1945 era tedesca e che i vincitori consegnarono ai polacchi assieme a una parte della Pomerania, spostando il confine sull’Oder-Neisse.

E quindi, «un paese che si estende e si restringe su una pianura senza confini, e si sposta un po’ qua e un po’ là» costringendo  «milioni di tedeschi e di polacchi a una forzata emigrazione», finisce col creare « un rapporto non privo di malintesi e di contraddizioni », spiega Roberto Giardina in quell’acuta e corposa raccolta di saggi che s’intitola “L’altra Europa” http://www.ibs.it/code/9788845232848/giardina-roberto/altra-europa-itinerari-insoliti.html.

Eppure è in questo scenario di confine dove culture diverse si confrontano che scoppia  tra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 una rivolta  destinata a rimanere nella Storia del movimento operaio di tutto il mondo. Va subito detto che in Polonia le rivolte operaie sono sempre culminate in sanguinosi combattimenti con le forze armate. La peculiarità é dovuta anche al ruolo dei sindacati che, essendo un ingranaggio del meccanismo statale socialista, non erano in grado di contenere l'impeto delle contestazioni operaie.

Infatti l'analisi degli avvenimenti di Stettino e delle altre città del Baltico ha rivelato come tutti i tentativi di pacificazione fatti dai sindacati si fossero dimostrati del tutto inefficaci. Sicché al governo non rimase che mobilitare contro le masse insorte tutte le forze di repressione: polizia, milizia, esercito che massacrarono decine e decine di lavoratori.

Comunque la rivolta di Stettino non va letta soltanto come una ribellione al socialismo di marca staliniana che esaltava fino allo spasimo la proprietà statale, bensì  essa rappresenta l’epilogo temuto in ogni conflitto tra la tecnologia delle macchine e la forza-lavoro, che avvenga sia con il capitalismo di Stato che con quello privato poiché, è risaputo anche se non è per forze di cose pubblicizzato, che ogni aumento della produttività si ottiene spremendo di più l'operaio.

Quando Wladislaw Gomulka, dal 1956 segretario del partito comunista e capo indiscusso della Polonia si accorse che poteva battere “la via del progresso economico” soltanto applicando i metodi capitalistici all’epoca (1969) più avanzati, li mise subito in pratica. Gli si rivelerà fatale: http://it.wikipedia.org/wiki/Wladislaw_Gomulka. Infatti, per contenere gli sprechi, egli fu costretto a ricorrere agli stessi criteri di conduzione in uso nei paesi a regime capitalista, a valutare le imprese di Stato in base al dinamismo economico (cioè all'entità del profitto); in una parola a razionalizzare la produzione. Il che vuol dire: differenziazione dei salari, licenziamenti, disoccupazione. Wladislaw Gomulka non poteva agire diversamente perché non c’era e non c’è alternativa, inutile si rivelerebbe nel  breve termine anche una  soluzione governativa. Sicché da sempre l’operaio sembra condannato a caricarsi di tutto il peso della società. Se così è, allora perché stupirsi se ieri come oggi egli potrebbe con la sua sola forza far implodere ogni sistema?

La rivolta di Stettino rimane la più esplicativa, perché è il luogo nel quale l’esplosione del malcontento si è rivelata in tutta la sua complessità. Il 13 dicembre 1970, poiché la situazione economica della Polonia continuava a peggiorare, il Potere decide un aumento dei prezzi dei generi alimentari. È questo il detonatore che fa scoppiare tutta una serie di scioperi, sommosse e rivolte che sconvolgono il Paese per circa due mesi. La contestazione inizia a Danzica (Gdansk in polacco) il 15 dicembre con le sommosse, i combattimenti nelle strade, i morti. Subito gli scioperi e gli scontri si estendono a tutta la costa baltica e a gran parte della Polonia.

A Stettino l'agitazione comincia il 17 dicembre: il cantiere navale di Adolf Warski entra in sciopero, viene eletto un comitato operaio. Tuttavia, le rivendicazioni (in parte economiche, in parte politiche) sono respinte dalle autorità, le quali si rifiutano di negoziare. Soltanto allora gli operai scendono in strada, iniziando una manifestazione che si trasforma subito in sommossa durante la quale molti di loro sono uccisi dalla polizia. A un certo punto però - per evitare un genocidio - il governo ordina alla polizia di ritirarsi nelle caserme e così gli operai riescono a prevalere ottenendo il controllo della città.

A Stettino, che contava allora 300 mila oltre ai cantieri navali, vi erano numerose aziende industriali. Tuttavia è il comitato di sciopero eletto dagli operai dei cantieri navali che viene designato ad amministrare l’emergenza. Esso s’impegna fin dal giorno dopo della rivolta a un ritorno della normalità. Per raggiungerla, si chiede ai lavoratori del gas e dell’elettricità di sospendere lo sciopero.

Anche i tram riprendono a funzionare con sulle fiancate uno striscione che spiega, «aderiamo all’appello del comitato di sciopero dei cantieri». Riappare il Kurier, il giornale della città, con la cronaca quotidiana degli avvenimenti. Vi si legge che il Comitato riesce ad assicurare l'approvvigionamento, facendosi arrivare - ad esempio - il pane da Zielona Gora, una città che dista 200 chilometri. Inoltre, che si opera in sinergia con gli altri centri della rivolta, soprattutto con Danzica, il più importante dopo Stettino. Insomma, ritorna la speranza.

Durerà un mese e non di più il governo della città da parte dei lavoratori, del tutto impreparati al compito poiché non avevano previsto che sarebbero giunti a tanto. Più che di governo è meglio parlare di autogestione, la quale si muove in sintonia con l'autogestione della lotta, il che significa assemblee di base, elezione dei rappresentanti, i quali elaborano atti e proposte per regolare la vita nella città che di volta in volta sono sottoposte al voto delle assemblee di base. Il meccanismo è complesso, fin troppo. Nel frattempo proprio per aver causato moltissime morti nella repressione sul Baltico  Wladislaw Gomulka viene costretto a dimettersi. Gli succede un uomo di molto più giovane, Edward Gierek, che nel dicembre del 1970 appunto assume la guida del partito con l’impegno di riportare la pace nel Paese http://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Gierek.

Non si conosce la data nella quale l’esperienza del movimento operaio di Stettino si conclude, sicuramente  col passare del tempo le autorità "legali" riprendono a poco a poco il controllo del potere, e dunque del comitato di sciopero se ne perde la memoria. Così almeno si raccontò e si continuò nel tempo a ripetere la medesima versione, con il fine non ultimo che su quei fatti scendesse un silenzio tombale.

Perché con le giornate di Stettino del dicembre del 1970 e del gennaio 1971 si dimostra - per la prima volta al mondo - che la classe operaia sa gestirsi da sola, e che quindi può fare a meno del Partito comunista (oppure di quelli non comunisti) e di tutti i suoi burocrati.

E’ questo l'aspetto sovversivo vero di quegli avvenimenti. La nuova, terribile risposta contro il malgoverno di qualsiasi connotazione possa essere. Se ne rese conto per primo il Partito comunista, che subito s’impegnò a far sparire ogni ricordo di quel mese di potere operaio. Ma se ne resero ben conto pure in Occidente che potevano essere soggetti alla medesima minaccia. Infatti, non soltanto i giornali dell’Est pubblicarono poco o nulla sugli avvenimenti del Baltico, ma neppure quelli dell’Ovest ne scrissero più di tanto, né spiegarono i motivi veri di quella rivolta.

 Beninteso, in quegli anni non c’era Internet, ma le notizie assieme alle fotografie riuscivano comunque a filtrare. Il fatto è che su quegli eventi fiorisce una sorta di omertà, una sorta d’intesa non ufficializzata tra Est e Ovest, che si salda intorno al timore che il “contagio dell’autogoverno operaio” possa estendersi all’intero mondo del lavoro. Infatti - rammento - che gli scioperi del dicembre 1970 non venivano ricordati se non per cenni dieci anni dopo, quando la rivolta di Solidarnosc si sparse in tutta la Polonia con la benedizione della Chiesa, l’incoraggiamento dell’Europa dell’Ovest e il sostegno dell’America di Ronald Regan che era stato eletto proprio in quell’anno. Infine la rivolta di Stettino non sarà evocata per confortare le folle nemmeno quando, il 13 dicembre, il generale Jaruzelski instaura nel Paese la legge marziale.

Trent’anni esatti dopo la proclamazione dello stato d’assedio, la Polonia continua a far cronaca, ma in un contesto - per  sua fortuna - diverso. Infatti, con l’arrivo di Tusk al governo nel 2007 il Paese contribuisce al rilancio della Ostpolitik europea. Sotto la sua presidenza, nel settembre scorso, si è svolto a Varsavia il summit del Partenariato orientale per mettere a punto una strategia consona ai paesi ancora instabili come Ucraina o Belarus.

Infine, il duplice riavvicinamento - a Washington e Mosca - orchestrato con meticolosa cura da Tusk riverserà cospicui benefici sul Paese e con esso sull’Europa. Stando così le cose si capisce perché tutto il resto diventi per le cronache marginale e quindi non meritevole di approfondimento. Il degrado di Stettino? Non è colpa del governo, ma della distanza - seicento chilometri e passa - della città dalla capitale, Varsavia.

Detto così, è come se gli aiuti dello Stato dovessero arrivare col treno. Nessuno, o quasi nessuno che indichi come una delle cause possibili di tanto degrado il fatto che, nonostante siano passati sessantacinque anni, la città è ancora “troppo” tedesca e così viene volutamente trascurata.

Tuttavia, affermare questo vorrebbe dire esprimere un giudizio politico, alimentare una discussione, sollecitare un approfondimento, e di questi tempi pare non ce ne sia la voglia. Figurarsi strappare un’opinione su quell’inverno di quarant’anni fa, o meglio stimolare un confronto tra quella crisi e questa attuale che coinvolge le nazioni del mondo che più conta. La risposta è il nulla, o quasi. Come se la rivolta di Stettino non fosse mai accaduta, o nemmeno cominciata.

 

 

 

 

 


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