di Sara Michelucci

Un pezzo di Africa arriva in teatro con lo spettacolo Storie di Kirikù della compagnia Teatro dei colori, per la regia di Gabriele Ciaccia. Luci, suoni, immagini che scorrono sul telo della capanna, fanno di questa rappresentazione il racconto di una cultura che porta con sé valori importanti e che ben si applicano anche alla società occidentale.

Kirikù è un bimbo speciale. La sua voce si sentiva già dal ventre della mamma e appena nasce si dà il nome. È un eroe-bambino che scopre ben presto che il suo villaggio è sotto scacco di una strega che ha fatto seccare la fonte dell’acqua, scomparire gli uomini tra cui c’è anche il suo papà e rubato tutto l’oro agli abitanti.

Kirikù è piccolo, nessuno vuole giocare con lui, ma poi tutti lo cercheranno e festeggeranno le sue gesta con canzoni e danze perché è coraggioso, supererà prove, libererà il villaggio dalle maledizioni. Kirikù è un personaggio che deriva dal mito della danza e che per questo va veloce, un po’ come il vento.

Gli elementi scenici ben si amalgamano con personaggi che rappresentano il bene e il male, il piccolo e il grande, la gioia e il dolore, il giorno e le tenebre. Opposti che si scontrano e fanno nascere il racconto. Il feticcio rappresenta l’oggetto che raccoglie gli elementi della vita naturale, del racconto, oggetto che diventa la porta dei rituali di iniziazione. È davanti al feticcio che si affrontano e si vivono le paure.

Karabà, la strega, non è solo un personaggio malvagio, ma una persona che ha subìto un grave torto, vittima lei stessa di una maledizione, con una spina conficcata nella schiena che, oltre al dolore, le provoca rabbia e cattiveria. Insomma alla strega viene data un’umanità tale da renderla vicina agli altri uomini.

La cosa bella di questo spettacolo, rivolto soprattutto al pubblico dei più piccoli (bambini dai 5 anni in su, ma che è piacevole anche per gli adulti) sta nella capacità di veicolare con semplicità tematiche importanti: è la paura che rende prigionieri, dice il saggio del villaggio, nonno di Kirikù, ma solo l’innocenza e l’intelligenza possono spezzare questo incantesimo. Un tema decisamente attuale, quello della creazione della paura, che richiama fatti e avvenimenti che ogni giorno accompagnano la vita politica, istituzionale e sociale della società contemporanea. La paura schiaccia le coscienze, impedisce al pensiero critico e razionale di avere la meglio su superstizioni e preconcetti.

Kirikù insegna, attraverso le sue gesta e la sua voce, che la paura è qualcosa che impedisce la conoscenza e la risoluzione dei problemi e nonostante la sua piccola età riesce ad avere un contatto diretto con la strega e a salvare il suo villaggio grazie al coraggio.

La storia nasce dall’Africa occidentale e vive delle forme del racconto che, nella tradizione africana, diventa un “lungo tempo del racconto”, in forma additiva si innestano altre storie ed altre origini. Nella tradizione africana, il racconto diventa anche animato, gli spettatori sono intorno ad una “capanna”, da dove nascono tutte le storie. Ed in questo cerchio si danza, si ascolta, si risponde, si partecipa. Bravissimi Valentina Ciaccia, Monica Di Bernardo e bravo Gabriele Ciaccia sul palcoscenico e alla regia.

L’idea del Teatro del Colore è quello di riproporre proprio questo schema del racconto e quindi sul palcoscenico troviamo un musicista, una voce narrante, gli animatori-interpreti che sono quasi dei burattinai, che al posto dei fili utilizzano il proprio corpo per far muovere i personaggi. E non mancano anche riferimenti digitali, come le video proiezioni che ripropongono immagini documentali dell’Africa, della sua popolazione e dei villaggi.

Una contaminazione interessante che offre una lettura ulteriore a quella classica del teatro. Lo spettacolo dona così spunti di riflessione come la nascita e la crescita, le paure e i desideri, la capacità di affrontare le difficoltà e di superarle, il singolo e il gruppo, la differenza tra fantasia e realtà, la conoscenza di altre forme culturali. Il teatro diventa educazione al diverso, al nuovo. Utile strumento non solo artistico, ma di vera e propria formazione per grandi e piccini.

 

di Vincenzo Maddaloni

STETTINO. Sono degli anni Cinquanta o giù di lì i tram che percorrono Aleja Wojska Polskiego (Corso dell’Esercito polacco) a Szczecin, così si chiama in polacco la città - in tedesco suona Stettin e in italiano Stettino - che è il capoluogo della Pomerania occidentale. Certamente il tram è un mezzo di trasporto tra i più longevi, ma quelli delle città dell’Est sono legati in modo indissolubile al ricordo del governo comunista, che rivive ogniqualvolta lo sguardo del visitatore si posa sui percorsi  ferrati.

A Stettino per chi vi giunge la prima volta e fresco dei resoconti giornalistici sulle elezioni di ottobre, il cigolio dei vecchi tram diventa per molti versi una sorpresa, poiché mal si concilia con l’immagine della Polonia designata a diventare uno dei “grandi” dell’Unione europea, perché le è riconosciuto un governo saldo e soprattutto una crescita economica che non ha confronti nella Comunità. Essa, infatti, è tornata al 4 per cento, un risultato invidiabile perché, sebbene in flessione rispetto ai ritmi antecedenti al 2008, resta di molto superiore alla media europea (1,7 per cento). Essa è destinata a migliorarsi e quindi a consolidarsi, poiché con la ripresa delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni sono attesi nuovi flussi di capitali che si aggiungeranno ai fondi europei e alle positive ricadute connesse agli Europei di calcio del 2012 che la Polonia ospiterà insieme all’Ucraina.

Si tenga a mente poi che Donald Tusk è il primo capo dell’esecutivo polacco a essere stato riconfermato, dai tempi della caduta del regime comunista nel 1989. Senza dimenticare però il 10,1 per cento dei consensi ricevuti da Janusz Palikot, industriale di spicco e leader del Movimento Palikot che porta avanti istanze come la decisiva separazione tra Stato e Chiesa; la legalizzazione dell’aborto; il riconoscimento delle unioni di persone dello stesso sesso e la legalizzazione della marijuana. Ne fa parte anche Anna Grodzka, la prima deputata transgender della storia polacca. Sicché sono molti a individuare nei risultati di questo voto i tratti di una generazione post-comunista, emancipata dalla tradizione e dal peso del passato, desiderosa di guardare avanti in maniera autonoma e decisamente laica.

Facile da dire, meno facile da concretizzare. Ne è una conferma questa città che per popolazione - più di 400 mila abitanti - è la settima del Paese e il suo porto è il più grande tra quelli polacchi che si affacciano sul mare Baltico. Eppure a Stettino più che altrove, il ricordo del passato governo comunista fa parte del paesaggio come le strade disselciate o rattoppate in modo incredibile. E poi le case fatiscenti; le facciate di molte delle quali sono ancora annerite dagli incendi come se la guerra si fosse conclusa l’altro ieri. I chioschi, come i tram, sono quelli di cinquant’anni fa e davanti alla cattedrale di san Giacomo Maggiore apostolo, in via Papiewza Pawla VI, incombe la grande croce in legno che è lì da trent’anni cioè dai tempi di Solidarnosc.

Essa è la riprova che la secolarizzazione auspicata dal Movimento Palikot, che reclama una netta distinzione fra religione e Stato, è destinata a rimanere un desiderio in un Paese che nella sua stragrande maggioranza si riconosce ancora nelle  parole dell’arcivescovo e primate polacco Stefan Wyszyski http://it.wikipedia.org/wiki/Stefan_Wyszy%C5%84ski che ai tempi del comunismo si oppose ad ogni mediazione affermando che i garanti della Chiesa non sono gli accordi cartacei, bensì i fedeli con la loro fede e l’attività religiosa. I quali sono ancora falangi anche in questa città a 150 chilometri da Berlino, che fino al 1945 era tedesca e che i vincitori consegnarono ai polacchi assieme a una parte della Pomerania, spostando il confine sull’Oder-Neisse.

E quindi, «un paese che si estende e si restringe su una pianura senza confini, e si sposta un po’ qua e un po’ là» costringendo  «milioni di tedeschi e di polacchi a una forzata emigrazione», finisce col creare « un rapporto non privo di malintesi e di contraddizioni », spiega Roberto Giardina in quell’acuta e corposa raccolta di saggi che s’intitola “L’altra Europa” http://www.ibs.it/code/9788845232848/giardina-roberto/altra-europa-itinerari-insoliti.html.

Eppure è in questo scenario di confine dove culture diverse si confrontano che scoppia  tra il dicembre del 1970 e il gennaio del 1971 una rivolta  destinata a rimanere nella Storia del movimento operaio di tutto il mondo. Va subito detto che in Polonia le rivolte operaie sono sempre culminate in sanguinosi combattimenti con le forze armate. La peculiarità é dovuta anche al ruolo dei sindacati che, essendo un ingranaggio del meccanismo statale socialista, non erano in grado di contenere l'impeto delle contestazioni operaie.

Infatti l'analisi degli avvenimenti di Stettino e delle altre città del Baltico ha rivelato come tutti i tentativi di pacificazione fatti dai sindacati si fossero dimostrati del tutto inefficaci. Sicché al governo non rimase che mobilitare contro le masse insorte tutte le forze di repressione: polizia, milizia, esercito che massacrarono decine e decine di lavoratori.

Comunque la rivolta di Stettino non va letta soltanto come una ribellione al socialismo di marca staliniana che esaltava fino allo spasimo la proprietà statale, bensì  essa rappresenta l’epilogo temuto in ogni conflitto tra la tecnologia delle macchine e la forza-lavoro, che avvenga sia con il capitalismo di Stato che con quello privato poiché, è risaputo anche se non è per forze di cose pubblicizzato, che ogni aumento della produttività si ottiene spremendo di più l'operaio.

Quando Wladislaw Gomulka, dal 1956 segretario del partito comunista e capo indiscusso della Polonia si accorse che poteva battere “la via del progresso economico” soltanto applicando i metodi capitalistici all’epoca (1969) più avanzati, li mise subito in pratica. Gli si rivelerà fatale: http://it.wikipedia.org/wiki/Wladislaw_Gomulka. Infatti, per contenere gli sprechi, egli fu costretto a ricorrere agli stessi criteri di conduzione in uso nei paesi a regime capitalista, a valutare le imprese di Stato in base al dinamismo economico (cioè all'entità del profitto); in una parola a razionalizzare la produzione. Il che vuol dire: differenziazione dei salari, licenziamenti, disoccupazione. Wladislaw Gomulka non poteva agire diversamente perché non c’era e non c’è alternativa, inutile si rivelerebbe nel  breve termine anche una  soluzione governativa. Sicché da sempre l’operaio sembra condannato a caricarsi di tutto il peso della società. Se così è, allora perché stupirsi se ieri come oggi egli potrebbe con la sua sola forza far implodere ogni sistema?

La rivolta di Stettino rimane la più esplicativa, perché è il luogo nel quale l’esplosione del malcontento si è rivelata in tutta la sua complessità. Il 13 dicembre 1970, poiché la situazione economica della Polonia continuava a peggiorare, il Potere decide un aumento dei prezzi dei generi alimentari. È questo il detonatore che fa scoppiare tutta una serie di scioperi, sommosse e rivolte che sconvolgono il Paese per circa due mesi. La contestazione inizia a Danzica (Gdansk in polacco) il 15 dicembre con le sommosse, i combattimenti nelle strade, i morti. Subito gli scioperi e gli scontri si estendono a tutta la costa baltica e a gran parte della Polonia.

A Stettino l'agitazione comincia il 17 dicembre: il cantiere navale di Adolf Warski entra in sciopero, viene eletto un comitato operaio. Tuttavia, le rivendicazioni (in parte economiche, in parte politiche) sono respinte dalle autorità, le quali si rifiutano di negoziare. Soltanto allora gli operai scendono in strada, iniziando una manifestazione che si trasforma subito in sommossa durante la quale molti di loro sono uccisi dalla polizia. A un certo punto però - per evitare un genocidio - il governo ordina alla polizia di ritirarsi nelle caserme e così gli operai riescono a prevalere ottenendo il controllo della città.

A Stettino, che contava allora 300 mila oltre ai cantieri navali, vi erano numerose aziende industriali. Tuttavia è il comitato di sciopero eletto dagli operai dei cantieri navali che viene designato ad amministrare l’emergenza. Esso s’impegna fin dal giorno dopo della rivolta a un ritorno della normalità. Per raggiungerla, si chiede ai lavoratori del gas e dell’elettricità di sospendere lo sciopero.

Anche i tram riprendono a funzionare con sulle fiancate uno striscione che spiega, «aderiamo all’appello del comitato di sciopero dei cantieri». Riappare il Kurier, il giornale della città, con la cronaca quotidiana degli avvenimenti. Vi si legge che il Comitato riesce ad assicurare l'approvvigionamento, facendosi arrivare - ad esempio - il pane da Zielona Gora, una città che dista 200 chilometri. Inoltre, che si opera in sinergia con gli altri centri della rivolta, soprattutto con Danzica, il più importante dopo Stettino. Insomma, ritorna la speranza.

Durerà un mese e non di più il governo della città da parte dei lavoratori, del tutto impreparati al compito poiché non avevano previsto che sarebbero giunti a tanto. Più che di governo è meglio parlare di autogestione, la quale si muove in sintonia con l'autogestione della lotta, il che significa assemblee di base, elezione dei rappresentanti, i quali elaborano atti e proposte per regolare la vita nella città che di volta in volta sono sottoposte al voto delle assemblee di base. Il meccanismo è complesso, fin troppo. Nel frattempo proprio per aver causato moltissime morti nella repressione sul Baltico  Wladislaw Gomulka viene costretto a dimettersi. Gli succede un uomo di molto più giovane, Edward Gierek, che nel dicembre del 1970 appunto assume la guida del partito con l’impegno di riportare la pace nel Paese http://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Gierek.

Non si conosce la data nella quale l’esperienza del movimento operaio di Stettino si conclude, sicuramente  col passare del tempo le autorità "legali" riprendono a poco a poco il controllo del potere, e dunque del comitato di sciopero se ne perde la memoria. Così almeno si raccontò e si continuò nel tempo a ripetere la medesima versione, con il fine non ultimo che su quei fatti scendesse un silenzio tombale.

Perché con le giornate di Stettino del dicembre del 1970 e del gennaio 1971 si dimostra - per la prima volta al mondo - che la classe operaia sa gestirsi da sola, e che quindi può fare a meno del Partito comunista (oppure di quelli non comunisti) e di tutti i suoi burocrati.

E’ questo l'aspetto sovversivo vero di quegli avvenimenti. La nuova, terribile risposta contro il malgoverno di qualsiasi connotazione possa essere. Se ne rese conto per primo il Partito comunista, che subito s’impegnò a far sparire ogni ricordo di quel mese di potere operaio. Ma se ne resero ben conto pure in Occidente che potevano essere soggetti alla medesima minaccia. Infatti, non soltanto i giornali dell’Est pubblicarono poco o nulla sugli avvenimenti del Baltico, ma neppure quelli dell’Ovest ne scrissero più di tanto, né spiegarono i motivi veri di quella rivolta.

 Beninteso, in quegli anni non c’era Internet, ma le notizie assieme alle fotografie riuscivano comunque a filtrare. Il fatto è che su quegli eventi fiorisce una sorta di omertà, una sorta d’intesa non ufficializzata tra Est e Ovest, che si salda intorno al timore che il “contagio dell’autogoverno operaio” possa estendersi all’intero mondo del lavoro. Infatti - rammento - che gli scioperi del dicembre 1970 non venivano ricordati se non per cenni dieci anni dopo, quando la rivolta di Solidarnosc si sparse in tutta la Polonia con la benedizione della Chiesa, l’incoraggiamento dell’Europa dell’Ovest e il sostegno dell’America di Ronald Regan che era stato eletto proprio in quell’anno. Infine la rivolta di Stettino non sarà evocata per confortare le folle nemmeno quando, il 13 dicembre, il generale Jaruzelski instaura nel Paese la legge marziale.

Trent’anni esatti dopo la proclamazione dello stato d’assedio, la Polonia continua a far cronaca, ma in un contesto - per  sua fortuna - diverso. Infatti, con l’arrivo di Tusk al governo nel 2007 il Paese contribuisce al rilancio della Ostpolitik europea. Sotto la sua presidenza, nel settembre scorso, si è svolto a Varsavia il summit del Partenariato orientale per mettere a punto una strategia consona ai paesi ancora instabili come Ucraina o Belarus.

Infine, il duplice riavvicinamento - a Washington e Mosca - orchestrato con meticolosa cura da Tusk riverserà cospicui benefici sul Paese e con esso sull’Europa. Stando così le cose si capisce perché tutto il resto diventi per le cronache marginale e quindi non meritevole di approfondimento. Il degrado di Stettino? Non è colpa del governo, ma della distanza - seicento chilometri e passa - della città dalla capitale, Varsavia.

Detto così, è come se gli aiuti dello Stato dovessero arrivare col treno. Nessuno, o quasi nessuno che indichi come una delle cause possibili di tanto degrado il fatto che, nonostante siano passati sessantacinque anni, la città è ancora “troppo” tedesca e così viene volutamente trascurata.

Tuttavia, affermare questo vorrebbe dire esprimere un giudizio politico, alimentare una discussione, sollecitare un approfondimento, e di questi tempi pare non ce ne sia la voglia. Figurarsi strappare un’opinione su quell’inverno di quarant’anni fa, o meglio stimolare un confronto tra quella crisi e questa attuale che coinvolge le nazioni del mondo che più conta. La risposta è il nulla, o quasi. Come se la rivolta di Stettino non fosse mai accaduta, o nemmeno cominciata.

 

 

 

 

 

di Vincenzo Maddaloni

BERLINO. Se si va in compagnia di Bianca Bialas, il “Café Sibylle”, costruito negli anni Cinquanta sulla Karl Marx Allee, si rivela in tutti i suoi significati. Perché esso sta quasi al centro della grande arteria di Berlino (Est) che si contraddistingue per lo stile dei grandi edifici che vi si affacciano lungo i tre chilometri di tracciato, da Alexanderplatz a Frankfurter Tor e che, dopo la caduta del Muro, i tedeschi definiranno con non senza sarcasmo ''Zuckerbäckerstil”, che in italiano significa “stile torta nuziale”.

Questo e altro ricorda Bianca Bialas, www.eastsidestories.de  che fuggì all'ovest proprio negli ultimi giorni, il 9 ottobre del 1989, mentre a Berlino si festeggiavano i quarant’anni della Repubblica Democratica. Volò con un visto turistico per l'Ungheria e da lì raggiunse la Germania occidentale e poi l’Italia, dove vi rimase quasi vent'anni.

Tornata a Berlino, le è venuta l'idea di far incontrare italiani e tedeschi «per raccontare come si viveva a quei tempi». Li conduce alla ricerca del Muro dissolto o alla centrale della Stasi, la polizia segreta che controllava la vita di tutti i cittadini, e anche nei bar, nei ristoranti, della Berlino orientale; quelli sopravvissuti ai tempi come il “Café Sibylle” lungo la ''Zuckerbäckerstil ”, appunto. Così osservando questo defilé di palazzi che rimangono l’espressione del Potere, il pensiero va subito ad  Hegel  http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=476 quando, sulla sconfitta di Napoleone a Waterloo, scrisse che l'impotenza della vittoria non era mai stata così evidente, sebbene sia un’illusione pensare che la vittoria sia di per sé potente poiché lo è soltanto quando ha un progetto politico e sociale da proporre.

Infatti, i fasti architettonici della Karl Marx Allee, l’ex Stalin Allee, fanno tornare alla mente che il capitalismo  ha conseguito contro il socialismo reale una vittoria epocale, come più d’uno sostiene, ma senza avere alcuna idea costituente. Senza nessun progetto per il dopo, alimentando un disagio che ha già travolto un’intera generazione.

Cosicché, una visita (ma anche due, meglio tre) guidati da frau Bianca in questa Berlino che non rientra nei normali giri turistici, potrà aiutare a capire molte cose. Si tenga a mente che subito dopo la caduta del muro è iniziato un meticoloso restauro di tutta questa parte di Berlino (Est) per riportala al suo assetto originario.

Questo è accaduto per ricordare non soltanto che fu ideata da un gruppo di architetti e ingegneri tedeschi che si rifecero ampiamente all'architettura monumentale dell'Unione sovietica, ma soprattutto perché è politicamente importante. Infatti, nel 1953 furono gli operai dei cantieri a iniziare - sulla Karl Marx Allee che allora portava ancora il nome di Stalin - la famosa rivolta contro la Sed (il partito che guidava la DDR), che poche ore prima aveva deliberato l'aumento del monte ore di lavoro per tutti gli operai, senza aumenti salariali.

Soltanto dopo il rapporto Krusciov al XX congresso del Pcus le autorità della DDR le cambiarono il nome in quello attuale. Ma va pure ricordato che il progetto urbanistico fu volutamente ignorato dall’Occidente, proprio perché esso mirava a modernizzare il patrimonio edilizio della disastrata Berlino (Est) postbellica e allo stesso tempo doveva esaltare il genio ingegneristico della Ddr nel mondo. E’ fu anche questo il motivo per il quale l’unico boulevard europeo costruito dopo il 1945, come lo definì l’architetto Aldo Rossi, è così poco conosciuto. Pertanto, non diventa difficile, per frau Bialas, condurre i suoi viaggiatori alla ricerca di una realtà sparita o tenuta nascosta, e a raccontare a loro le storie sovente sconosciute legate a quei luoghi. Ella non ha alcuna necessità di inventare.

Dopotutto, nell’agosto di quest’anno si sono celebrati i cinquant'anni della costruzione del Muro e l'anniversario ha offerto un fascino supplementare per i nostalgici di quello che fu definito «il più crudele confine d'Europa», e per tutti coloro che comunque sono interessati alla storia, perché qualunque siano o siano stati i suoi ideali politici, Berlino, da sempre squassando sé stessa, pone degli  inquietanti interrogativi. Come questo: il faraonico recupero edilizio e l’interesse esponenziale dei turisti (in maggioranza italiani) sono delle semplici curiosità dei nuovi tempi oppure nascondono qualcosa di più profondo?

S’è appena detto che sebbene il socialismo reale sia crollato con il muro ventidue e passa anni fa, il sistema del capitalismo non ha ancora vinto, in quanto non ha nessun programma per un nuovo ordine mondiale. Molti però continuano a considerare il crollo del Muro, dell’Urss, di tutto il sistema comunista, come una “vittoria”, non soffermandosi sulle “anomalie” che ne sono nate. Una di queste è il cambio di mentalità incoraggiato dal sistema secondo il quale la felicità vera risiede nell'acquisizione di oggetti, nell'accumulo delle cose non nelle qualità di ogni singolo individuo che forma la comunità.

Il risultato è che ogni giorno vengono distrutti migliaia di posti di lavoro senza che nessuno pensi a difenderli, a meno che non sia minacciato il proprio interesse personale. Insomma le lotte sono diventate esclusivamente di categoria, con la tendenza ad evitare che alcunché le subordini a qualcosa di più generale. Cosicché, in un mondo dove gli insoddisfatti si addizionano ma non si aggregano, anche per il sindacato più agguerrito la vita diventa difficile.

Accade perché l'etica della responsabilità individuale non è più considerata un valore, dal momento che  la tecnica rendendo gli effetti delle azioni più che mai imprevedibili, condiziona ogni iniziativa dell’individuo. Insomma, nel mercato tecnicizzato non c'è più spazio per l'agire, ma solo per il fare, dove ciascuno esegue azioni già descritte e prescritte dall'apparato, che poi è lo stesso mercato. Non a caso Hans Tietmeyer, ex governatore della Banca centrale tedesca, avvertì già nel 1998 che accanto al plebiscito delle urne esiste il «permanente plebiscito dei mercati mondiali». http://www.libreidee.org/2011/08/botte-a-chi-protesta-sempre-impuniti-i-sovrani-della-crisi/ .

Dunque non c'è libertà. Anche senza il Muro. E’ paradossale, eppure succede perché la più grande vittoria del sistema sta proprio nell'aver persuaso le genti che esso non pretende di essere perfetto, ma che tuttavia non esistono altre alternative. Sicché s’è venuta a creare una nuova scala dei valori nella quale le azioni non sono più classificate come morali o immorali, ma sono esaltate soltanto quelle supportate dal potere politico o dalla forza del denaro. E quindi il sogno, e perciò l'utopia, sono considerati la massima trasgressione e la massima minaccia. Stando così le cose c’è ancora spazio per sperare - diciamolo così - in un cambio di tendenza?

Nel “Sibylle” dove si può ascoltare, sollevando la cornetta dei  telefoni di bachelite nera degli anni Cinquanta, la storia del Caffè e degli edifici che gli stanno intorno, frau Bialas http://www.eastsidestories.de/touren_it.html ripescando negli anni della sua adolescenza, ricorda che gli italiani che venivano nella Ddr finivano sempre col litigare con i loro compagni tedeschi dell'Est. Suo padre gli spiegava che i comunisti italiani volevano scoprire in Germania il paradiso rosso comunista, ma poi restavano delusi e non approvavano le rigidità dei compagni teutonici. Secondo frau Bialas  una interesse tutto culturale per questi luoghi, per quelle vicende, insomma per il Muro sopravvive e alla grande poiché, «vedo che anche i giovani, che non hanno conosciuto quei tempi, sono ansiosi di farne la conoscenza».

Beninteso non è un amarcord pilotato sui “ personaggi e i grandi eventi” del mondo di quegli anni che hanno fatto di gran lunga il loro tempo. Anche se - va sottolineato - la scomparsa dei “punti di riferimento” che caratterizza i nuovi tempi è fonte di grande malessere per le giovani generazioni poiché essa rammenta loro che  il socialismo reale è crollato, senza che il capitalismo abbia offerto qualcosa di valido in alternativa. E tuttavia, l’idea socialista vive, sebbene non sia ancora riuscita a riorganizzarsi come forza capace di riempire quel vuoto lasciato dal capitalismo.

Così, in mezzo alle contraddizioni, emerge una realtà nella quale i protagonisti sono il sistema finanziario mondiale che si mantiene ormai in uno stato d’imponderabilità; la crisi sociale che si accentua, gli squilibri demografici che lievitano e via dicendo. A far da fondale c’è la straordinaria capacità del sistema mondiale di recuperare a proprio profitto ogni cosa che possa, «attirare l'attenzione, a distrarre, a far pensare ad altro, o più precisamente a impedire di pensare», come avverte Alain de Benoist uno dei maggiori esponenti della destra francese.

Allora, se questa vittoria del capitalismo non ha incoraggiato la consapevolezza che il vivere assieme si sostiene sui valori condivisi, perché stupirsi se i giovani sono attratti dalle storie di quegli anni vissuti dalle genti dietro al Muro? Perché, a sentir loro, il fatto che vi si potesse sognare è scontato.

 

 

di Mario Braconi 

La Rete, come noto, può rivelarsi un luogo pericoloso per i chiacchieroni ingenui che, allentati i freni inibitori, si abbandonano ad elucubrazioni online, dimenticando o sottovalutando il fatto che, una volta trasformate in caratteri battuti su una tastiera, esse diventano di dominio pubblico. A causa di leggerezze di questo tipo sono falliti matrimoni e annientate promettenti carriere.

Capita a tutti i comuni mortali: ma a questa debolezza non sembra essere immune anche a chi la Rete la dovrebbe conoscere bene, visto che è, letteralmente, il suo pane quotidiano: si tratta di Steve Yegge, ingegnere “anziano” di Google, con alle spalle una precedente esperienza professionale presso Amazon.

La sera dell’11 ottobre, Yegge, dal suo account su quel di G+, ha buttato giù un lungo post nel quale esprimeva giudizi assai critici sul suo precedente datore di lavoro, ma soprattutto su G+, il social network del gigante di Mountain View. Yegge ha successivamente scritto che obiettivo della comunicazione era quello di condividere le sue idee di business con colleghi e collaboratori, e che il suo cahier de doléances è stato postato come “pubblico” ovvero visibile da tutti solo per errore.

Con affascinante candore Yegge ha spiegato come è accaduto l’imbarazzante incidente: “... era mezzanotte e non si può certo dire che sia un utilizzatore esperto di Google+, per cui nel tempo che ho impiegato a capire come dovevo fare per pubblicare qualche cosa, ho finito per scambiare un account con un altro (Yegge insomma voleva postare sull’account destinato ai soli colleghi ma per errore ha scritto sul suo account pubblico)”. Un ingegnere di Google che non sa usare G+? Interessante.

Ma ancora più interessanti sono i commenti che Yegge riserva al social network di Google: "Google+ è un riflesso condizionato di Google, un esempio di tatticismo, sviluppato attorno alla nozione erronea che Facebook abbia successo perché i suoi sviluppatori hanno costruito un ottimo prodotto”. Secondo Yeppe, la vera ragione per la quale Facebook ha un numero di utenti di circa 20 volte superiore a quello degli iscritti a G+ è che Facebook ha lasciato ad altri sviluppatori il lavoro faticoso, ovvero progettare e realizzare applicazioni da usare sul social network. Per questa ragione, Facebook rappresenta per ogni utente un prodotto diverso: c’è chi passa le giornate a giocare con Mafia Wars e chi si diverte con Farmville, chi lo usa come fonte per informarsi, chi solo per divertirsi…

Secondo Yegge, il fulcro della diffusione virale del social network di Zuckerberg e soci è stata la capacità di realizzare “una piattaforma”, anziché un prodotto: ed invece, prosegue Yegge nel suo sfogo coram populo, Google+ è “un meraviglioso esempio della nostra totale incapacità di comprendere il concetto di piattaforma; incapacità che è diffusa dai livelli più alti di management (...) fino all’ultimo degli impiegati. Nessuno di noi ci capisce niente”.

Sbaglia chi crede che la leggerezza di Yegge gli costerà il posto: come spiega, ovviamente sul suo G+ pubblico, “le persone delle relazioni pubbliche di Google si sono dimostrate gentili e di grande aiuto”; ci tenevano a chiarire che “la nostra non è un’azienda in cui si sottopongono a censura le opinioni personali dei dipendenti”. In effetti, in passato Google ha fatto qualche titolo di giornale per la sua cattiva abitudine di censurare gli utenti, su “gentile richiesta” di qualche dittatura come quella cinese, ma questa è un’altra storia.

Come scrive Chris Matyszczyk su CNET, le parole di Yegge forniscono una prospettiva unica per valutare lo (scarso) successo di Google nel social networking: ricordiamo infatti gli ingloriosi risultati del suo primo tentativo di spodestare Facebook e Twitter con il disastroso Buzz, finito rapidamente nel dimenticatoio. Con G+, le cose non sembrano andare molto meglio. Secondo le rilevazioni di Chitica, una società che offre pubblicità online ritagliata per specifici target di clientela ma che si occupa anche di ricerche su internet, dopo il fisiologico balzo di tredici volte registrato a settembre (quando G+ è diventato accessibile a tutti), il suo utilizzo da parte degli utenti è sceso del 60%.

Sembra dunque che Yegge colga nel segno quando parla della difficoltà di Google ad orientare la sua offerta su una piattaforma. Gli utenti, inizialmente attratti dal servizio, si sono resi rapidamente conto dei suoi notevoli limiti: ad esempio c’è qualcuno in giro che abbia capito che cosa accade realmente quando si preme il tasto +1?

di Mario Braconi 

Secondo il giornalista americano Neal Gabler, nel mondo delle comunicazioni di massa Rupert Murdoch ha rappresentato per decenni l’equivalente di Mubarak: come un buon dittatore mediorientale, infatti, il magnate australiano ha sempre mascherato la sua ossessione per il potere da comunanza di sentire con “il popolo”, l’uomo della strada. Sotto il pretesto di un’ipocrita ricerca della “verità”, inoltre, in alcune delle sue testate ha creato le condizioni per sbranare pubblicamente non solo i cosiddetti VIP, ma anche i figli del popolo di cui si è autoproclamato paladino.

Non c’è niente che abbia fermato gli adepti di questa forma di giornalismo degenerato e criminale nella loro gara a chi si rotolava di più nel fango; nemmeno le tragedie personali, anzi.

Non si è trattato, infatti, solo di mettere a nudo i vizi privati di persone con grande esposizione mediatica, sia pure utilizzando metodi vietati dalla legge, dalla deontologia e dal buon senso; si doveva arrivare a ficcare il naso nelle vite bruciate di vittime della violenza urbana o della guerra.

E se alcuni sedicenti giornalisti al soldo di Murdoch si sono spinti ad intaccare l’aura sacra di qualche potente, lo hanno fatto per gettare in pasto una storia di dolore e malattia privata, che tale avrebbe dovuto rimanere (la vittima in questo caso fu la famiglia di Gordon Brown, il cui figlio era malato di fibrosi cistica).

Anche di fronte al dilagare dello scandalo, l’atteggiamento di Murdoch è stato quello di uno dei dittatori recentemente destituiti dai “venti di libertà” mediorientali: dapprima, ovviamente, negazione e denuncia, sui media di famiglia, di un “complotto politico” (in Italia ci siamo abituati, nei Paesi anglosassoni un po’ meno). Poi, le prime, tiepide ammissioni, corredate da scuse tardive e pelose.

Infine, la ribellione “di tutte quelle persone soggiogate dal tiranno che cominciano ad annusare la libertà e a capire che è il momento di prendere la palla al balzo”, con le dimissioni di quattro top manager di News of The World (NoTW) e relativa distribuzione di cerini accesi nelle mani dei sottoposti, che invariabilmente si macchiavano di ogni sorta di nefandezza (hackeraggio, ricatto, corruzione) all’insaputa dei loro capi. Davanti alla Commissione parlamentare britannica che li ha grigliati per ore, i Murdoch si sono detti “sconvolti, disgustati e pieni di vergogna”: tutto, insomma, fuorché colpevoli. Del resto, nota Gabler, “per loro il pesce non puzza mai dalla testa, ma dalla coda”.

E’ chiaro che dietro il tema delle intercettazioni vi sia qualcosa di assai più prosaico di un complesso di questioni che attengono alla democrazia, al rispetto della legge e dei principi deontologici: ovvero il tema del controllo finanziario di BSkyB, cui i Murdoch, attualmente soci di minoranza, aspirano da tempo. Murdoch contava molto sull’aiuto dell’attuale alleato premier Cameron per ottenere il via libera all’operazione.

Un trappolone aveva anche messo fuori lo scomodo ministro liberaldemocratico Vince Cable: a due giovani (ed avvenenti?) donne, rivelatesi in realtà reporter del foglio (conservatore) Daily Telegraph in incognito, il vanitoso Cable affidò i suoi pensieri sull’operazione BSkyB, dichiarando di esserle ferocemente avverso (segno che le pratiche giornaliste non proprio encomiabili non erano appannaggio solo di NoTW).

Tanto è bastato perché Cameron trasferisse la responsabilità della decisione al responsabile della Cultura, Media e Sport, Jeremy Hunt, conservatore. Insomma, i Murdoch ce la stavano per fare. Ma l’esplosione dello scandalo NoTW li ha obbligati a mollare l’osso. In realtà, l’amicizia con Murdoch si sta rivelando un pessimo affare per Cameron, costretto a suo tempo ad assumere come responsabile della comunicazione Andy Coulson, ex direttore di NoTW, che diede le dimissioni 2007, guarda caso in seguito alla prima tornata di rivelazioni sulle intercettazioni illegali.

Una prossimità pericolosa per la stessa sopravvivenza politica di Cameron, oggi costretto ad ammettere con i media che, col senno di poi, l’ingaggio dell’enfant prodige di Fleet Street si è rivelato un errore.

Nonostante gli interessi finanziari e politici in gioco, è pur sempre possibile che dal rogo di Murdoch e Cameron almeno i batteri più pericolosi per la democrazia vengano distrutti. E che si possa continuare a riconoscere serenamente il ruolo sociale che la stampa popolare britannica ed americana hanno avuto storicamente nei rispettivi Paesi. Perché, sull’onda emotiva causata dal disvelamento dell’amoralità di alcuni giornalisti di NoTW, è forte la tentazione di screditare l’intera categoria (per così dire) gettando via il bambino assieme all’acqua sporca.

La pensa così anche Ryan Linkof, professore di Storia all’Università della California del Sud: i giornali popolari e scandalistici dei paesi anglosassoni, infatti, non dovrebbero essere considerati come “una fonte esterna di contagio, che sta contaminando lentamente la stampa ‘seria’, quanto piuttosto una estensione, spesso perfino una caricatura, della logica sostanziale del “news reporting”.

I tabloid rispondono al profondo bisogno popolare di vedere al di là dell’apparenza pubblica, cosa che talora può avere uno scopo di rilevanza sociale (ad esempio, furono i tabloid a scoprire la relazione extra coniugale del candidato presidenziale americano John Edwards); ed è nella loro natura farlo in modo esagerato, sfidando spesso regole morali o deontologiche.

Il tutto finché si rimane nei limiti della legge e del rispetto per le persone meritevoli di tutela. Secondo Linkof, l’ampia copertura che la stampa scandalistica dà alle gesta del principe Edoardo e della sua consorte può essere considerato un modo per abbattere le barriere sociali.

Insomma, “nei limiti delle leggi correnti, il giornalismo dei tabloid ha un ruolo importante nella cultura moderna, quello di alleviare alcune tensioni sociali”. E non è il caso di condannare un intero genere giornalistico per gli errori di un manipolo di giornalisti e politici corrotti.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy