di Mario Braconi

Sembra proprio che non si arrestino le clamorose azioni di Anonymous, il gruppo anarchico contraddistinto dalla maschera di Guy Fawkes resa celebre dal fumetto e dal film V for Vendetta. I cosiddetti Anonimi sono famosi per imbarcarsi in operazioni la cui totale illegalità è bilanciata dai principi morali che le animano. Pur riconoscendo, infatti, che il metodo è illegale, si fa davvero fatica a non parteggiare per gli hacker del collettivo senza nome quando, ad esempio, svergognano lo zelo maniacale con cui Tom Cruise parla di Scientology (nemico dichiarato di Anonymous), diffondendo un filmato, destinato ad uso interno, che ritrae l’attore in una accalorata apologia della sua setta.

O quando hanno prodotto danni consistenti a Mastercard e PayPal, attaccando e mettendo fuori uso i loro siti quando i loro dirigenti abbandonano Julian Assange al suo destino, per il timore di incorrere nelle ire del governo americano. O quando hanno messo ko un provider underground noto per il suo atteggiamento per così dire molto aperto nei confronti dei suoi utenti pedofili, che ha sostenuto in modo inequivocabile fornendo loro banda e anonimato.

Uno dei casi più interessanti è quello che ha avuto ad oggetto la HBGary, società di sicurezza informatica (si noti l’ironia!) che lo scorso febbraio stava per vendere alla FBI, con la quale collaborava, un organigramma di Anonymous, completo dei dati personali dei suoi membri coinvolti nel cyber-attacco a Mastercard e PayPal. Non l’avesse mai fatto: il 5 febbraio gli Anon, così si fanno anche chiamare i membri del gruppo anarchico, si sono impossessati del sito della società, rubando tra l’altro oltre 60.000 email aziendali, e forse perfino distruggendo i suoi file di back-up. Un tassello chiave dell’operazione è stato il furto delle credenziali della posta elettronica privata di Aaron Barr, amministratore delegato della società: in questo modo uno degli anonimi, fingendosi Barr, ha scritto all’amministratore di sistema sostenendo di trovarsi in Europa e di aver bisogno di resettare le password del rootkit (ovvero del profilo più elevato nella gerarchia del sistema).

L’ignaro (e vien da dire alquanto superficiale) amministratore del server, lo ha fatto senza indugio, di fatto consegnando agli hacktivisti le chiavi del regno della HBGary. E dire che l’administrator gabbato dagli Anon non è proprio un pivellino, visto che è Jussi Jaakonahosu, capo della sicurezza informatica della filiale USA della Nokia. Altre azioni di Anonymous, comunque, sono meno condivisibili, come la pubblicazione di una grandissima mole di dati personali di membri delle polizie di diversi stati americani pescati da oltre settantacinque siti di uffici di sceriffi, tutti clienti della stessa società di web hosting: anche perché si tratta di un vero atto di ritorsione per l’arresto, da parte delle polizie americane e britanniche, di una cinquantina di membri del collettivo, probabilmente coinvolti nei “denial of service” ai gestori di carte di credito.

Una libera aggregazione di persone che, per sua stessa ammissione, non ha leader e non si riconosce nemmeno nella definizione di “gruppo”, quanto piuttosto in quella di “idea” incarnata, non può dimostrare solidità granitica. Qualche prima avvisaglia di una certa diversità di intenti all’interno del collettivo si era già vista in occasione della cosiddetta operazione Facebook, con la quale si minacciava di attaccare il social network il 5 novembre (Guy Fawkes’ night, anniversario della Congiura delle Polveri, 1605). La notizia, annunciata con sospetto anticipo, il 16 giugno, era stata in generale accolta con molto scetticismo, anche perché, secondo gli esperti che seguono le gesta degli Anon, pur essendo il trattamento dei dati personali da parte del social network altamente discutibile, non sembra esistere al momento nel collettivo un atteggiamento maggioritario favorevole all’affondamento di Facebook.

Ma a Natale è accaduto qualcosa di ancora più grave: un nuovo attacco devastante informatico che ufficialmente porta la firma di Anonymous, il cui obiettivo è la società di consulenza Stratfor (Strategic Forecast) autore di un briefing quotidiano di intelligence. E due comunicati stampa, uno che celebra le gesta degli Anonimi, e uno che prende le distanze dall’operazione. I clienti della Stratfor non sono proprio cittadini qualunque, se è vero che, come risulta da una fonte (anonima!) su pastebin, tra i 500 nominativi pubblicati (fino alla notte del 24 dicembre una lista riservata) figurano, oltre all’Aviazione Militare americana, il Dipartimento di Polizia di Miami e l’immancabile Apple, Goldman Sachs (per ben dieci volte: dieci dipendenti?), la Rockefeller Foundation ed il colosso dei derivati MF Global, attualmente in bancarotta.

I burloni della Anonymous sostengono inoltre di aver saccheggiato circa 4.000 numeri di carta di credito dei clienti di quella che è stata definita una specie di CIA - ombra, che dovrebbero essere utilizzati per fare un milione di dollari in donazioni ad enti benefici, primo tra tutti quello che sostiene Bradley Manning, il militare che rischia l’ergastolo per altro tradimento, in quanto sospettato di essere “La” fonte confidenziale di Wikileaks. Al di là del drammatico danno di immagine, causato alla società di consulenza (si sa che la segretezza è un elemento essenziale per fare buoni affari) ciò che preoccupa veramente la Stratfor e suoi clienti sono le informazioni, presumibilmente riservate e potenzialmente imbarazzanti, nascoste in quei 200 gigabytes di corrispondenza che Anonymous sostiene di aver rubato dai server della società.

Tutto chiaro, dunque? Neanche un po’. Come ricorda PC Magazine USA, esiste un secondo comunicato stampa di Anonymous, anche esso “postato” su Pastebin (un repository online dove si può salvare testo per un certo periodo di tempo) di segno totalmente opposto.

Firmato dalla cosiddetta “fazione ufficiale” di Anonymous, esso attacca frontalmente l’Anonimo che fa capo all’account Twitter The Real Sabu (probabilmente un britannico): “Stratfor è stata volutamente rappresentata in modo distorto da questi cosiddetti Anon e ritratto sotto una luce negativa come una realtà che svolge attività simili a quelle di HBGary. Sabu e i suoi sono solo gente vogliosa di attenzione se non proprio agenti provocatori. Poiché Stratfor è un media, il suo lavoro è protetto dal principio della libertà di stampa, un valore che Anonymous tiene nella massima considerazione. E, per giustificare la sua posizione, l’Anonimo cita un pezzo apparentemente pubblicato sul Time e basato su due newsletter di Stratfor (Global Intelligence Report, Red Alert) del 5 e del 6 gennaio 1999, secondo cui gli attacchi USA all’Iraq sarebbero stati un modo per mascherare il fallimento di un colpo di stato ordito dagli Stati Uniti ai danni del regime di Saddam Hussein".

A dire il vero, anche questo comunicato stampa non sembra del tutto credibile e, francamente, suona quanto meno curioso vedere come un sedicente rappresentante di Anonymous prendere le difese di un soggetto che, pur realizzando un tipo di informazione “assolutamente imparziale”, sembra in ottimi rapporti con grandi banche e istituzioni che rappresentano in modo quasi paradigmatico lo status quo cui Anonymous si oppone. Purtroppo, questa incertezza è il prezzo da pagare quando si bazzica il mondo underground di Anonymous, dove la segretezza è strumento del mestiere. E poi, si sa, gli anarchici rispondono solo a se stessi: è questo il loro bello, ma è sempre stato anche il loro limite. Viene quasi la nostalgia perfino di quello sporcaccione di Assange.

di Mario Braconi

Dalla sua comparsa, nel 1996, il ceppo d’influenza aviaria H5N1 ha ucciso centinaia di milioni di uccelli. Per quanto riguarda la trasmissione del virus all’uomo, le statistiche sono piuttosto preoccupanti: da un lato, stando ai dati della OMS, dal 2003 sono state contagiate meno di seicento persone, e tutte con una storia clinica di contatto diretto con degli uccelli malati. Dall’altro, però, dei 573 infettati, ben 336 sono deceduti, il che significa un tasso mortalità di più attorno al 60%. La pandemia di Spagnola del 1918, per dire, che pure aveva un tasso di mortalità cinquanta volte inferiore, si portò via una decina di milioni di uomini, donne e bambini.

Insomma, la H5N1, fortunatamente non è facilmente trasmissibile dagli animali all’uomo ma, se ciò accade, può diventare maledettamente pericolosa: il limite vero alla sua diffusione pandemica è la difficoltà del virus a diffondersi tramite le goccioline d’acqua presenti nell’aria.

Se lo H5N1 dovesse improvvisamente essere in grado di trasmettersi da uomo a uomo con uno starnuto o una stretta di mano, la sopravvivenza del genere umano sarebbe seriamente a rischio. E proprio per scoprire come ci si dovrebbe comportare nel caso che questo evento malaugurato dovesse verificarsi, si sono attivati The National Institutes of Health, organismo finanziato dal Congresso degli Stati Uniti e dedito per statuto alla ricerca finalizzata al “miglioramento della salute”.

Ed è così che, in una location lontana dagli Stati Uniti, più precisamente in un laboratorio collocato nei sotterranei dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam, il professor Ron Fouchier, operando cinque mutazioni su due dei geni principali del virus, ha riprodotto in laboratorio una variante di H5N1 in grado di diffondersi tra gli umani (a farne le spese, almeno per ora, un manipolo di furetti, cavie sacrificate sull’altare della scienza o, se si preferisce, dell’arroganza umana). Come hanno ammesso candidamente i membri di un secondo team di ricercatori che hanno svolto simili esperimenti a Tokyo e nel Wisconsin, creare una variante di H5N1 in grado di trasmettersi con grande facilità da un furetto all’altro è stato “sorprendentemente facile”.

Non che il pericolosissimo esperimento non avesse senso. Secondo Fouchier, la realizzazione in vitro della mostruosa arma di distruzione di massa è di grande utilità, in quanto in caso di epidemia nella popolazione umana consente agli scienziati di “capire quale mutazione analizzare per bloccarla prima che sia troppo tardi. Cosa che faciliterebbe lo sviluppo di vaccini e terapie”.

Tuttavia si potrebbe discutere a lungo dell’opportunità di condurre simili esperimenti, potenzialmente devastanti, in un centro medico che consente sì la conservazione del virus mutato in relativa sicurezza, ma che non è protetto da guardie armate. Una vera manna per qualche Dottor Stranamore degli anni Duemila, o per qualche altro terrorista senza stato, desideroso di sfogare sull’umanità le sue nevrosi ossessive.

Del resto, l’Indipendent, che riporta il caso con dovizia di particolari e numerosi commenti anonimi di addetti ai lavori, racconta come già nel 1977 si sia verificata una sottrazione indebita di un virus da laboratorio, che causò effettivamente un’epidemia. Con un pizzico di malizia, si potrebbe anche aggiungere che, in fondo, le conseguenze di un eventuale incidente o sabotaggio danneggerebbero, almeno inizialmente, principalmente i cittadini europei.

A queste notizie inquietanti si è aggiunto un paio di giorni fa un interessante corollario: poiché i risultati della ricerca sono considerati pericolosi per la sicurezza, è probabile che essi non verranno pubblicati per esteso, come almeno inizialmente sembrava sarebbe accaduto. Attualmente lo US National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB) sta conducendo una revisione dello studio: saranno in sostanza gli Stati Uniti a decidere quanta e quale parte di scienza potrà diventare patrimonio di altri scienziati e quindi dell’umanità.

La BBC ha sentito sull’argomento due scienziati: John Oxford professore di Virologia della London Medical School e Wendy Barclay dell’Imperial College di Londra. Entrambi sono contrari alla censura sulla scienza. “La vera minaccia è costituita dal virus stesso”, sostiene infatti il primo, mentre la seconda sottolinea che “si vogliono nascondere importanti informazioni scientifiche che altri ricercatori devono conoscere approfonditamente e che devono essere analizzate da tutti coloro che lavorano nel campo”.

Difficile non coincidere con le tesi dei due studiosi britannici, ma è altrettanto difficile cogliere nella scelta della Casa Bianca un semplice dettato di prudenza: sembra piuttosto emergere, dall’atteggiamento statunitense, l’intenzione di non divulgare alla comunità scientifica quello che si ritiene essere - e non c’è dubbio che lo sia - un elemento di grande vantaggio nella dotazione del loro arsenale batteriologico. La partita si gioca sulla possibile ricerca dell’antitodo e averne, unici, la possibilità di svilupparlo, risponde pienamente alla logica di un paese che unisce vocazione imperiale verso l’estero con isolazionismo e protezionismo verso l’interno. Una scelta di predominio scientifico a scopo militare che non ha nulla a che vedere con la sicurezza globale per la quale si dicono impegnati.

Un riflesso condizionato, quello USA, che potrebbe rivelarsi inutile, prima che sbagliato. Non occorrono certo terroristi per diffondere un virus che può fare il giro del mondo anche solo grazie ai flussi migratori degli uccelli (lo dice anche uno sciocco film di fiction come Contagion di Steven Sodebergh); e soprattutto che un’arma biologica di questo tipo è talmente pericolosa che non può essere utile in alcun conflitto: in una cosa, infatti, i virus sono migliori degli uomini: ignorano i confini. Anche quelli degli USA.

 

di Mario Braconi

Il 15 dicembre, in una clinica oncologica di Houston, è morto Christopher Hitchens: gli sono state fatali le complicanze di un tumore terminale all’esofago. La morte di un uomo libero, allergico alle facili catalogazioni, reso immortale dalle sue eccellenti virtù di polemista, giornalista, scrittore e conferenziere. Christopher, “Hitch” per gli amici (con britannico snobismo, sembra detestasse il popolare “Chris”) era nato a Portsmouth in Gran Bretagna sessantadue anni fa da un Comandante della Marina britannica di solide idee conservatrici e da Yvonne, “una pennellata di colore in questo mondo grigiastro”, morta suicida in Grecia assieme al suo nuovo compagno Timothy Bryan, quando lo scrittore 28 anni.

Hitchens, almeno all’inizio della sua carriera, è stato un socialista internazionalista, e in giovane età viaggiò molto, a sue spese, in paesi che stavano muovendo i primi passi sulla strada della democrazia dopo aver posto fine ad orrende dittature: come ricorda sul Guardian Peter Wilby, andava in Polonia, Portogallo, Cecoslovacchia e Argentina, portando con sé, “solidarietà e pacchi di blue jeans”.

La libertà che Hitch rivendicava per le sue idee politiche valeva anche per le sue scelte sessuali: dopo aver rischiato l’espulsione dalla scuola per omosessualità, ad Oxford finì a letto con una ragazza che lo adorava a tal punto che sue foto adornavano le pareti della sua camera da universitaria: e da allora divenne un convinto eterosessuale, perché, come spiegava “ero diventato brutto a tal punto che nessun uomo al mondo avrebbe fatto sesso con me”.

Gossip sessuali a parte, dopo la laurea, conseguita nel 1970, cominciò a lavorare per la rivista britannica The New Statesman, seguendo la politica internazionale. Anthony Howard, il redattore che assunse Hitchens, lo descrive così a Laurence Arnold di Bloomberg: “Un giornalista veloce come una saetta, che non si presentava mai in redazione prima delle dieci e tre quarti, tenendo nella mano tremante un bicchiere di cartone pieno di zuppa di pomodoro il cui scopo era tentare di gestire il suo dopo-sbronza”. Una decina di anni dopo, Hitchens si trasferì negli Stati Uniti e da lì cominciò una serie di collaborazioni regolari per periodici americani (The Nation e Vanity Fair), oltre a diverse corrispondenze per giornali britannici.

L’odio per la dittatura è sempre stata una costante della visione del mondo di Christopher Hitchens. Una giusta fissazione, che però in alcuni casi l’ha spinto perfino a sostenere delle guerre imperialiste: è successo, senza gravi conseguenze per il suo posizionamento politico nel 1983, quando sostenne la guerra della Thatcher contro l’Argentina. Ed è accaduto, in modo più eclatante alla fine del 2001, quanto Hitch, dopo gli attacchi terroristici agli Stati Uniti, dichiarò di aver abbandonato la sinistra, senza per questo abbracciare posizioni conservatrici in senso stretto (rimase sempre marxista): “Ho fatto una specie di giuramento di rimanere freddamente furioso finché con il fascismo dal volto islamico non saranno stati fatti i conti nel modo più determinato e spietato”.

Ovviamente la scelta drammatica di Hitch non poteva restare senza conseguenze sulla sua ventennale storia di collaborazione con The Nation, che infatti venne bruscamente interrotta nel 2002. Esprimendo il suo disagio nei confronti delle posizioni politiche del periodico che aveva ospitato i suoi scritti per lunghissimi anni, Christopher ebbe a dire: “The Nation sta diventando la voce e la cassa di risonanza di tutti coloro che sono sinceramente convinti che John Ashcroft costituisca una minaccia alla sicurezza del mondo più grave di quella rappresentata da Osama bin Laden”.

Comincia così il periodo più imbarazzante della biografia del grande polemista e giornalista naturalizzato americano, in cui compaiono gite a pesca con Paul Wolfowitz ed inviti alla Casa Bianca, culminato con la dichiarazione di voto a favore di Bush (2004). Comprensibile lo shock dei suoi ex amici dell’intellighenzia sinistrorsa anglosassone (tra cui Michael Moore) i quali non vollero più averci a che fare. Celebre in particolare l’anatema dello scrittore Gore Vidal, che ritirò la sua investitura di Hitchens quale suo “erede e delfino”, al punto che sulla copertina del suo libro autobiografico Hitch-22, la grafica mostrava una croce vergata con una finta nota a penna rossa sulle parole di Vidal, con l’annotazione “NO C.H.”, dove le due lettere stanno ovviamente per Christopher Hitchens.

Sempre per onestà intellettuale, occorre anche precisare come la sua temporanea adesione al “pensiero” neoconservatore non sia stata né completa, né pacifica: un amante della libertà come Hitch, infatti, non poteva tollerare lo scempio dei diritti (quelli dei cittadini, quelli dei prigioneri) perpetrato a cuor leggero dall’amministrazione Bush. Per questa ragione, Hitchens fu tra gli intellettuali che, assieme alla "American Civil Liberties Union" e ad altre ONG, presentò una denuncia contro le attività di spionaggio segreto messe in atto senza garanzie dall’amministrazione Bush nei confronti dei cittadini.

Al fine di poter garantire a sé stesso e ai suoi lettori il diritto di conoscere approfonditamente le cose di cui parlavano, decise perfino di sottoporsi volontariamente alla forma di tortura nota come waterboarding, largamente impiegata dai militari americani per ammorbidire terroristi, reali o meno. A dispetto delle 15.000 sigarette fumate ogni anno e dei consigli degli esperti della Difesa, che gli avevano spiegato a chiare lettere che il waterboarding era roba da Berretti Verdi, mica un passatempo per “scribacchini panciuti e rantolanti” di sessantanove anni come lui, a maggio del 2008 Hitch si sottopose alla terribile pratica, riferendone in modo diffuso su Vanity Fair.

Le sue conclusioni furono chiarissime: nessun dubbio che si trattasse di una effettiva tortura. Inoltre, annotava Christopher, se gli americani la consentono e l’approvano, non c’è ragione per cui degli stranieri non possano fare altrettanto su cittadini americani. Inoltre, le informazioni estorte in quel modo potrebbero benissimo essere false; per dire ci sono stati uomini che, grazie ad una sessione di waterboarding, hanno “confessato” di essere ermafroditi… Ed infine, il waterboarding è un modo di aprire una porta che poi non può più essere richiusa; se non funziona, perché non passare alle tenaglie e agli elettrodi per convincere un sospettato?

Al di là degli eccessi e degli errori politici, che peraltro Christopher Hitchens non rinnegò mai, rimanendo peraltro marxista a dispetto delle sue scelte “eretiche”, la vera eredità di Hitchens è stato il suo profondo odio per le religioni organizzate. Tra i suoi scritti più interessanti sono infatti “La posizione della missionaria” e “Dio non è grande”. Nel primo si scagliava con la violenza tipica del suo stile contro la mistica della sofferenza propugnata da Madre Teresa di Calcutta, sottolineando la sua ipocrisia (si faceva curare in cliniche per ricchi mentre “aiutava” i suoi malati a stare “più vicini al suo Dio” non risparmiando loro alcuna sofferenza) e i suoi legami con le più disgustose dittature.

Nel secondo scritto, con l’eloquente sottotitolo “Come la religione avvelena ogni cosa”, il polemista inglese documenta il suo fervente ateismo, facendo leva su argomenti presi dalla sua esperienza personale e dallo studio dei testi sacri delle principali religioni monoteiste (anche se ha qualcosa da dire anche del buddismo e dell’induismo). La coerenza dell’uomo è stata esemplare, al punto che nemmeno la morte imminente (nel 2008 gli era stata diagnosticata la malattia che lo ha ucciso) lo ha mai convinto ad una conversione sul letto di morte (“se leggete che è accaduto qualcosa di simile”, scrisse beffardamente, “sappiate che è stato causato da demenza, medicine o malattia”).

Quando un gruppo di credenti organizzò una giornata per la preghiera collettiva per la sua salute, con il suo solito wit britannico declinò educatamente la profferta, chiedendo ai benintenzionati devoti, che aveva sempre combattuto a colpi di penna, di astenersi da quella pratica, “sempre che non li aiutasse a stare meglio loro”.

di Mario Braconi

Se c’é un leitmotiv nei Golden Globe Award 2012 è la ricorrente celebrazione della Francia. Non solamente il bizzarro “The Artist" ha ricevuto ben sei nomination, tra cui quella per miglior musical; ma tra i film favoriti si trovano “Hugo” di Martin Scorsese, e “Midnight in Paris” di Woody Allen. La prima pellicola narra con toni poetici e fantasiosi la strana storia di un bambino che vive in una stazione parigina negli anni Trenta; nell’ultimo lavoro di Allen, invece, il protagonista, in visita nella capitale francese dei giorni nostri, subisce un piacevolissimo quanto narrativamente irrisolto trasferimento nella Parigi degli anni ruggenti, dove ha modo di incontrare intellettuali del calibro di Hemingway, Francis Scott-Fitzgerald, Matisse e Picasso.

Una riflessione, come sempre amara, sull’umana aspirazione alla grandezza e sulla tendenza, pure pienamente umana, a collocarla tassativamente in un hic et nunc remoto ed irraggiungibile, che stride in modo problematico con la corrente mediocrità. Perfino il film di Spielberg, “War Horse”, è ambientato per metà nelle trincee francesi nelle quali si stanno consumando gli orrori della Grande Guerra.

Non è casuale il fatto che, mentre “The Artist”, “Hugo” e soprattutto “Midnight in Paris” potrebbero fare razzia di premi, il nome del grande Spielberg non sia risultato nella rosa dei registi papabili per i Golden Globe Award. Sembra, in effetti, che una delle cifre dominanti della kermesse americana, sia quella di una più o meno consapevole fuga da una realtà storica dolorosa, dominata come è dalla crisi economica e politica, dall’incertezza e dal conflitto. Forse la giuria di giornalisti stranieri ha pensato che la crudezza della guerra, che certamente Spielberg deve aver rappresentato da par suo, si confacesse assai poco ad una audience vogliosa soprattutto di sognare.

Sognare, magari, una Parigi immaginaria: non capitale europea in bilico tra grandeur e bancarotta, ma la città del piacere, degli scrittori, dei filosofi e dei pittori appollaiati sulle sedie di fumosi bistrot a discettare delle umani sorti. Per il citato, sano e condivisibile fenomeno di rimozione collettiva, gli 85 giornalisti stranieri che costituiscono la giuria dei Golden Award, hanno forse deciso di non premiare Stephen Daldry, il regista inglese di “The Hours” e di “The Reader”, che questa volta si è esercitato nella riduzione cinematografica di “Molto forte, incredibilmente vicino” di Safran Foer, favola ambientata subito dopo l’undici settembre 2001.

Non esattamente un tema metabolizzato dal pubblico americano. Stessa sorte tocca al bizzarro e (troppo) filosofico e pasticciato “Tree of Life” del grandissimo Terrence Mallick, che pure aveva trionfato a Cannes.

Il fatto che in pieni anni Duemila un film come “The Artist”, ovvero una pellicola muta ed in bianco e nero, sia destinato a divenire un successo planetario è solo apparentemente sconcertante: infatti, a spingere su “The Artist” è niente meno che Harvey Weinstein della premiata ditta Miramax, che si è fatta un nome con le sue produzioni capaci di qualità quanto di ritorni finanziari. Si dice peraltro che quando Harvey ha telefonato al fratello e socio Bob per comunicargli di aver appena staccato un assegno “da diversi milioni di dollari” per comprare un film che sembra girato nel 1927, quest’ultimo gli abbia risposto semplicemente: “Tu sei matto!”.

Come scrive Catherine Shoard del Guardian, il film di Michel Hazanavicius sembra proprio studiato a tavolino per compiacere gli americani: il regista, esperto di parodie cinematografiche, “va in brodo di giuggiole per l’era della celluloide, ed eleva le pene di un attore disoccupato al rango di una tragedia greca”. Senza contare, che il tema della crisi del cinema muto causata dalle prime pellicole sonorizzate, era stato già esplorato nel 1952 nell’irresistibile “Cantando sotto la pioggia”.

Secondo la Shoard, alla fine è proprio “Midnight in Paris” il film che definisce meglio i Globe del 2012: “un prodotto mainstream che porterà molti incassi, nel quale comunque la creatività fa premio sul bieco senso degli affari”. In ogni caso, la scelta dei film sembra in qualche modo segnalare un ritorno del Premio all’attenzione per la qualità del tempo che fu, quando il esso era considerato un buon banco di prova delle produzioni che sarebbero state insignite degli Oscar.

Il fatto di aver preferito, nel corso degli ultimi anni, “Avatar” e “The Social Network” rispettivamente a “The Hurt Locker” della Bigelow e a “Il discorso del Re”, che poi hanno trionfato, quasi a sorpresa,  la notte degli Oscar, la dice lunga sulla lungimiranza dimostrata di recente dal circolo della stampa estera di Hollywood, California.

di Sara Michelucci

“Avevano sul volto l’espressione perenne del viaggio”. In questa semplice, ma significativa frase, si innesta tutto il significato dello spettacolo di Mario Perrotta, “Italiani, Cincali”. Una pièce che da ben otto anni Perrotta porta sui palcoscenici dei teatri italiani (l’ultimo in ordine di tempo è il teatro Secci di Terni), mettendo lo spettatore di fronte all’atrocità della vita dei minatori italiani in Belgio, ma anche davanti al concetto più ampio d’immigrazione e a quello di memoria.

Il punto di vista scelto da Perrotta è quello del postino di un paese del Sud Italia, l’unico uomo a non essere partito per “La Belgique” a lavorare, ma che conosce ogni sensazione, ogni umore, ogni paura di quei suoi compaesani lontani, grazie alle lettere che ha il compito di leggere alle mogli, dato che è l’unico nel paese ad avere un minimo di istruzione.

E pare di vederli quei minatori che scivolano nelle fauci della terra, che respirano male, che vorrebbero stare con le loro famiglie, ma che sono costretti a lavorare e a rischiare ogni giorno la pelle per pochi spiccioli e per un sogno promesso, ma che mai si avvererà. In realtà questi uomini sono stati burlati, non da uno ma da due Stati che hanno scambiato il carbone con delle vite umane.

Un monologo di un’ora e mezza che porta dritti nelle viscere della terra e dell’anima, che mette a nudo tutta l’atrocità dell’immigrazione, ma anche del razzismo, in un contesto che pare lontano e passato, ma che in realtà è più vicino di quanto si immagini. Oggi è l’Italia ad accogliere popoli che fuggono da guerre, carestie e povertà. Quel ruolo che un tempo è toccato agli italiani, è stato preso da altri, ma la sostanza non dovrebbe cambiare. Perché siamo figli d’immigrati e perché dovremmo capire cosa si prova ad essere in una terra che non è la propria. E invece non è così e Perrotta lo dice chiaramente alla fine dello spettacolo: “Mi sono sempre chiesto come mai i più razzisti sono quelli che un tempo sono stati emigranti”.

Dall’inverno del 2002 Perrotta si dedica a tempo pieno alla raccolta di testimonianze orali degli ex-emigranti salentini e più in generale italiani, registrando oltre 150 ore di racconti straordinari che costituiranno l’ossatura del Progetto Cìncali. Fondamentale in questo lavoro la collaborazione con il drammaturgo Nicola Bonazzi.

Cìncali, ovvero zingari! È il modo in cui venivano apostrofati gli italiani emigrati in Svizzera. Sembra però, che fosse una storpiatura di cinq, “cinque” nel linguaggio degli emigranti padani che giocavano a morra. Era comunque un modo per schernire questi italiani accusati di togliere il lavoro agli svizzeri.

Quasi un anno di testimonianze, un anno di memorie rispolverate a fatica. “Ho preso la macchina - dice Perrotta che indossa una semplice canottiera bianca e ha un bicchiere d’acqua ai piedi della sedia - e ho girato senza un luogo preciso dove andare, eppure il Sud è tutto uguale, non hai bisogno di sapere dove qualcuno ha preso le valigie ed è partito: basta entrare in un bar, un bar della provincia e chiedere. La risposta è sempre la stessa: “qui tutti siamo emigrat.. me lo racconta?”

Si fanno pregare, un attimo soltanto, poi partono con la loro storia, infinita, che reclama ascolto. Anche il Sud è infinito. Me lo insegna la mia macchina che mi porta di paese in paese, sempre per caso, e s’inerpica tra i paesi montani del nord-est produttivo ed è ancora Sud. Sì! Per i Belgi, gli Svizzeri, i Tedeschi che chiedevano braccia dopo la seconda guerra mondiale, Sud era la Puglia, la Sicilia, la Calabria e Sud era il Veneto, il Friuli: “siamo emigrati tutti qui.. Quattro parole, sempre le stesse”.

 

 


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