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di Mario Braconi
Sembra che poche cose stiano a cuore al governo degli Stati Uniti quanto gli interessi della sua grande industria nazionale dell’intrattenimento. Come noto, infatti, tanto al Senato che alla Camera dei Rappresentanti sono da mesi in discussione due proposte di legge, rispettivamente il PIPA (Protect IP Act) e SOPA (Stop Online Piracy Act), che rappresentano il risultato di una politica totalmente asservita agli interessi delle corporation americane. Le quali, pur di sostenere un modello di business che fa acqua da tutte le parti, sono pronte a conculcare la libertà di pensiero e di espressione dei cittadini di tutto il mondo, nonché a rendere la Rete meno affidabile e sicura.
Come spiega Adam Dachis sul sito Lifehacker, il legislatore americano vorrebbe consentire alle autorità giudiziarie, su iniziativa della parte presumibilmente lesa, la possibilità di bloccare l’accesso degli utenti ai siti in odore violazione del diritto d’autore. Insomma, a fronte della contestazione promossa da una major, entro 5 giorni gli ISP potrebbero trovarsi obbligati ad impedire l’accesso al sito “incriminato”. Come se non bastasse, la proposta di legge prevede il divieto in capo a inserzionisti ed intermediari finanziari di fare affari con il sito oggetto del provvedimento (il caso Wikileaks, con cui Mastercard e PayPal tagliarono i ponti a seguito delle minacce del Pentagono deve pur aver insegnato qualche cosa).
Nel mondo paradossale che sognano i due promotori dei provvedimenti (Lamar Smith, repubblicano, e Patrick Leahy, democratico) è perfettamente normale, anzi perfino auspicabile passare qualche anno in galera per aver caricato su YouTube un video nel quale, per esempio, si sente una canzone i cui diritti di sfruttamento sono protetti da copyright. Ma l’aspetto più sconcertante è il pieno controllo che la grande industria reclama per sé, la cui ambizione ultima pare essere esautorare di fatto i sistemi giudiziari: sotto molti aspetti la lucida follia che anima tanto SOPA che PIPA tradisce il chiaro fastidio del mondo dell’entertainment per certe quisquilie antiquate come la libertà di espressione, la certezza del diritto, la sovranità nazionale (aggiungeremmo anche il senso del limite e quello del pudore).
Secondo Kirk Sigmon, esperto di diritto del web, se SOPA venisse approvata nella sua forma attuale, il Ministro della Giustizia USA (Attorney General) potrebbe agire nei confronti di tutti i proprietari di siti internet che rifiutino di “confermare formalmente alle autorità che esiste un’alta probabilità che nel loro sito si scambi gratuitamente materiale protetto da diritto d’autore”; ma anche contro chi gestisce siti radicati sul suolo americano il cui obiettivo sia (o sia stato!) “promuovere atti contrari alla legge sul diritto d’autore”. L’Attorney general potrebbe inoltre agire contro siti stranieri, che siano o meno su host negli Stati Uniti.
In poche parole, il ministro della giustizia diventerebbe una mazza da baseball nelle mani di un numero limitato di major: Facebook, YouTube, Twitter dovrebbero controllare ogni singolo elemento che viene caricato dai loro iscritti al fine di incorrere nei rigori della legge. Il tutto senza contare che la questione delle presunte violazioni del diritto d’autore potrebbero diventare un pretesto per far chiudere dei siti di idee politiche non gradite a chi promuove l’azione. Inoltre si verrebbe a creare un clima di “caccia alle streghe” grazie al quale nessuna azienda intratterrebbe rapporti commerciali con un’altra potenzialmente soggetta a censura.
Infine, ogni grande business dell’intrattenimento potrebbe citare in giudizio una qualsiasi start-up innovativa strozzandola in culla con il pretesto che non si è dotata di sistemi sufficientemente accurati per impedire la violazione del copyright. Ennesima declinazione di un modello di business superato e fallimentare, abbarbicato ad un potere corrotto che non esita a menomare la democrazia e ad impedire l’innovazione pur di garantirsi qualche giorno di sopravvivenza in più.
Il governo degli Stati Uniti è pronto davvero a tutto pur di fare gli interessi dei suoi amici delle corporation dell’intrattenimento: anche a fare pressione e a ricattare paesi stranieri. Il quotidiano spagnolo El Pais ha pubblicato il 9 gennaio una lettera riservata datata 12 dicembre, con la quale l’ambasciatore americano a Madrid, Alan Solomont, esprimeva a diversi membri del governo Zapatero la sua “profonda preoccupazione” per la mancata approvazione della legge anti-pirateria spagnola, conosciuta come Ley Sinda; non mancavano nella missiva esplicite minacce di sanzioni commerciali contro il paese “canaglia” che in modo tanto sfrontato continuava a sfidare gli interessi delle major americane non approvando una legge liberticida.
Il dispositivo era in effetti stato approvato a febbraio 2011, ma la sua applicazione era rimasta sospesa in un limbo a causa di ritardi amministrativi non proprio casuali, quanto favoriti dalla vasta e rabbiosa opposizione dei cybernauti iberici. Nessun problema comunque, perché il nuovo governo di centrodestra spagnolo ha approvato la nuova legge il 30 dicembre, non potendo apparentemente resistere alla tentazione di scodinzolare allo zio Tom. Del resto, come contropartita del rigore contro i “pirati” gli Stati Uniti hanno promesso alla Spagna importanti investimenti nel settore dell’intrattenimento online legale e a pagamento, naturalmente made in USA. Il tutto solo per aiutare la colonia spagnola a riprendersi dalla sua profonda crisi economica.
E’ grazie alla provvida approvazione della Ley Sinda che la Spagna è entrata in quella che la Electronic Frontier Foundation ha definito la lista “dei punti di strangolamento globali”, il club delle nazioni che “hanno attivato leggi anti-pirateria largamente sovradimensionate, che bloccano e filtrano siti web a costo della libertà di espressione online”.
La cosa paradossale è che quello che prevede la SOPA, ovvero il blocco dei DNS (domain name system) dei siti sospettati di pirateria non riuscirà comunque a debellare la pirateria. A chiunque sia noto l’indirizzo IP del server “pirata” sarà sempre possibile collegarvisi. Insomma, il blocco dei DNS servirà al più a scoraggiare qualche “delinquente casuale”, non gli adepti al download illegale, i quali continueranno a farlo come (e con più gusto) di prima.
Non solo: secondo l’esperto legale Stewart Baker, la SOPA è potenzialmente un modo per rendere meno sicura la Rete. Se la proposta di legge dovesse essere approvata nella sua forma attuale, porrebbe un serio limite allo sviluppo del protocollo DNSSEC, impiegato per contrastare vari determinati tipi di reati online. Compito del protocollo è andarsene in giro per i vari DNS del mondo per trovarne uno “autenticato”.
Questo è di grande aiuto per proteggere gli utenti del browser a schivare truffe che, hackerando determinati DNS, fanno convergere gli ignari naviganti su siti con un numero contraffatto che riproduce l’IP di quelli richiesti, ma che in realtà sono delle copie predisposte per rubare dati e password.
Poiché però la nuova tecnologia non è in grado di distinguere tra un DNS (indirizzo) bloccato dall’Attorney General e uno truccato da un ladro online, è probabile che tutte le aziende informatiche che oggi stanno investendo sul protocollo DNSSEC finiscano per non investirci più un solo euro. Solo così eviterebbero di finire nel mirino del ministero della giustizia, che potrebbe interpretare la tecnologia un modo per eludere la legge.
In sintesi, SOPA e PIPA non solo non servono a bloccare davvero la pirateria online ma costituiscono un ottimo strumento per conculcare le libertà civili e impedire l’innovazione tecnologica. Non solo, ma il delirio di onnipotenza delle major dello spettacolo americane (cui si uniscono volentieri le farmaceutiche, infastidite dal fatto che gli americani possano acquistare medicine online da un rivenditore, per dire, canadese), rischia di imporre al mondo intero legislazioni tanto se non più liberticide di SOPA e PIPA.
La legge approvata in Spagna a dicembre, per dire, prevede che ISP e hosting provider blocchino i contenuti e chiudano i siti ritenuti colpevoli di violazione dei diritti d’autore entro 48 ore dalla contestazione: un periodo ovviamente insufficiente a garantire che l’accusato possa validamente difendersi. Inoltre, contiene delle disposizioni per identificare l’IP degli utenti che scaricano illegalmente contenuti: siamo alla sorveglianza online legalizzata.
Le perdite economiche che le major lamentano per effetto del download illegale dimostrano il fallimento del loro modello di business, basato su offerta limitata, prezzi stratosferici, impossibilità di fruire liberamente i contenuti, anche dopo averli acquistati a caro prezzo.
La grande industria dell’intrattenimento (il cui contributo alla crescita è certamente inferiore a quello del settore internet) dovrebbe prendere atto del fatto che ha solo due possibilità: rinnovarsi nella direzione indicata dal pubblico dei consumatori o estinguersi. Invece, ha scelto la strada di modellare le leggi del mondo a suo uso e consumo: una situazione da brivido, molto dibattuta su internet (finché sarà possibile farlo legalmente) ma poco sulla carta stampata.
Non è un caso, visto che tra i sostenitori della SOPA, oltre alle major e case di videogiochi come Nintendo e SONY, ci sono, guarda caso, i gruppi che controllano i giornali. Che la situazione sia grave è dimostrato dal fatto che persino i grandi nomi del settore internet, da AOL a eBay, da Google a Facebook, passando per Twitter, Yahoo! e Mozilla si sono riunite in un consorzio per dare voce alla protesta contro SOPA e PIPA. Sembra addirittura che stiano lavorando al progetto di “spegnere” i propri servizi per protesta se il progetto di legge dovesse andare avanti senza modifiche sostanziali.
Sul versante opposto dei “big” della Silycon Valley, si trovano gli hacker Anonymous, che ovviamente si sgolano da mesi contro la SOPA: non per questo le sue “filiali” locali trascurano di attivarsi anche contro provvedimenti simili che intaccano le libertà civili in paesi periferici come la Finlandia. Il 9 gennaio, l’ISP finlandese Elisa ha deciso di ottemperare a un’ordinanza della Corte Distrettuale di Helsinki, che la obbligava ad impedire a tutti i suoi utenti di raggiungere il sito piratebay, nel quale certamente si scambia “illegalmente” materiale coperto da copyright.
Immediata la reazione di Anonymous, che tramite i tweet di The Real Sabu, uno degli animatori più loquaci e polemici del gruppo, ha cominciato a protestare: “Non staremo certo qui a guardare e consentire ai nostri governi di censurarci”. Detto fatto: il sito finlandese della IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), una specie di SIAE internazionale molto fattiva per difendere gli interessi dell’1% (produttori di contenuti) a scapito diritti del restante 99% della popolazione, è stato oggetto di un attacco che lo ha reso irraggiungibile. Al momento in cui si scrive, a 30 ore circa dai belligeranti annunci di Sabu, il sito è ancora giù.
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di Vincenzo Maddaloni
VARSAVIA. Si potrebbe anche cominciare dalla casetta di cemento, quella che era la sala d'attesa dirimpetto al muro, quasi di fronte al posto di guardia e al portone blindato che si apriva automaticamente scivolando sulle guide quel tanto che bastava per farvi passare le automobili della Miliçia, della polizia, e il cellulare con gli arrestati. Le donne erano arrivate con il seguito dei figli, cariche di borse. Si erano sedute dentro, si guardavano intorno parlando sottovoce, finché era venuto il guardiano, berretto e divisa grigia, grinta di legionario, aveva passato addosso una lunga occhiata di traverso e aveva cominciato a leggere i nomi: uno, due, tre, quattro, cinque nomi polacchi con i loro grumi di consonanti: era il primo turno.
Le persone chiamate si erano alzate avviandosi verso la porta, il muro. Ogni tanto, dai tetti i corvi lanciavano il loro grido, sennò sarebbe stato un silenzio implacabile, da non muoverlo più. Aspettare un'altra ora per il prossimo appello di cinque, e che altro si poteva? Era un mercoledì del gennaio 1982 che, col sabato, era giorno di visita per gli internati del carcere di Bialoleka, uno dei tanti disseminati nel Paese, dove il generale Jaruzelski aveva fatto rinchiudere trenta mila oppositori del regime dopo la proclamazione - il 13 dicembre del 1981 - della legge marziale in Polonia.
Quello di Bialoleka era un blocco di cemento nel grigioverde morbido della campagna varsaviese, a quindici chilometri dalla capitale: il filo spinato, le garitte, il carcere insomma delimitato da una striscia d'asfalto e il marciapiede, poi i pini, le betulle e, di là dalla strada, le case dei guardiani, un negozio di alimentari, le aiuole e gli orti zappati con affetto. La casetta stava in mezzo: una piccola costruzione dipinta di fresco. Dentro l'ambiente era spoglio: la stanzina per i sorveglianti, la sala con le panche verdi appoggiate alle pareti, la vetrata che filtrava un sole smunto e livido e la gente che guardava fuori e dentro si parlava sempre più piano, si sussurrava, si raccontava, si spiegava.
E’ su questi scenari, i quali riportano indietro la Polonia di trent’anni e l’Unione sovietica ai tempi di Breznev, che s’è scatenata una polemica tra il cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia e prima ancora segretario di Giovanni Paolo II, e Michail Gorbaciov. Il merito di questa polemica riguarda proprio il colpo di Stato del generale Wojciech Jaruzelski, che mise fuori legge il sindacato Solidarnosc incarcerando i suoi esponenti di vario rango, a cominciare dal leader storico Lech Wa??sa, e privando l’intera la società polacca dei fondamentali diritti civili.
La legge marziale durò dal 13 dicembre 1981 fino al 22 luglio 1983. Durante quel periodo migliaia di attivisti politici erano stati arrestati e detenuti senza processo. Le strade delle maggiori città erano pattugliate costantemente da militari e carri armati. I collegamenti telefonici con l’estero erano stati staccati; la corrispondenza era sistematicamente controllata e censurata; le lezioni nelle scuole e nelle università erano state sospese. Fabbriche, stazioni, mezzi di comunicazione, ospedali, porti, miniere erano sotto il controllo diretto dei militari. Il cibo era razionato.
Sicché parecchi polacchi tenteranno di scappare: dal Dicembre 1981 al 1983 undici voli partiti dalla Polonia furono dirottati e fatti atterrare all’aeroporto Tempelhof di Berlino. Naturalmente anche in quella circostanza, la Polonia si distinse dai Paesi “fratelli”, applicando lo stato d'assedio in modo contraddittorio: genti nelle carceri e dibattiti in Parlamento; censura e critica (limitatissima) sui giornali; lavoro obbligatorio e disoccupati; veto di espatrio come si è visto, ma permessi concessi a migliaia per poter assistere a Roma alla santificazione (10 ottobre 1982) di padre Kolbe. Tuttavia, quando nel 1983 Lech Walesa vinse il premio Nobel per la Pace, non gli fu permesso di andare a ritirarlo. Pochi mesi dopo (22 luglio) la legge marziale sarà revocata, ma i prigionieri politici saranno liberati soltanto con l’amnistia del 1986.
A trent’anni di distanza da quei fatti la Polonia è ancora divisa. Da una parte ci sono coloro che considerano il generale Jaruzelski un patriota che guidò il Paese in una transizione difficile salvandolo dall’invasione sovietica. E dall’altra parte coloro che lo considerano un despota e un traditore. Entrambe le parti in tutti questi anni hanno raccolto centinaia di documenti e altrettante testimonianze per supportare le rispettive tesi. Alcune clamorose come quella del generale Jurij Dubinin, ex comandante della guarnigione sovietica in Polonia, il quale aveva dichiarato ufficialmente che il Cremlino di Leonid Breznev era pronto a invadere la Polonia, anche a costo di affrontare una sanguinosa guerra contro la resistenza popolare e di combattere contro lo stesso esercito polacco pur di fermare la rivolta dei cattolici in Polonia.
Mosca era dunque decisa ad applicare anche in Polonia la "dottrina Breznev della sovranità limitata", che l'allora numero uno sovietico invocò nell'Agosto 1968 per difendere l'impero e stroncare con un atto di guerra le riforme lanciate in Cecoslovacchia da Alexandr Dubcek. In un'intervista (Marzo 1992) a Gazeta Wyborcza, il quotidiano liberal diretto a quel tempo dal capo storico del dissenso, Adam Michnik, il generale Dubinin aveva rivelato che «le divisioni sovietiche avrebbero dovuto invadere la Polonia il 14 dicembre. I piani operativi erano stati approntati in base all'esperienza che avevamo maturato in Cecoslovacchia. Solo all'ultimo momento, poche ore prima che l'invasione scattasse, l'operazione fu bloccata. Fu il colpo di Stato del generale Jaruzelski che - al prezzo di migliaia di arresti e di alcuni morti - stroncando l'opposizione, esautorando in parte lo stesso Partito comunista e affidando il controllo e di fatto l' amministrazione quotidiana della Polonia alle forze armate nazionali, convinse Breznev a fermare i suoi carri armati».
Naturalmente i generali del "Wron" (Consiglio militare di salvezza nazionale, la giunta che con a capo Jaruzelski assunse il potere), continuarono a dichiarare senza mezzi termini che «l'unico metodo di governo attuabile oggi in Polonia è una forma di assolutismo illuminato», tuttavia era difficile dire quanti all'interno del Partito erano disposti a sottoscrivere quella soluzione. C'era tra gli operai - ricordo in quei giorni a Varsavia - una rabbiosa frustrazione, uno spirito di rivincita, il timore che la vicenda potesse esplodere, ma tutti, proprio tutti - militari e popolazione civile, partito e sindacato - erano propensi a trovare una soluzione interna, a togliere spazio e pretesti per «l’aiuto fraterno» dei sovietici.
«lo non credo nell'assolutismo - mi diceva Zdzislaw Morawski, direttore di Zycie Warszawy, il più importante quotidiano della capitale - penso che questa situazione potrà andare avanti uno, due, tre anni, ma si dovrà trovare un'intesa con la società. Purtroppo il tempo gioca a sfavore, perché il nostro maggior nemico oggi non è la crisi economica, è l'odio. In Polonia, in passato, c'erano state discussioni, dissidi, rivolte, mai odio. Oggi c'è, e cresce ogni giorno di più. lo ho vissuto per molti anni in Italia, nel vostro Paese: se la polizia ammazza un operaio fate dimostrazioni, cortei, scioperi per due, tre giorni, poi ve ne dimenticate. In Polonia no: se lo ricordano per decenni. Questo è terribile». http://biblioinrete.comperio.it/index.php?page=View.DocDetail&id=954870.
Infatti, trent’anni dopo riescono ancora a sollevare polemiche le rivelazioni di Michail Gorbaciov alla TVN24, l’emittente privata col più alto numero di ascolti in Polonia. Nell’intervista che è andata in onda nel giorno di Natale e ritrasmessa il giorno dopo, l’ex presidente sovietico ricordando la sua visita in Vaticano (1 Dicembre 1989) ha raccontato che alla sua domanda su cosa pensasse dell'iniziativa di Jaruzelski, Giovanni Paolo II aveva risposto: «E’ stata una decisione giusta».
La mattina dopo - puntuale - è arrivata la smentita del cardinale Stanislaw Dziwisz l'ex segretario di Giovanni Paolo II, e ora arcivescovo di Cracovia, il quale in un comunicato ha espresso “tutto il suo stupore” per quanto aveva dichiarato Gorbaciov alla televisione. «Devo decisamente affermare - ha scritto il porporato - che il Santo Padre non aveva parlato con il signor Gorbaciov della legge marziale, poiché il suo giudizio su questa iniziativa era inequivocabilmente negativo».
Del resto, nel suo libro “La mia vita con Karol” don Stanislaw aveva già scritto che «l'introduzione della legge marziale era stata per il Pontefice un autentico “shock” e che egli ne era sorpreso e addolorato». E a suggello aveva riportato pure le parole pronunciate dal Papa durante un’udienza: «Cosa avete fatto a questa nazione? Essa non meritava siffatto trattamento!».
Fin qui la cronaca. Vi potrei aggiungere che per quel poco che ho conosciuto di Gorbaciov, (essendo con Giulietto Chiesa e Andrei Graciov tra i fondatori del “World political forum” del quale Gorbaciov è il presidente), non mi sembra un personaggio che s’inventi fole pur di ravvivare la sua fama. Naturalmente, va pure ricordata la situazione politica in Polonia, che fino a quattro anni fa è stata governato dai gemelli Kaczynski fortemente critici nei confronti dell'Europa occidentale e pericolosamente anti-semiti ed omofobi.
Donald Tusk (che è succeduto, nel Novembre 2007, al premier uscente Jaroslaw Kaczynski) è tra i fondatori di Platforma Obywatelska (“Piattaforma Civica”). Esso è il maggior partito politico nel Parlamento polacco: un partito di centrodestra, liberista nelle politiche economiche e che governa in coalizione con il Partito Popolare Polacco, un partito agrario e centrista.
Se si tiene a mente lo scenario politico tutto schierato sul centrodestra meglio si comprende la prudenza del cardinale. Va pure aggiunto, per completare il quadro, che in Polonia divampa la discussione sull’Islam. A scatenarla è stata appunto la costruzione nella capitale del centro di cultura musulmana, in cui oltre ad una biblioteca con una sala multimediale, una galleria d’arte, ristoranti e negozi, sarà allestita anche una sala di preghiera.
Quel che soprattutto non piace, nella cattolicissima Polonia, è sapere che il Centro ha ricevuto dai sauditi i finanziamenti per costruire una moschea nel quartiere Ochota a Varsavia. Lo riprova anche la protesta organizzata l’anno scorso dall’associazione Przysztoc Europy (Il Futuro dell’Europa), nel giorno dell’inaugurazione del cantiere. Insomma, come ha scritto la Deutsche Welle, in Polonia la comunità musulmana è fiorente ed è composta «soprattutto da immigrati provenienti dalla Siria, dall’Iraq e dalla Libia perché», spiega l'emittente internazionale tedesca, «essi sono attratti dalla presenza della Polonia all’interno dell’Unione Europea».
Insomma, ce n’è abbastanza per non scatenare nuove polemiche che potrebbero insinuare dubbi tra i credenti della cattolicissima Polonia. Come appunto il sospetto che tra la Chiesa e il potere comunista rappresentato dal generale Jaruzelski fosse potuto esistere una qualche intesa, espressa con gli autorevoli silenzi, convalidata da un’ancora più autorevole considerazione nel corso di un incontro che rimane di una valenza epocale. E così, poteva essere questa intervista di Gorbaciov alla televisione lo spunto per porre fine alla controversia che ancora affligge la nazione, e per il cardinale il pretesto per rilanciare la nobile arte del cattolico perdono e placare gli animi. Insomma s’è persa un’occasione.
Wojciech Jaruzelski ha 88 anni e dal 15 Settembre è ricoverato in ospedale per una polmonite, conseguenza della chemioterapia a cui si sottopone da tempo per via di un linfangioma. Verso la fine di settembre era andato a trovarlo Lech Walesa, che ha vent’anni meno di lui e che è stato il suo maggior rivale. E’ per questa ragione che la notizia dell’incontro e le relative foto, nonché il racconto del suo tono affettuoso e cordiale, erano circolate molto in Polonia.
Era un incontro atteso da moltissimo tempo. Infatti, l’arrivo di Mikhail Gorbaciov al vertice del partito comunista sovietico, nel 1985, le complicatissime condizioni dell’economia del paese e la crescente popolarità dei sindacati, portarono il regime polacco a tentare di ricostruire un dialogo con Walesa e Solidarnosc. Nel 1989 si tennero dei negoziati e si stabilì infine l’istituzione di un parlamento bicamerale aperto alle forze della società civile polacca.
Alle elezioni del 1989, le prime elezioni libere del Paese, i comunisti ottennero la maggioranza relativa alla Camera - non quella assoluta - e conquistarono un solo seggio al Senato, mentre Solidarno?? prese tutti gli altri 99; tuttavia Jaruzelski venne eletto presidente del Paese. L’alleanza tra Solidarno?? e alcuni partiti ex alleati dei comunisti costrinse Jaruzelski a nominare Tadeusz Mazowiecki Premier, il primo Premier non comunista della Polonia dal 1948. Jaruzelski si dimise dopo pochi mesi, nel 1990, e gli succedette proprio Lech Walesa.
I due storici rivali finirono per essere quindi i primi due presidenti della Polonia libera. Oggi Jaruzelski si definisce un socialdemocratico. La Polonia - si è detto - è ancora divisa tra chi lo considera un patriota e chi lo considera un despota e un traditore. La visita di Walesa era stata letta unanimemente come un tentativo di riconciliare il Paese, ma di lasciare alla Storia un giudizio finale sul suo vecchio e malato rivale. Altrettanto hanno fatto Gorbaciov e il Cardinale.
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di Mario Braconi
Agli Anonymous tedeschi, come a milioni di loro concittadini, i neonazisti non vanno proprio giù: sin dallo scorso maggio, con l’abituale videocomunicato su YouTube, la “filiale” tedesca del collettivo hacker ha lanciato la cosiddetta Operazione Blitzkrieg (“guerra lampo”) contro siti legati dell’estrema destra. Il video messaggio contiene un’interessante riflessione sul tema della libertà di parola e dei suoi limiti.
E’ innegabile il paradosso delle organizzazioni neonaziste che continuano a predicare odio e a fare proseliti facendo leva proprio sulle libertà che essi temono e disprezzano. “Voi neonazisti intimidite le persone che scendono nelle strade lottando per i loro ideali ed attaccate i vostri avversari politici negando loro il diritto alla libertà di parola” dice la voce distorta del clip di Anonymous di maggio. Eppure - continua - ipocritamente pretendete questo stesso diritto di libertà di parola per voi stessi [...]. Attaccate i giornalisti e i media in generale, attaccate membri delle fazioni opposte e allo stesso modo attaccate rifugiati ed immigrati”.
Un passaggio importante, dal punto di vista del metodo: se i cybercittadini sono liberi di approfittare del potere della Rete per diffondere i loro esecrabili messaggi di odio e violenza, al riparo della legge, secondo gli hacktivisti rivelare i nomi dei militanti neonazisti, più che una violazione della privacy, è un atto di giustizia. Le azioni promesse nel messaggio di maggio non si sono fatte attendere: nel giro di poche ore, un gruppo denominato No Name Crew (ciurma senza nome) è riuscito “buttare giù” ben 25 server locali del NPD (partito nazional-democratico tedesco), portandosi via una gran messe di dati personali di iscritti e simpatizzanti. A dispetto dell’aggettivo “democratico” contenuto nella sua denominazione, lo NPD è realtà un partito neonazista, che si sospetta abbia avuto legami con la Nationalsozialistischer Untergrund (NSU), una cellula terrorista neonazista che, in sette anni, ha ucciso nove immigrati e una poliziotta, rendendosi anche responsabile di un attentato dinamitardo nel quale sono rimaste ferite una ventina di persone.
E’ nello spirito di opposizione civile al veleno neonazista, e come “risposta” alla strage messa a segno dal “camerata” Breivik che, nel pomeriggio del 4 novembre, i militanti della fazione finlandese di Anonymous hanno violato il sito del movimento neonazista Kansallinen Vastarinta (resistenza nazionale) riuscendo a portarsi via ben 16.000 nominativi, immediatamente pubblicati in Rete con tutti i dettagli personali e l’indirizzo. Come spiega Mikko Hyppöneni, capo della ricerca della società di sicurezza informatica finlandese F-Secure, per ottenere dati tanto precisi l’utente internet dal nome “anomuumi” deve essersi messo a rovistare nei principali database del paese, quelli del Work Efficiency Institute, dell’Alleanza Studentesca Osku e di un paio di centri di formazione.
Anche in quel caso, le azioni illegali di Anonymous vanno interpretate come un fattivo contributo ad un mondo migliore. In fondo, l’obiettivo degli hacker era, dichiaratamente, dimostrare che la candida neve finlandese celi in realtà “una pozza di fango maleodorante che la sta rendendo ogni giorno sempre meno bianca”. Peccato però che non sia stato finora possibile identificare in modo chiaro e inequivocabile l’esistenza di una relazione tra le migliaia di persone messe alla gogna e i movimenti neonazisti. Per questo, occorre fare uno sforzo in più, ovvero fidarsi ciecamente di quello che dichiarano gli hacker di Anonymous.
Paradosso, dunque: anche gli antiautoritari di Anonymous sembrano chiedere ai loro sostenitori un esercizio che a occhio sembra contrario ai loro stessi principi (democrazia diretta, nessuna intermediazione eccetera). Senza contare che, sempre secondo Hypponeni, i dati personali pubblicati, siano o meno di teppaglia nera, costituiscono una miniera d’oro per i criminali in vena di furti di identità digitali.
Il 2 gennaio 2012 comincia con la seconda puntata dell’Operazione Guerra Lampo (BlitzkriegOp# è il thread da seguire su Twitter): in poche ore vengono messi fuori uso una quindicina di siti locali della NPD, la piattaforma Altermedia, covo di estremisti neri (compresi quelli britannici), il sito giornalistico di estrema destra Junge Freiheit (Giovane Libertà). Anche in questo caso, sono state rubate grandi quantità di dati personali di collaboratori, simpatizzanti, iscritti e perfino liste di clienti di boutique virtuali specializzate in capi di stile nazista classico (uniformi) o più adatti al moderno teppista di destra (ad esempio quelli firmati da Thor Steinar, che a suo tempo lanciò un discusso brand che aveva come logo le sue iniziali scritte con le corrispondenti rune).
La tecnica di Anonymous è quella nota: svergognare i neonazisti e mettere in allerta le possibili vittime. Questa volta, però, gli hacker vogliono fare le cose per bene, trasformando le loro boutade episodiche in un vero e proprio progetto di caccia al nazista: presso un apposito sito dal nome nazi-leaks (attualmente ospitato da una serie di mirror in tutta Europa) viene riportata una lista di nominativi, e-mail, basi dati clienti, account e password contenuti nei siti in odore di neonazismo. Secondo l’edizione in inglese di Der Spiegel, la conferenza della Chaos Computer Club, tenutasi quest’anno tra il 27 e il 30 dicembre scorso, è l’occasione per molti dei 3.000 hacker che vi prendono parte, per fare un po’ di esercizio: stoppando ad esempio qualche sito di estremisti di destra. In effetti è sospetta la data di attivazione di nazi-leaks, nato proprio il 27 dicembre.
Secondo Deutsche Welle, non tutti i commentatori sono entusiasti del “name and shame” messo in atto da Anonymous: il sito di informazione tedesco cita Simone Rafael del forum Netz-Gegen-Nazis (Rete Anti antinazista) il quale, pur sentendosi sollevato dal fatto che l’azione di Anonymous ha ripulito un po’ di feccia dalla Rete per qualche giorno, si è detto irritato per la scelta di aver pubblicato il nome degli estremisti. “Se loro avessero fatto la stessa cosa, sarei ugualmente furioso”. Sembra perfino che la sezione di Amburgo del collettivo Anonymous, in una mail alla Deutsche Welle, abbia definito la pubblicazione dei nomi dei neonazisti “una cattiva idea”.
Per mettere le cose nel giusto contesto, però, è opportuno ricordare che, come racconta l’edizione in inglese di Der Spiegel, in un anno e mezzo si contano ben 130 attacchi neonazisti contro rappresentanti della Linke (Sinistra): minacce, vetri rotti, scritte a spray, sabotaggio dei freni dell’auto. Una piccola guerra contro il “nemico” rosso, ma anche contro chi viene percepito come difensore dei diritti degli islamici, degli stranieri, degli omosessuali… Giusto, dunque, interrogarsi su quanto si possano forzare le regole per servire meglio ad un principio etico; ma senza dimenticare che si è di fronte ad un grave rischio di revanche nazista, per la quale la crisi economica costituisce un ottimo combustibile. In fondo, perfino un filosofo liberale come Popper sosteneva che una società aperta ha le sue buone ragioni per essere “intollerante con gli intolleranti”.
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di Emanuele Vandac
Si é da poco concluso il ventottesimo congresso del Chaos Communication Club (CCC), un’organizzazione di hacker fondata a Berlino nel lontano 1981 e assurta agli onori della cronaca nel 2008 per aver diffuso, assieme alla sua rivista Die Datenschleuder, un gadget davvero inedito: un foglio di materiale speciale sul quale erano state riprodotte le impronte digitali del ministro degli Interni Wolfgang Schäuble.
Secondo il collettivo CCC, il foglio di plastica con il calco della pelle del polpastrello dell’indice (destro?) del Ministro avrebbe validamente sostituito l’originale di carne ed ossa, ingannando qualsiasi dispositivo per il rilevamento delle impronte digitali: chiunque lo avesse a disposizione, insomma, avrebbe potuto accedere, ad esempio, al laptop di Schäuble, anche se fosse stato protetto con dispositivi di rilevazione dei dati biometrici.
Non è difficile immaginare l’imbarazzo del ministro, la cui impronta, era stata “rubata” senza particolari difficoltà utilizzando come modello quella da lui depositata su un bicchiere d’acqua da cui Schäuble aveva bevuto nel corso di un dibattito pubblico su temi religiosi. Si suppone, inoltre, che la mascalzonata abbia aiutato l’opinione pubblica a riflettere sull’effettiva utilità pratica di determinati deliri securitari (quelli che implicano l’opportunità di raccogliere e conservare dati biometrici, ad esempio) che ci vengono comunemente spacciati come imprescindibili.
Il claim di questa edizione della conferenza del CCC (28C3, per gli addetti ai lavori) è “Behind Enemy Lines”, ovvero “oltre le linee nemiche”: un possibile riferimento all’importanza sempre maggiore che l’etica hacker sta assumendo in tempi dominati dal dissenso e dalla sua repressione più o meno violenta negli stati con il bollino di democrazia come nei regimi totalitari. Notevole il parterre di esperti informatici presenti: tra di essi, lo scrittore, blogger e paladino dell’open source Cory Doctorow, Evgeny Morozov, autore de “L’ingenuità della Rete”, un libro che ricorda come la tecnologia possa essere utile agli oppressori come, se non più, che agli oppressi; e Jacob Appelbaum, esponente di spicco del progetto Tor, che ha scritto un programma studiato per rendere la vita difficile agli spioni online, personaggio eclettico e scenografico, fotografo, artista ed ambientalista.
La presentazione di Karsten Nohl, esperto di sicurezza nel campo della comunicazioni cellulari, invece, ha dimostrato come un qualsiasi hacker minimamente capace possa facilmente prendere il controllo di un qualisiasi cellulare GSM: assieme al collega Luca Melette, ha dimostrato che, con un semplice emulatore di cellulare realizzato con un software gratuito, un estraneo malintenzionato può usare il nostro numero di mobile per chiamare un numero collegato a servizi “a valore aggiunto” con tariffe astronomiche.
In questo modo, mentre il nostro telefonino rimane all’interno della tasca della giacca, qualcuno sta utilizzando il nostro contratto telefonico per consumare servizi che ci frutteranno una bolletta da diverse migliaia di euro… L’anno scorso Karsten si era concentrato su un (noto) difetto nel software di criptaggio usato da diverse compagnie telefoniche, grazie al quale mettersi all’ascolto delle conversazioni altrui è quasi un gioco da ragazzi: bastano un laptop, un apposito programmino (gratuito) ed un cellulare da quattro soldi opportunamente modificato…
Incidentalmente, Nohl ha fatto riferimento ad una nota del Ministero degli Interni della Repubblica Federale tedesca, datata 6 dicembre, con la quale si dà riscontro all’interrogazione di Andrei Hunko, un deputato tedesco del partito della Sinistra, che chiedeva al governo di fare chiarezza sull’impiego da parte delle varie polizie tedesche del metodo dei cosiddetti SMS silenziosi: messaggi di testo che vengono ricevuti dall’apparecchio del destinatario senza lasciare traccia e che consentono di determinare con una certa precisione dove si trovi la persona che porta il cellulare con sé, senza che l’interessato ne sappia nulla, ovviamente.
Il documento ministeriale riepiloga, con teutonica pignoleria, il numero di SMS-spia inviati dalle forze dell’ordine tedesche tra il 2006 e il 2011. Il quadro è preoccupante: nel solo 2010, l’insieme delle forze di polizia tedesche (federale, criminale federale, forze speciali e dogane) ha spedito oltre 440.000 messaggini silenziosi a ignari cittadini. Alla missiva del Ministero degli Interni è allegata una tabella riassuntiva, nella quale sono riscontrabili diverse lacune: alcuni corpi di polizia, ad esempio, non hanno monitorato questo tipo di attività investigativa (presumibilmente illegale), mentre i dati del 2011 non sono comparabili, dal momento che i conteggi si arrestano in date differenti a seconda del corpo di polizia considerato.
In particolare, è interessante notare come le Dogane, che peraltro presentano i dati più completi (anche se fermi al primo semestre del 2011), nel giro di sei anni abbiano triplicato il numero degli SMS silenziosi inviati, mentre nel primo semestre del 2011 ne hanno spediti circa lo stesso numero di quelli che hanno mandato nell’intero 2010.
Già, le dogane germaniche. Un corpo che, oltre ad essere ficcanaso, si muove anche in modo piuttosto goffo. L’8 ottobre scorso il Chaos Computer Club ha pubblicato un report con cui annunciava che, grazie allo zelo di un anonimo attivista, era entrato in possesso di un virus generato dallo stato al fine di sorvegliare i cittadini. La società di sicurezza informatica F-Secure ha scoperto che W32/R2D2.A (o 0zapftis) - questi i nomi con cui è conosciuto il virus informatico - viene installato con un eseguibile di nome scuinst.exe, che sta per Skype Capture Unit Installer.
Si tratta di un software prodotto da una ditta tedesca Digitask, che, a quanto risulta da certi documenti di Wikileaks, ha venduto alle dogane tedesche un certo prodotto per intercettare le comunicazioni via Skype. A riprova di questa tesi, F-Secure mostra sul suo sito copia di una fattura di oltre 2 milioni di euro spiccata da Digitask alla polizia doganale tedesca. Il trojan, presto ribattezzato “federale” (Bundestrojaner), una volta che ha infettato il computer oggetto dell’attacco, è in grado di spiare le comunicazioni via Skype, MSN Messenger e Yahoo Messenger, memorizzare la sequenza dei tasti premuti sulla tastiera (ha infatti un keylogger che si attiva quando si aprono tutti i principali browser), è in grado di registrare le conversazioni Skype e prendere delle “foto” (“screenshot”) di ciò che si vede sullo schermo del computer infettato; inoltre, è stato provato che il software tenta di collegarsi con due indirizzi IP, uno in Germania e uno negli Stati Uniti (!).
Intercettare le comunicazioni generate o ricevute da una persona sospettata di aver commesso gravi reati è legale in Germania: la legge prevede, infatti, la possibilità per la polizia di effettuare Quellen-TKÜ, ovvero “sorveglianza sulle fonti”. A dispetto della legge federale del 2008, che vieta ogni azione dello Stato diretta alla manipolazione del computer dei cittadini, la “sorveglianza delle fonti” può essere legalmente ammessa anche mediante l’installazione di software sul computer della persona soggetta a sorveglianza. In questo contesto è dunque legale l’uso del cosiddetto Bundestrojaner Light, un altro malaware di stato, che consente esclusivamente l’intercettazione di conversazioni veicolate mediante telefonia via internet.
Peccato però che, come ha rivelato l’analisi del software effettuato dal CCC, all’interno del Bundestrojaner Light siano presenti tutti gli “interruttori” per trasformarlo in un vero Bundestrojaner, con tutte le funzionalità illegali che abbiamo riassunto sopra. Il passaggio da strumento legale a strumento illegale è agevole, dato che, come anticipato, il software può essere aggiornato e controllato da remoto. Così come da remoto è possibile accendere microfono e videocamera, trasformando il pc di casa in una cimice alla luce del giorno. Più cavallo di Troia di così…
Lo studio del CCC, inoltre, ha rivelato come l’applicativo sia stato scritto in modo talmente sciatto, approssimativo e con così poco riguardo alla sicurezza, che è davvero facile per qualunque criminale appropriarsene ed utilizzarlo ai suoi fini. Inoltre, poiché il Bundestrojaner può essere usato anche per caricare o cancellare file da remoto, esiste la concreta possibilità che qualcuno costruisca o distrugga evidenze giudiziarie all’insaputa dell’indagato: cosa che peraltro potrebbe essere validamente opposta in un tribunale da qualsiasi avvocato. Dulcis in fundo: i dati raccolti mediante il trojan vengono spediti anche ad un server affittato negli Stati Uniti.
Questo vuol dire che “il controllo di questo malaware è solo in parte all’interno dei confini della giurisdizione della polizia tedesca. Questo strumento potrebbe dunque violare il principio di sovranità nazionale”. Non è infine chiaro che cosa dovrebbero fare i cittadini indagati per vedere rispettate le loro garanzie qualora i dati venissero smarriti in un paese straniero. Insomma, sembra quasi che gli hacker costituiscano l’ultimo baluardo alla democrazia.
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di Vincenzo Maddaloni
La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che il 2012 sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Se davvero così fosse, gli americani, i francesi e i russi, prima di ogni altra cosa dovrebbero decidere se avviare la ricerca con gli attuali inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, o se sarebbe più opportuno cambiarli. Molto più difficile lo sarà per i cittadini di un Egitto che non riesce ancora ad intravvedere chi lo governerà, come pure per gli abitanti dei paesi percorsi da quel che rimane delle primavere arabe.
Sicché l’unica cosa certa è che il nuovo anno che è stato giudicato con largo anticipo nero, parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà, e quindi saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive che potrebbero scatenare nuovi e devastanti conflitti.
Perché oggi le contraddizioni sono molto più forti a causa della globalizzazione che vuole azzerare la distanza tra universalismo e localismo, mortificando l’identità. Pertanto, viviamo ormai da tempo, in modo schizofrenico, due livelli di identità: la prima che s’identifica col mondialismo, la seconda che rivendica invece la sua specificità.
Il fondamentalismo prospera su questo conflitto esaltato dall’accanimento multimediale che si limita a riprendere i fatti senza spiegarne con obiettività l’origine. Eppure per schiarirsi le idee, basterebbe rileggersi Gilles Kepel, quando scrive che gli odierni movimenti fondamentalisti sono «per eccellenza figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione; le loro grida e i loro lamenti incitano a ricercarne le origini, a rintracciarne la genealogia inconfessata. Come il movimento operaio di ieri, così i movimenti religiosi odierni hanno la particolare capacità di indicare le disfunzioni della società, che classificano secondo le proprie categorie interpretative».
Naturalmente, a differenza di quanto accadeva prima, i nuovi poveri sono tutti coloro che se ne stanno incolonnati davanti all’ingresso della grande festa consumista, senza potervi entrare. Essi vivono nel continuo e logorante sospetto di non essere all’altezza dei tempi che impongono nuovi standard, nuove regole di vita e di lavoro.
Cosicché il fondamentalismo diventa, accogliendo tra le sue fila gli esclusi, il solo rimedio radicale contro le regole imposte dalla società consumista basate sul libero mercato. Pertanto in un mondo dove tutti i modi di vivere sono consentiti, ma nessuno è garantito, il fondamentalismo riesce ad infondere conforto e certezza poiché esso dice a chi l’abbraccia che cosa fare, anche se il prezzo da pagare è la limitazione delle libertà democratiche.
Certamente nei periodi di crisi come questo che stiamo vivendo, il fondamentalismo è il solo segmento che combatte la mondializzazione in maniera forte, spesso ricorrendo al terrorismo, e scatenando così la repressione più dura, la guerra preventiva. Ragion per cui la tentazione di desumere il futuro del mondo dal presente e dal passato che ci circonda diventa ancora più grande in questo bilancio di fine d’anno.
Il tentativo è di capire se ci attende un anno nero shocking, o un futuro di pacifica coesistenza come auspica la Premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi. Naturalmente la sua è una visione suggestiva che non va respinta, dato che a volte certe previsioni poi finiscono con l’avverarsi. Ragion per cui, nel breve volgere dell’anno che si chiude e del nuovo che si apre, torniamo a scrutare la scala dei valori - fra cui il primato della coscienza, il pluralismo, l’etica della responsabilità - per vedere se sono stati compiuti passi in avanti o all’indietro mentre si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bildelberg club e della Goldmann-Sachs, insomma dei costruttori dell’impero economico.
Quale sarà il futuro comune della coesistenza? Prevarrà la cultura del rispetto dei diritti umani o quella dell’human security con la quale si limiteranno gli spazi democratici e si privilegeranno le leggi coercitive che ben conosciamo? Prevarranno le libertà civili o le leggi di sicurezza, gli imperativi dei sacri testi? Non sembrano delle domande retoriche.
Perché lo squilibro geopolitico che s’è creato con la crisi economica che stravolge l’Occidente, le primavere arabe, le sanzioni e la minaccia d’invasione dell’Iran, l’impiego sempre più diffuso dei droni (i bombardieri senza pilota), lo spread e gli squassi provocati dalle oscillazioni delle monete, hanno riacceso la discussione storica sul senso della vita coinvolgendo la politica, le ideologie, le fedi.
Accade nello scenario dell’economia globale nel quale, «le persone non solo sono sempre meno necessarie, ma le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono una fonte primaria di inefficienza economica. Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stiamo creando un sistema che ha meno posti per le persone», sentenzia David Korten, economista, già professore alla Harvard Business School.
Da questi squilibri nasce un desiderio ansioso di interrogarsi che ha avviato una ricerca profonda sui valori che accomunano gli uomini, sui criteri che li regolano, sui perché le regole tradizionali si scontrano con le nuove con effetti laceranti, e infine sul senso stesso dell’esistenza. Con una velocità di analisi che non ha precedenti nella storia. Infatti, da quando - vent’anni fa - è implosa l’Unione sovietica, si è avviato il mutamento strutturale dei sistemi economico-produttivi che ha rivoluzionato la natura e la regolazione del lavoro così come rapporti sociali.
Con risultati spesso shockanti perché il capitalismo-postfordista si poggia sul flexible capitalism, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta - l’abbiamo imparato in fretta - per precarietà, in un mondo postindustriale dove da tre lustri a questa parte, non si parla più - secondo il sociologo U. Beck - di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”. Nell'area Ocse a luglio 2011 c'erano ancora 44,5 milioni di senza lavoro, 13,4 milioni in più rispetto al periodo pre-crisi: il che significa, come sostiene Beck, che la società del lavoro diventa sempre più precaria e che parti sempre più grandi delle popolazioni hanno “pseudo-posti di lavoro” sempre più insicuri.
Infatti, sempre secondo David Korten, «il sistema globale sta armonizzando gli standard paese dopo paese verso il minimo comune denominatore. Alcune imprese socialmente responsabili cercano di opporsi alla marea con qualche limitato successo, ma la loro non é una lotta facile. «Non dobbiamo ingannarci - avverte Korten - la responsabilità sociale è “inefficiente” in un mercato libero globale, e il mercato non perdonerà coloro che non approfittano di tutte le opportunità per liberarsi dell’inefficiente».
Insomma, quanto sta accadendo e non ci vuole poi molto per capirlo, provoca nei lavoratori un senso di fallimento - alimentato dall’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide - che mina alle radici la percezione di continuità dell’esistenza e della tradizione, scollega definitivamente il già mal conciliato tempo di lavoro e il tempo libero, creando così le condizioni di un conflitto permanente tra la personalità dell’individuo e la sua quotidiana esperienza di vita all’interno della comunità.
Il sociologo americano R. Sennet già quindici anni fa rilevava nel lavoratore precario (in Italia il 46,7 per cento delle persone tra i 15 e i 24 anni che lavorano ha un impiego temporaneo) una progressiva corrosione del carattere, le cui caratteristiche di stabilità sono in contrasto con la dinamicità, la frammentarietà e la mutevolezza del capitalismo flessibile. Stando così le cose, il liberismo conservatore americano, come dimostra Sennet, è caduto «in una profonda contraddizione: lo stesso libero mercato che esso propugna ha finito col minare profondamente il carattere morale individuale, la cui esaltazione è un elemento imprescindibile del pensiero conservatore e liberista».
Ma i costruttori dell’impero economico non sembrano preoccuparsene, come informa Korten. Eppure la democrazia è nata in Europa e negli Usa come “democrazia del lavoro“, cioè del lavoro salariato; se questo viene meno si rompe l’alleanza storica tra capitalismo, stato sociale e democrazia e viene meno anche un certo modo di percepire il mondo così come fino all’altro ieri eravamo abituati. Infatti, è già nata - l’abbiamo vista - una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana e in questa interpretazione la religione, qualunque sia, gioca un ruolo determinante, perché essa possiede la straordinaria capacità di mettere a nudo le disfunzioni della società, senza avere l’onere di realizzare con concretezza il rimedio.
Le condizioni per molti versi sono favorevoli ai ministri del culto di ciascuna fede, perché il crollo del muro di Berlino - e con esso quello delle ideologie - ha prodotto in vent’anni una frammentazione senza precedenti tra imperi-Stato, nazioni-Stato, nazionalità, così come risulta evidente dall’Atlante del XXI secolo formato da centinaia di frammenti alla deriva sospettosi nei confronti dell’America perché «è un grosso cane amichevole in una stanza troppo piccola.
Ogni volta che scodinzola, fa cadere una sedia», come scriveva Arnold Toynbee, (Il mondo e l'occidente 1953), scatenando non poche polemiche. Egli credeva che per le civiltà valga un meccanismo di “sfida e di risposta”, poiché una civiltà nasce quando un gruppo umano è in grado di rispondere ad una sfida che gli viene posta dall’ambiente naturale o sociale e muore quando la civiltà non riesce più a rispondere vittoriosamente alle sfide che incontra. Toynbee riteneva possibile l’incontro e lo scontro, l’intrecciarsi di una pluralità di civiltà. Egli era per molti versi un ottimista, come oggi potrebbe apparire Aung San Suu Kyi quando parla di ricerca di un nuovo equilibrio del mondo.
Dopotutto, per spingersi verso “modelli economici più consapevoli” è indispensabile favorire il dialogo, la conoscenza, fare in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che va riscoperto e sostenuto. Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali, e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stato, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili. Dopotutto anche noi europei abbiamo bisogno di ricompattarci per non soggiacere all’ideologia e con essa agli interessi dei banchieri e della superpotenza imperiale.
Infatti, l’esaltazione del consumismo senza il quale non ci sarebbe qualità di vita, ha prodotto l’atomizzazione degli interessi, delle culture, l’allontanamento nei fatti di ogni etica, ha stemperato il desiderio di aggregazione. Molto, anzi moltissimo, vi contribuisce quell’arma di distrazione di massa che è la televisione, la quale tutto traduce in tragedia del mero presente, del nudo accadimento, senza offrire un minimo spunto di approfondimento che non sia strumentalizzato, distorto dai grandi gruppi di interesse e dai grandi ricchi che ne fanno parte.
Se poi si tiene a mente l’avvertimento di Neil Postman, secondo il quale «la televisione è un mezzo individualizzante. La si sperimenta e si reagisce ad essa, in un isolamento dagli altri che è tanto psicologico quanto fisico», meglio si capisce come essa possa incidere più di chiunque altro sulle interpretazioni dei valori, stravolgendoli. La tolleranza, per esempio, che ora viene ritenuta una debolezza nell’incontro con l’altro, poiché - si sostiene - si può tollerare soltanto ciò che “non” si reputa vero. Dimenticando che, come insegna Pico della Mirandola, la tolleranza è interconnessa all’amore. Che è l’unico sentimento che può garantire nel confronto con l’altro quell’armonia che il mistico Mullah Shah Badakhshi raffigurava con un’immagine tenera: «Tu eri me ed io non lo sapevo», disse ai suoi allievi nel giardino di quel tempietto appena fuori Lahore, mille e seicento e passa anni dopo Cristo, in piena èra Moghul.