di Mario Braconi

Agli Anonymous tedeschi, come a milioni di loro concittadini, i neonazisti non vanno proprio giù: sin dallo scorso maggio, con l’abituale videocomunicato su YouTube, la “filiale” tedesca del collettivo hacker ha lanciato la cosiddetta Operazione Blitzkrieg (“guerra lampo”) contro siti legati dell’estrema destra. Il video messaggio contiene un’interessante riflessione sul tema della libertà di parola e dei suoi limiti.

E’ innegabile il paradosso delle organizzazioni neonaziste che continuano a predicare odio e a fare proseliti facendo leva proprio sulle libertà che essi temono e disprezzano. “Voi neonazisti intimidite le persone che scendono nelle strade lottando per i loro ideali ed attaccate i vostri avversari politici negando loro il diritto alla libertà di parola” dice la voce distorta del clip di Anonymous di maggio. Eppure - continua - ipocritamente pretendete questo stesso diritto di libertà di parola per voi stessi [...]. Attaccate i giornalisti e i media in generale, attaccate membri delle fazioni opposte e allo stesso modo attaccate rifugiati ed immigrati”.

Un passaggio importante, dal punto di vista del metodo: se i cybercittadini sono liberi di approfittare del potere della Rete per diffondere i loro esecrabili messaggi di odio e violenza, al riparo della legge, secondo gli hacktivisti rivelare i nomi dei militanti neonazisti, più che una violazione della privacy, è un atto di giustizia. Le azioni promesse nel messaggio di maggio non si sono fatte attendere: nel giro di poche ore, un gruppo denominato No Name Crew (ciurma senza nome) è riuscito “buttare giù” ben 25 server locali del NPD (partito nazional-democratico tedesco), portandosi via una gran messe di dati personali di iscritti e simpatizzanti. A dispetto dell’aggettivo “democratico” contenuto nella sua denominazione, lo NPD è realtà un partito neonazista, che si sospetta abbia avuto legami con la Nationalsozialistischer Untergrund (NSU), una cellula terrorista neonazista che, in sette anni, ha ucciso nove immigrati e una poliziotta, rendendosi anche responsabile di un attentato dinamitardo nel quale sono rimaste ferite una ventina di persone.

E’ nello spirito di opposizione civile al veleno neonazista, e come “risposta” alla strage messa a segno dal “camerata” Breivik che, nel pomeriggio del 4 novembre, i militanti della fazione finlandese di Anonymous hanno violato il sito del movimento neonazista Kansallinen Vastarinta (resistenza nazionale) riuscendo a portarsi via ben 16.000 nominativi, immediatamente pubblicati in Rete con tutti i dettagli personali e l’indirizzo. Come spiega Mikko Hyppöneni, capo della ricerca della società di sicurezza informatica finlandese F-Secure, per ottenere dati tanto precisi l’utente internet dal nome “anomuumi” deve essersi messo a rovistare nei principali database del paese, quelli del Work Efficiency Institute, dell’Alleanza Studentesca Osku e di un paio di centri di formazione.

Anche in quel caso, le azioni illegali di Anonymous vanno interpretate come un fattivo contributo ad un mondo migliore. In fondo, l’obiettivo degli hacker era, dichiaratamente, dimostrare che la candida neve finlandese celi in realtà “una pozza di fango maleodorante che la sta rendendo ogni giorno sempre meno bianca”. Peccato però che non sia stato finora possibile identificare in modo chiaro e inequivocabile l’esistenza di una relazione tra le migliaia di persone messe alla gogna e i movimenti neonazisti. Per questo, occorre fare uno sforzo in più, ovvero fidarsi ciecamente di quello che dichiarano gli hacker di Anonymous.

Paradosso, dunque: anche gli antiautoritari di Anonymous sembrano chiedere ai loro sostenitori un esercizio che a occhio sembra contrario ai loro stessi principi (democrazia diretta, nessuna intermediazione eccetera). Senza contare che, sempre secondo Hypponeni, i dati personali pubblicati, siano o meno di teppaglia nera, costituiscono una miniera d’oro per i criminali in vena di furti di identità digitali.

Il 2 gennaio 2012 comincia con la seconda puntata dell’Operazione Guerra Lampo (BlitzkriegOp# è il thread da seguire su Twitter): in poche ore vengono messi fuori uso una quindicina di siti locali della NPD, la piattaforma Altermedia, covo di estremisti neri (compresi quelli britannici), il sito giornalistico di estrema destra Junge Freiheit (Giovane Libertà). Anche in questo caso, sono state rubate grandi quantità di dati personali di collaboratori, simpatizzanti, iscritti e perfino liste di clienti di boutique virtuali specializzate in capi di stile nazista classico (uniformi) o più adatti al moderno teppista di destra (ad esempio quelli firmati da Thor Steinar, che a suo tempo lanciò un discusso brand che aveva come logo le sue iniziali scritte con le corrispondenti rune).

La tecnica di Anonymous è quella nota: svergognare i neonazisti e mettere in allerta le possibili vittime. Questa volta, però, gli hacker vogliono fare le cose per bene, trasformando le loro boutade episodiche in un vero e proprio progetto di caccia al nazista: presso un apposito sito dal nome nazi-leaks (attualmente ospitato da una serie di mirror in tutta Europa) viene riportata una lista di nominativi, e-mail, basi dati clienti, account e password contenuti nei siti in odore di neonazismo. Secondo l’edizione in inglese di Der Spiegel, la conferenza della Chaos Computer Club, tenutasi quest’anno tra il 27 e il 30 dicembre scorso, è l’occasione per molti dei 3.000 hacker che vi prendono parte, per fare un po’ di esercizio: stoppando ad esempio qualche sito di estremisti di destra. In effetti è sospetta la data di attivazione di nazi-leaks, nato proprio il 27 dicembre.

Secondo Deutsche Welle, non tutti i commentatori sono entusiasti del “name and shame” messo in atto da Anonymous: il sito di informazione tedesco cita Simone Rafael del forum Netz-Gegen-Nazis (Rete Anti antinazista) il quale, pur sentendosi sollevato dal fatto che l’azione di Anonymous ha ripulito un po’ di feccia dalla Rete per qualche giorno, si è detto irritato per la scelta di aver pubblicato il nome degli estremisti. “Se loro avessero fatto la stessa cosa, sarei ugualmente furioso”. Sembra perfino che la sezione di Amburgo del collettivo Anonymous, in una mail alla Deutsche Welle, abbia definito la pubblicazione dei nomi dei neonazisti “una cattiva idea”.

Per mettere le cose nel giusto contesto, però, è opportuno ricordare che, come racconta l’edizione in inglese di Der Spiegel, in un anno e mezzo si contano ben 130 attacchi neonazisti contro rappresentanti della Linke (Sinistra): minacce, vetri rotti, scritte a spray, sabotaggio dei freni dell’auto. Una piccola guerra contro il “nemico” rosso, ma anche contro chi viene percepito come difensore dei diritti degli islamici, degli stranieri, degli omosessuali… Giusto, dunque, interrogarsi su quanto si possano forzare le regole per servire meglio ad un principio etico; ma senza dimenticare che si è di fronte ad un grave rischio di revanche nazista, per la quale la crisi economica costituisce un ottimo combustibile. In fondo, perfino un filosofo liberale come Popper sosteneva che una società aperta ha le sue buone ragioni per essere “intollerante con gli intolleranti”.

di Emanuele Vandac

Si é da poco concluso il ventottesimo congresso del Chaos Communication Club (CCC), un’organizzazione di hacker fondata a Berlino nel lontano 1981 e assurta agli onori della cronaca nel 2008 per aver diffuso, assieme alla sua rivista Die Datenschleuder, un gadget davvero inedito: un foglio di materiale speciale sul quale erano state riprodotte le impronte digitali del ministro degli Interni Wolfgang Schäuble.

Secondo il collettivo CCC, il foglio di plastica con il calco della pelle del polpastrello dell’indice (destro?) del Ministro avrebbe validamente sostituito l’originale di carne ed ossa, ingannando qualsiasi dispositivo per il rilevamento delle impronte digitali: chiunque lo avesse a disposizione, insomma, avrebbe potuto accedere, ad esempio, al laptop di Schäuble, anche se fosse stato protetto con dispositivi di rilevazione dei dati biometrici.

Non è difficile immaginare l’imbarazzo del ministro, la cui impronta, era stata “rubata” senza particolari difficoltà utilizzando come modello quella da lui depositata su un bicchiere d’acqua da cui Schäuble aveva bevuto nel corso di un dibattito pubblico su temi religiosi. Si suppone, inoltre, che la mascalzonata abbia aiutato l’opinione pubblica a riflettere sull’effettiva utilità pratica di determinati deliri securitari (quelli che implicano l’opportunità di raccogliere e conservare dati biometrici, ad esempio) che ci vengono comunemente spacciati come imprescindibili.

Il claim di questa edizione della conferenza del CCC (28C3, per gli addetti ai lavori) è “Behind Enemy Lines”, ovvero “oltre le linee nemiche”: un possibile riferimento all’importanza sempre maggiore che l’etica hacker sta assumendo in tempi dominati dal dissenso e dalla sua repressione più o meno violenta negli stati con il bollino di democrazia come nei regimi totalitari. Notevole il parterre di esperti informatici presenti: tra di essi, lo scrittore, blogger e paladino dell’open source Cory Doctorow, Evgeny Morozov, autore de “L’ingenuità della Rete”, un libro che ricorda come la tecnologia possa essere utile agli oppressori come, se non più, che agli oppressi; e Jacob Appelbaum, esponente di spicco del progetto Tor, che ha scritto un programma studiato per rendere la vita difficile agli spioni online, personaggio eclettico e scenografico, fotografo, artista ed ambientalista.

La presentazione di Karsten Nohl, esperto di sicurezza nel campo della comunicazioni cellulari, invece, ha dimostrato come un qualsiasi hacker minimamente capace possa facilmente prendere il controllo di un qualisiasi cellulare GSM: assieme al collega Luca Melette, ha dimostrato che, con un semplice emulatore di cellulare realizzato con un software gratuito, un estraneo malintenzionato può usare il nostro numero di mobile per chiamare un numero collegato a servizi “a valore aggiunto” con tariffe astronomiche.

In questo modo, mentre il nostro telefonino rimane all’interno della tasca della giacca, qualcuno sta utilizzando il nostro contratto telefonico per consumare servizi che ci frutteranno una bolletta da diverse migliaia di euro… L’anno scorso Karsten si era concentrato su un (noto) difetto nel software di criptaggio usato da diverse compagnie telefoniche, grazie al quale mettersi all’ascolto delle conversazioni altrui è quasi un gioco da ragazzi: bastano un laptop, un apposito programmino (gratuito) ed un cellulare da quattro soldi opportunamente modificato…

Incidentalmente, Nohl ha fatto riferimento ad una nota del Ministero degli Interni della Repubblica Federale tedesca, datata 6 dicembre, con la quale si dà riscontro all’interrogazione di Andrei Hunko, un deputato tedesco del partito della Sinistra, che chiedeva al governo di fare chiarezza sull’impiego da parte delle varie polizie tedesche del metodo dei cosiddetti SMS silenziosi: messaggi di testo che vengono ricevuti dall’apparecchio del destinatario senza lasciare traccia e che consentono di determinare con una certa precisione dove si trovi la persona che porta il cellulare con sé, senza che l’interessato ne sappia nulla, ovviamente.

Il documento ministeriale riepiloga, con teutonica pignoleria, il numero di SMS-spia inviati dalle forze dell’ordine tedesche tra il 2006 e il 2011. Il quadro è preoccupante: nel solo 2010, l’insieme delle forze di polizia tedesche (federale, criminale federale, forze speciali e dogane) ha spedito oltre 440.000 messaggini silenziosi a ignari cittadini. Alla missiva del Ministero degli Interni è allegata una tabella riassuntiva, nella quale sono riscontrabili diverse lacune: alcuni corpi di polizia, ad esempio, non hanno monitorato questo tipo di attività investigativa (presumibilmente illegale), mentre i dati del 2011 non sono comparabili, dal momento che i conteggi si arrestano in date differenti a seconda del corpo di polizia considerato.

In particolare, è interessante notare come le Dogane, che peraltro presentano i dati più completi (anche se fermi al primo semestre del 2011), nel giro di sei anni abbiano triplicato il numero degli SMS silenziosi inviati, mentre nel primo semestre del 2011 ne hanno spediti circa lo stesso numero di quelli che hanno mandato nell’intero 2010.

Già, le dogane germaniche. Un corpo che, oltre ad essere ficcanaso, si muove anche in modo piuttosto goffo. L’8 ottobre scorso il Chaos Computer Club ha pubblicato un report con cui annunciava che, grazie allo zelo di un anonimo attivista, era entrato in possesso di un virus generato dallo stato al fine di sorvegliare i cittadini. La società di sicurezza informatica F-Secure ha scoperto che W32/R2D2.A (o 0zapftis) - questi i nomi con cui è conosciuto il virus informatico - viene installato con un eseguibile di nome scuinst.exe, che sta per Skype Capture Unit Installer.

Si tratta di un software prodotto da una ditta tedesca Digitask, che, a quanto risulta da certi documenti di Wikileaks, ha venduto alle dogane tedesche un certo prodotto per intercettare le comunicazioni via Skype. A riprova di questa tesi, F-Secure mostra sul suo sito copia di una fattura di oltre 2 milioni di euro spiccata da Digitask alla polizia doganale tedesca. Il trojan, presto ribattezzato “federale” (Bundestrojaner), una volta che ha infettato il computer oggetto dell’attacco, è in grado di spiare le comunicazioni via Skype, MSN Messenger e Yahoo Messenger, memorizzare la sequenza dei tasti premuti sulla tastiera (ha infatti un keylogger che si attiva quando si aprono tutti i principali browser), è in grado di registrare le conversazioni Skype e prendere delle “foto” (“screenshot”) di ciò che si vede sullo schermo del computer infettato; inoltre, è stato provato che il software tenta di collegarsi con due indirizzi IP, uno in Germania e uno negli Stati Uniti (!).

Intercettare le comunicazioni generate o ricevute da una persona sospettata di aver commesso gravi reati è legale in Germania: la legge prevede, infatti, la possibilità per la polizia di effettuare Quellen-TKÜ, ovvero “sorveglianza sulle fonti”. A dispetto della legge federale del 2008, che vieta ogni azione dello Stato diretta alla manipolazione del computer dei cittadini, la “sorveglianza delle fonti” può essere legalmente ammessa anche mediante l’installazione di software sul computer della persona soggetta a sorveglianza. In questo contesto è dunque legale l’uso del cosiddetto Bundestrojaner Light, un altro malaware di stato, che consente esclusivamente l’intercettazione di conversazioni veicolate mediante telefonia via internet.

Peccato però che, come ha rivelato l’analisi del software effettuato dal CCC, all’interno del Bundestrojaner Light siano presenti tutti gli “interruttori” per trasformarlo in un vero Bundestrojaner, con tutte le funzionalità illegali che abbiamo riassunto sopra. Il passaggio da strumento legale a strumento illegale è agevole, dato che, come anticipato, il software può essere aggiornato e controllato da remoto. Così come da remoto è possibile accendere microfono e videocamera, trasformando il pc di casa in una cimice alla luce del giorno. Più cavallo di Troia di così…

Lo studio del CCC, inoltre, ha rivelato come l’applicativo sia stato scritto in modo talmente sciatto, approssimativo e con così poco riguardo alla sicurezza, che è davvero facile per qualunque criminale appropriarsene ed utilizzarlo ai suoi fini. Inoltre, poiché il Bundestrojaner può essere usato anche per caricare o cancellare file da remoto, esiste la concreta possibilità che qualcuno costruisca o distrugga evidenze giudiziarie all’insaputa dell’indagato: cosa che peraltro potrebbe essere validamente opposta in un tribunale da qualsiasi avvocato. Dulcis in fundo: i dati raccolti mediante il trojan vengono spediti anche ad un server affittato negli Stati Uniti.

Questo vuol dire che “il controllo di questo malaware è solo in parte all’interno dei confini della giurisdizione della polizia tedesca. Questo strumento potrebbe dunque violare il principio di sovranità nazionale”. Non è infine chiaro che cosa dovrebbero fare i cittadini indagati per vedere rispettate le loro garanzie qualora i dati venissero smarriti in un paese straniero. Insomma, sembra quasi che gli hacker costituiscano l’ultimo baluardo alla democrazia.

di Vincenzo Maddaloni

La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che il 2012 sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Se davvero così fosse, gli americani, i francesi e i russi, prima di ogni altra cosa dovrebbero decidere se avviare la ricerca con gli attuali inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, o se sarebbe più opportuno cambiarli. Molto più difficile lo sarà per i cittadini di un Egitto che non riesce ancora ad intravvedere chi lo governerà, come pure per gli abitanti dei paesi percorsi da quel che rimane delle primavere arabe.

Sicché l’unica cosa certa è che il nuovo anno che è stato giudicato con largo anticipo nero, parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà, e quindi saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive che potrebbero scatenare nuovi e devastanti conflitti.

Perché oggi le contraddizioni sono molto più forti a causa della globalizzazione che vuole azzerare la distanza tra universalismo e localismo, mortificando l’identità. Pertanto, viviamo ormai da tempo, in modo schizofrenico, due livelli di identità: la prima che s’identifica col mondialismo, la seconda che rivendica invece la sua specificità.

Il fondamentalismo prospera su questo conflitto esaltato dall’accanimento multimediale che si limita a riprendere i fatti senza spiegarne con obiettività l’origine. Eppure per schiarirsi le idee, basterebbe rileggersi Gilles Kepel, quando scrive che gli odierni movimenti fondamentalisti sono «per eccellenza figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione; le loro grida e i loro lamenti incitano a ricercarne le origini, a rintracciarne la genealogia inconfessata. Come il movimento operaio di ieri, così i movimenti religiosi odierni hanno la particolare capacità di indicare le disfunzioni della società, che classificano secondo le proprie categorie interpretative».

Naturalmente, a differenza di quanto accadeva prima, i nuovi poveri sono tutti coloro che se ne stanno incolonnati davanti all’ingresso della grande festa consumista, senza potervi entrare. Essi vivono nel continuo e logorante sospetto di non essere all’altezza dei tempi che impongono nuovi standard, nuove regole di vita e di lavoro.

Cosicché il fondamentalismo diventa, accogliendo tra le sue fila gli esclusi, il solo rimedio radicale contro le regole imposte dalla società consumista basate sul libero mercato. Pertanto in un mondo dove tutti i modi di vivere sono consentiti, ma nessuno è garantito, il fondamentalismo riesce ad infondere conforto e certezza poiché esso dice a chi l’abbraccia che cosa fare, anche se il prezzo da pagare è la limitazione delle libertà democratiche.

Certamente nei periodi di crisi come questo che stiamo vivendo, il fondamentalismo è il solo segmento che combatte la mondializzazione in maniera forte, spesso ricorrendo al terrorismo, e scatenando così la repressione più dura, la guerra preventiva. Ragion per cui la tentazione di desumere il futuro del mondo dal presente e dal passato che ci circonda diventa ancora più grande in questo bilancio di fine d’anno.

Il tentativo è di capire se ci attende un anno nero shocking, o un futuro di pacifica coesistenza come auspica la Premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi. Naturalmente la sua è una visione suggestiva che non va respinta, dato che a volte certe previsioni poi finiscono con l’avverarsi. Ragion per cui, nel breve volgere dell’anno che si chiude e del nuovo che si apre, torniamo a scrutare la scala dei valori - fra cui il primato della coscienza, il pluralismo, l’etica della responsabilità - per vedere se sono stati compiuti passi in avanti o all’indietro mentre si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bildelberg club e della Goldmann-Sachs, insomma dei costruttori dell’impero economico.

Quale sarà il futuro comune della coesistenza? Prevarrà la cultura del rispetto dei diritti umani o quella dell’human security con la quale si limiteranno gli spazi democratici e si privilegeranno le leggi coercitive che ben conosciamo? Prevarranno le libertà civili o le leggi di sicurezza, gli imperativi dei sacri testi? Non sembrano delle domande retoriche.

Perché lo squilibro geopolitico che s’è creato con la crisi economica che stravolge l’Occidente, le primavere arabe, le sanzioni e la minaccia d’invasione dell’Iran, l’impiego sempre più diffuso dei droni (i bombardieri senza pilota), lo spread e gli squassi provocati dalle oscillazioni delle monete, hanno riacceso la discussione storica sul senso della vita coinvolgendo la politica, le ideologie, le fedi.

Accade nello scenario dell’economia globale nel quale, «le persone non solo sono sempre meno necessarie, ma le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono una fonte primaria di inefficienza economica. Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stiamo creando un sistema che ha meno posti per le persone», sentenzia David Korten, economista, già professore alla Harvard Business School.

Da questi squilibri nasce un desiderio ansioso di interrogarsi che ha avviato una ricerca profonda sui valori che accomunano gli uomini, sui criteri che li regolano, sui perché le regole tradizionali si scontrano con le nuove con effetti  laceranti, e infine sul senso stesso dell’esistenza. Con una velocità di analisi che non ha precedenti nella storia. Infatti, da quando - vent’anni fa - è implosa l’Unione sovietica, si è avviato il mutamento strutturale dei sistemi economico-produttivi che ha rivoluzionato la natura e la regolazione del lavoro così come rapporti sociali.

Con risultati spesso shockanti perché il capitalismo-postfordista si poggia sul flexible capitalism, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta - l’abbiamo imparato in fretta - per precarietà, in un mondo postindustriale dove da tre lustri a questa parte, non si parla più - secondo il sociologo U. Beck - di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”. Nell'area Ocse a luglio 2011 c'erano ancora 44,5 milioni di senza lavoro, 13,4 milioni in più rispetto al periodo pre-crisi: il che significa, come sostiene Beck, che la società del lavoro diventa sempre più precaria e che parti sempre più grandi delle popolazioni hanno “pseudo-posti di lavoro” sempre più insicuri.

Infatti, sempre secondo David Korten, «il sistema globale sta armonizzando gli standard paese dopo paese verso il minimo comune denominatore. Alcune imprese socialmente responsabili cercano di opporsi alla marea con qualche limitato successo, ma la loro non é una lotta facile. «Non dobbiamo ingannarci - avverte Korten - la responsabilità sociale è “inefficiente” in un mercato libero globale, e il mercato non perdonerà coloro che non approfittano di tutte le opportunità per liberarsi dell’inefficiente».

Insomma, quanto sta accadendo e non ci vuole poi molto per capirlo, provoca nei lavoratori un senso di fallimento - alimentato dall’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide - che mina alle radici la percezione di continuità dell’esistenza e della tradizione, scollega definitivamente il già mal conciliato tempo di lavoro e il tempo libero, creando così le condizioni di un conflitto permanente tra la personalità dell’individuo e la sua quotidiana esperienza di vita all’interno della comunità.

Il sociologo americano R. Sennet già quindici anni fa rilevava nel lavoratore precario (in Italia il 46,7 per cento delle persone tra i 15 e i 24 anni che lavorano ha un impiego temporaneo) una progressiva corrosione del carattere, le cui caratteristiche di stabilità sono in contrasto con la dinamicità, la frammentarietà e la mutevolezza del capitalismo flessibile. Stando così le cose, il liberismo conservatore americano, come dimostra Sennet, è caduto «in una profonda contraddizione: lo stesso libero mercato che esso propugna ha finito col minare profondamente il carattere morale individuale, la cui esaltazione è un elemento imprescindibile del pensiero conservatore e liberista».

Ma i costruttori dell’impero economico non sembrano preoccuparsene, come informa Korten. Eppure la democrazia è nata in Europa e negli Usa come “democrazia del lavoro“, cioè del lavoro salariato; se questo viene meno si rompe l’alleanza storica tra  capitalismo, stato sociale e democrazia e viene meno anche un certo modo di percepire il mondo così come fino all’altro ieri eravamo abituati. Infatti, è già nata - l’abbiamo vista - una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana e in questa interpretazione la religione, qualunque sia, gioca un ruolo determinante, perché essa possiede la straordinaria capacità di mettere a nudo le disfunzioni della società, senza avere  l’onere di realizzare con concretezza il rimedio.

Le condizioni per molti versi sono favorevoli ai ministri del culto di ciascuna fede, perché il crollo del muro di Berlino - e con esso quello delle ideologie - ha prodotto in vent’anni una frammentazione senza precedenti tra imperi-Stato, nazioni-Stato, nazionalità, così come risulta evidente dall’Atlante del XXI secolo formato da centinaia di frammenti alla deriva sospettosi nei confronti dell’America perché «è un grosso cane amichevole in una stanza troppo piccola.

Ogni volta che scodinzola, fa cadere una sedia», come scriveva Arnold Toynbee, (Il mondo e l'occidente 1953), scatenando non poche polemiche. Egli credeva che per le civiltà valga un meccanismo di “sfida e di risposta”, poiché una civiltà nasce quando un gruppo umano è in grado di rispondere ad una sfida che gli viene posta dall’ambiente naturale o sociale e muore quando la civiltà non riesce più a rispondere vittoriosamente alle sfide che incontra. Toynbee riteneva possibile l’incontro e lo scontro, l’intrecciarsi di una pluralità di civiltà. Egli era per molti versi un ottimista, come oggi potrebbe apparire Aung San Suu Kyi quando parla di ricerca di un nuovo equilibrio del mondo.

Dopotutto, per spingersi verso “modelli economici più consapevoli” è indispensabile favorire il dialogo, la conoscenza, fare in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che va riscoperto e sostenuto. Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali, e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stato, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili. Dopotutto anche noi europei abbiamo bisogno di ricompattarci per non soggiacere all’ideologia e con essa agli interessi dei banchieri e della superpotenza imperiale.

Infatti, l’esaltazione del consumismo senza il quale non ci sarebbe qualità di vita, ha prodotto l’atomizzazione degli interessi, delle culture, l’allontanamento nei fatti di ogni etica, ha stemperato il desiderio di aggregazione. Molto, anzi moltissimo, vi contribuisce quell’arma di distrazione di massa che è la televisione, la quale tutto traduce in tragedia del mero presente, del nudo accadimento, senza offrire un minimo spunto di approfondimento che non sia strumentalizzato, distorto dai grandi gruppi di interesse e dai grandi ricchi che ne fanno parte.

Se poi si tiene a mente l’avvertimento di Neil Postman, secondo il quale «la televisione è un mezzo individualizzante. La si sperimenta e si reagisce ad essa, in un isolamento dagli altri che è tanto psicologico quanto fisico», meglio si capisce come essa possa incidere più di chiunque altro sulle interpretazioni dei valori, stravolgendoli. La tolleranza, per esempio, che ora viene ritenuta una debolezza nell’incontro con l’altro, poiché - si sostiene - si può tollerare soltanto ciò che “non” si reputa vero. Dimenticando che, come insegna Pico della Mirandola, la tolleranza è interconnessa all’amore. Che è l’unico sentimento che può garantire nel confronto con l’altro quell’armonia che il mistico Mullah Shah Badakhshi raffigurava con un’immagine tenera: «Tu eri me ed io non lo sapevo», disse ai suoi allievi nel giardino di quel tempietto appena fuori Lahore, mille e seicento e passa anni dopo Cristo, in piena èra Moghul.

 

 

di Mario Braconi

Sembra proprio che non si arrestino le clamorose azioni di Anonymous, il gruppo anarchico contraddistinto dalla maschera di Guy Fawkes resa celebre dal fumetto e dal film V for Vendetta. I cosiddetti Anonimi sono famosi per imbarcarsi in operazioni la cui totale illegalità è bilanciata dai principi morali che le animano. Pur riconoscendo, infatti, che il metodo è illegale, si fa davvero fatica a non parteggiare per gli hacker del collettivo senza nome quando, ad esempio, svergognano lo zelo maniacale con cui Tom Cruise parla di Scientology (nemico dichiarato di Anonymous), diffondendo un filmato, destinato ad uso interno, che ritrae l’attore in una accalorata apologia della sua setta.

O quando hanno prodotto danni consistenti a Mastercard e PayPal, attaccando e mettendo fuori uso i loro siti quando i loro dirigenti abbandonano Julian Assange al suo destino, per il timore di incorrere nelle ire del governo americano. O quando hanno messo ko un provider underground noto per il suo atteggiamento per così dire molto aperto nei confronti dei suoi utenti pedofili, che ha sostenuto in modo inequivocabile fornendo loro banda e anonimato.

Uno dei casi più interessanti è quello che ha avuto ad oggetto la HBGary, società di sicurezza informatica (si noti l’ironia!) che lo scorso febbraio stava per vendere alla FBI, con la quale collaborava, un organigramma di Anonymous, completo dei dati personali dei suoi membri coinvolti nel cyber-attacco a Mastercard e PayPal. Non l’avesse mai fatto: il 5 febbraio gli Anon, così si fanno anche chiamare i membri del gruppo anarchico, si sono impossessati del sito della società, rubando tra l’altro oltre 60.000 email aziendali, e forse perfino distruggendo i suoi file di back-up. Un tassello chiave dell’operazione è stato il furto delle credenziali della posta elettronica privata di Aaron Barr, amministratore delegato della società: in questo modo uno degli anonimi, fingendosi Barr, ha scritto all’amministratore di sistema sostenendo di trovarsi in Europa e di aver bisogno di resettare le password del rootkit (ovvero del profilo più elevato nella gerarchia del sistema).

L’ignaro (e vien da dire alquanto superficiale) amministratore del server, lo ha fatto senza indugio, di fatto consegnando agli hacktivisti le chiavi del regno della HBGary. E dire che l’administrator gabbato dagli Anon non è proprio un pivellino, visto che è Jussi Jaakonahosu, capo della sicurezza informatica della filiale USA della Nokia. Altre azioni di Anonymous, comunque, sono meno condivisibili, come la pubblicazione di una grandissima mole di dati personali di membri delle polizie di diversi stati americani pescati da oltre settantacinque siti di uffici di sceriffi, tutti clienti della stessa società di web hosting: anche perché si tratta di un vero atto di ritorsione per l’arresto, da parte delle polizie americane e britanniche, di una cinquantina di membri del collettivo, probabilmente coinvolti nei “denial of service” ai gestori di carte di credito.

Una libera aggregazione di persone che, per sua stessa ammissione, non ha leader e non si riconosce nemmeno nella definizione di “gruppo”, quanto piuttosto in quella di “idea” incarnata, non può dimostrare solidità granitica. Qualche prima avvisaglia di una certa diversità di intenti all’interno del collettivo si era già vista in occasione della cosiddetta operazione Facebook, con la quale si minacciava di attaccare il social network il 5 novembre (Guy Fawkes’ night, anniversario della Congiura delle Polveri, 1605). La notizia, annunciata con sospetto anticipo, il 16 giugno, era stata in generale accolta con molto scetticismo, anche perché, secondo gli esperti che seguono le gesta degli Anon, pur essendo il trattamento dei dati personali da parte del social network altamente discutibile, non sembra esistere al momento nel collettivo un atteggiamento maggioritario favorevole all’affondamento di Facebook.

Ma a Natale è accaduto qualcosa di ancora più grave: un nuovo attacco devastante informatico che ufficialmente porta la firma di Anonymous, il cui obiettivo è la società di consulenza Stratfor (Strategic Forecast) autore di un briefing quotidiano di intelligence. E due comunicati stampa, uno che celebra le gesta degli Anonimi, e uno che prende le distanze dall’operazione. I clienti della Stratfor non sono proprio cittadini qualunque, se è vero che, come risulta da una fonte (anonima!) su pastebin, tra i 500 nominativi pubblicati (fino alla notte del 24 dicembre una lista riservata) figurano, oltre all’Aviazione Militare americana, il Dipartimento di Polizia di Miami e l’immancabile Apple, Goldman Sachs (per ben dieci volte: dieci dipendenti?), la Rockefeller Foundation ed il colosso dei derivati MF Global, attualmente in bancarotta.

I burloni della Anonymous sostengono inoltre di aver saccheggiato circa 4.000 numeri di carta di credito dei clienti di quella che è stata definita una specie di CIA - ombra, che dovrebbero essere utilizzati per fare un milione di dollari in donazioni ad enti benefici, primo tra tutti quello che sostiene Bradley Manning, il militare che rischia l’ergastolo per altro tradimento, in quanto sospettato di essere “La” fonte confidenziale di Wikileaks. Al di là del drammatico danno di immagine, causato alla società di consulenza (si sa che la segretezza è un elemento essenziale per fare buoni affari) ciò che preoccupa veramente la Stratfor e suoi clienti sono le informazioni, presumibilmente riservate e potenzialmente imbarazzanti, nascoste in quei 200 gigabytes di corrispondenza che Anonymous sostiene di aver rubato dai server della società.

Tutto chiaro, dunque? Neanche un po’. Come ricorda PC Magazine USA, esiste un secondo comunicato stampa di Anonymous, anche esso “postato” su Pastebin (un repository online dove si può salvare testo per un certo periodo di tempo) di segno totalmente opposto.

Firmato dalla cosiddetta “fazione ufficiale” di Anonymous, esso attacca frontalmente l’Anonimo che fa capo all’account Twitter The Real Sabu (probabilmente un britannico): “Stratfor è stata volutamente rappresentata in modo distorto da questi cosiddetti Anon e ritratto sotto una luce negativa come una realtà che svolge attività simili a quelle di HBGary. Sabu e i suoi sono solo gente vogliosa di attenzione se non proprio agenti provocatori. Poiché Stratfor è un media, il suo lavoro è protetto dal principio della libertà di stampa, un valore che Anonymous tiene nella massima considerazione. E, per giustificare la sua posizione, l’Anonimo cita un pezzo apparentemente pubblicato sul Time e basato su due newsletter di Stratfor (Global Intelligence Report, Red Alert) del 5 e del 6 gennaio 1999, secondo cui gli attacchi USA all’Iraq sarebbero stati un modo per mascherare il fallimento di un colpo di stato ordito dagli Stati Uniti ai danni del regime di Saddam Hussein".

A dire il vero, anche questo comunicato stampa non sembra del tutto credibile e, francamente, suona quanto meno curioso vedere come un sedicente rappresentante di Anonymous prendere le difese di un soggetto che, pur realizzando un tipo di informazione “assolutamente imparziale”, sembra in ottimi rapporti con grandi banche e istituzioni che rappresentano in modo quasi paradigmatico lo status quo cui Anonymous si oppone. Purtroppo, questa incertezza è il prezzo da pagare quando si bazzica il mondo underground di Anonymous, dove la segretezza è strumento del mestiere. E poi, si sa, gli anarchici rispondono solo a se stessi: è questo il loro bello, ma è sempre stato anche il loro limite. Viene quasi la nostalgia perfino di quello sporcaccione di Assange.

di Mario Braconi

Dalla sua comparsa, nel 1996, il ceppo d’influenza aviaria H5N1 ha ucciso centinaia di milioni di uccelli. Per quanto riguarda la trasmissione del virus all’uomo, le statistiche sono piuttosto preoccupanti: da un lato, stando ai dati della OMS, dal 2003 sono state contagiate meno di seicento persone, e tutte con una storia clinica di contatto diretto con degli uccelli malati. Dall’altro, però, dei 573 infettati, ben 336 sono deceduti, il che significa un tasso mortalità di più attorno al 60%. La pandemia di Spagnola del 1918, per dire, che pure aveva un tasso di mortalità cinquanta volte inferiore, si portò via una decina di milioni di uomini, donne e bambini.

Insomma, la H5N1, fortunatamente non è facilmente trasmissibile dagli animali all’uomo ma, se ciò accade, può diventare maledettamente pericolosa: il limite vero alla sua diffusione pandemica è la difficoltà del virus a diffondersi tramite le goccioline d’acqua presenti nell’aria.

Se lo H5N1 dovesse improvvisamente essere in grado di trasmettersi da uomo a uomo con uno starnuto o una stretta di mano, la sopravvivenza del genere umano sarebbe seriamente a rischio. E proprio per scoprire come ci si dovrebbe comportare nel caso che questo evento malaugurato dovesse verificarsi, si sono attivati The National Institutes of Health, organismo finanziato dal Congresso degli Stati Uniti e dedito per statuto alla ricerca finalizzata al “miglioramento della salute”.

Ed è così che, in una location lontana dagli Stati Uniti, più precisamente in un laboratorio collocato nei sotterranei dell’Erasmus Medical Centre di Rotterdam, il professor Ron Fouchier, operando cinque mutazioni su due dei geni principali del virus, ha riprodotto in laboratorio una variante di H5N1 in grado di diffondersi tra gli umani (a farne le spese, almeno per ora, un manipolo di furetti, cavie sacrificate sull’altare della scienza o, se si preferisce, dell’arroganza umana). Come hanno ammesso candidamente i membri di un secondo team di ricercatori che hanno svolto simili esperimenti a Tokyo e nel Wisconsin, creare una variante di H5N1 in grado di trasmettersi con grande facilità da un furetto all’altro è stato “sorprendentemente facile”.

Non che il pericolosissimo esperimento non avesse senso. Secondo Fouchier, la realizzazione in vitro della mostruosa arma di distruzione di massa è di grande utilità, in quanto in caso di epidemia nella popolazione umana consente agli scienziati di “capire quale mutazione analizzare per bloccarla prima che sia troppo tardi. Cosa che faciliterebbe lo sviluppo di vaccini e terapie”.

Tuttavia si potrebbe discutere a lungo dell’opportunità di condurre simili esperimenti, potenzialmente devastanti, in un centro medico che consente sì la conservazione del virus mutato in relativa sicurezza, ma che non è protetto da guardie armate. Una vera manna per qualche Dottor Stranamore degli anni Duemila, o per qualche altro terrorista senza stato, desideroso di sfogare sull’umanità le sue nevrosi ossessive.

Del resto, l’Indipendent, che riporta il caso con dovizia di particolari e numerosi commenti anonimi di addetti ai lavori, racconta come già nel 1977 si sia verificata una sottrazione indebita di un virus da laboratorio, che causò effettivamente un’epidemia. Con un pizzico di malizia, si potrebbe anche aggiungere che, in fondo, le conseguenze di un eventuale incidente o sabotaggio danneggerebbero, almeno inizialmente, principalmente i cittadini europei.

A queste notizie inquietanti si è aggiunto un paio di giorni fa un interessante corollario: poiché i risultati della ricerca sono considerati pericolosi per la sicurezza, è probabile che essi non verranno pubblicati per esteso, come almeno inizialmente sembrava sarebbe accaduto. Attualmente lo US National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB) sta conducendo una revisione dello studio: saranno in sostanza gli Stati Uniti a decidere quanta e quale parte di scienza potrà diventare patrimonio di altri scienziati e quindi dell’umanità.

La BBC ha sentito sull’argomento due scienziati: John Oxford professore di Virologia della London Medical School e Wendy Barclay dell’Imperial College di Londra. Entrambi sono contrari alla censura sulla scienza. “La vera minaccia è costituita dal virus stesso”, sostiene infatti il primo, mentre la seconda sottolinea che “si vogliono nascondere importanti informazioni scientifiche che altri ricercatori devono conoscere approfonditamente e che devono essere analizzate da tutti coloro che lavorano nel campo”.

Difficile non coincidere con le tesi dei due studiosi britannici, ma è altrettanto difficile cogliere nella scelta della Casa Bianca un semplice dettato di prudenza: sembra piuttosto emergere, dall’atteggiamento statunitense, l’intenzione di non divulgare alla comunità scientifica quello che si ritiene essere - e non c’è dubbio che lo sia - un elemento di grande vantaggio nella dotazione del loro arsenale batteriologico. La partita si gioca sulla possibile ricerca dell’antitodo e averne, unici, la possibilità di svilupparlo, risponde pienamente alla logica di un paese che unisce vocazione imperiale verso l’estero con isolazionismo e protezionismo verso l’interno. Una scelta di predominio scientifico a scopo militare che non ha nulla a che vedere con la sicurezza globale per la quale si dicono impegnati.

Un riflesso condizionato, quello USA, che potrebbe rivelarsi inutile, prima che sbagliato. Non occorrono certo terroristi per diffondere un virus che può fare il giro del mondo anche solo grazie ai flussi migratori degli uccelli (lo dice anche uno sciocco film di fiction come Contagion di Steven Sodebergh); e soprattutto che un’arma biologica di questo tipo è talmente pericolosa che non può essere utile in alcun conflitto: in una cosa, infatti, i virus sono migliori degli uomini: ignorano i confini. Anche quelli degli USA.

 


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