di Mario Braconi

Come noto, negli USA, le due proposte di legge contro la pirateria digitale in discussione al Senato e alla Camera dei Rappresentanti hanno dato vita ad una mezza rivoluzione: sembra ormai chiaro che alla grande maggioranza dei cittadini americani l’idea di far gestire la propria libertà di espressione e di parola alle major dell’intrattenimento proprio non vada giù. Se negli USA dovesse essere approvata una legge del tenore di SOPA o PIPA, infatti, un provvedimento dell’autorità giudiziaria richiesto dalla parte presumibilmente lesa potrebbe portare in pochissimi giorni alla chiusura dei siti sospettati di consentire la fruizione illegale di materiale coperto da copyright.

Non solo: secondo alcuni commentatori americani, verrebbe rovesciato il modus operandi  dell’attuale legislazione in materia (il Digital Millenium Copyright Act, o DMCA). Il DMCA garantisce all’internet provider la possibilità di non incorrere nei rigori della legge qualora accetti volontariamente di rimuovere i contenuti di cui viene contestata dal proprietario la legittimità di fruizione (questa scappatoia si chiama “safe harbor”, ovvero porto sicuro... dai guai giudiziari).

Secondo gli oppositori dei progetti paralleli di legge, invece, l’obiettivo è quello di rovesciare su chi gestisce il sito l’onere della vigilanza sui contenuti; non sarebbe insomma sufficiente ottemperare celermente alla richiesta di ristoro da parte un presunto danneggiato. Per non rischiare guai legali seri, occorrerebbe controllare che ogni singolo contenuto caricato dagli utenti non violi le leggi sul diritto d’autore. Una follia che, infatti, è riuscita a mettere assieme un fronte di oppositori smisurato ed estremamente eterogeneo, che va dagli hacker anarchici ad una coalizione di big corporation internet, tra cui Google, Facebook, Twitter, Mozilla ed Ebay)...

Grazie all’aumento di consapevolezza collettiva guadagnato grazie al tam-tam su internet (la stampa, per ragioni di conflitto d’interesse, si è tenuta generalmente a distanza da questa storia giornalistica) tutti i politici americani che in qualche modo hanno sostenuto o espresso simpatia per le norme liberticide contenute in SOPA e PIPA sono diventati rapidamente oggetto di pubblica esecrazione.

Non mancano i contributi creativi, come ad esempio l’applicazione per iPhone che, attraverso la lettura del codice a barre dei prodotti che stiamo per comprare ci avvisa se stiamo o meno dando soldi ad un sostenitore della censura di stato su internet. Né quelli militanti, come lo “sciopero” messo in atto lo scorso 18 gennaio da Wikipedia in lingua inglese e Reddit, assieme ad alte centinaia di siti meno noti ma molto frequentati.

Le corporation che dettano legge alla Casa Bianca sono scatenate: non solo vorrebbero incatenare l’intero popolo americano, ma in qualche modo stanno costringendo i diplomatici americani a ricattare in ogni possibile modo anche i governi stranieri percepiti come meno interessati alla repressione della violazione dei diritti d’autore del materiale made in USA.

Dopo le lamentele e le minacce di ritorsioni dell’ambasciatore americano (di cui abbiamo avuto notizia grazie a Wikileaks), il nuovo esecutivo spagnolo ha deciso di compiacere lo zio Tom approvando la cosiddetta legge Sinda. Così la Spagna è finita nel club dei paesi che la Electronic Frontier Foundation definisce “dei punti di strangolamento globali” della Rete.

Il governo italiano, che non si fa fatica a definire espressione pura del padronato (banche, finanze, corporation), non poteva essere da meno. Giovedì 19 gennaio è stato approvato dalla XIV Commissione Permanente per le Politiche dell’Unione europea alla Camera l’emendamento dell’On. Fava alla proposta di legge Centemero (ed altri) “in materia di responsabilità e di obblighi dei prestatori di servizi della società dell'informazione e per il contrasto delle violazioni dei diritti di proprietà industriale operate mediante la rete internet”.

Curioso, per inciso, constatare come la Lega, partito di estrema destra populista, in questo caso abbandoni il suo antiamericanismo, abbracciando la lucida follia che anima i politici americani che hanno concepito SOPA e PIPA. Forse l’idea di poter intervenire direttamente a castigare un sospetto “pirata digitale” senza perdere tempo a capire con un processo se sia colpevole o meno deve avere eccitato il peone Fava fino a confonderlo.

Sia come sia, grazie al suo prezioso emendamento, concepito in puro stile SOPA, quando un qualsiasi “soggetto interessato” dichiari che un dato contenuto in Rete viola il suo diritto d’autore, al provider conviene rimuoverlo alla svelta: se infatti non lo facesse potrebbe anche essere considerato complice del violatore, al pari dell'inserzionista che faccia pubblicità sul sito che, secondo un “soggetto interessato”, non un giudice, ripetiamo, starebbe violando la legge sul copyright.

Come spiega l’avvocato Guido Scorza, siamo di fronte al tentativo di “privatizzazione della giustizia che affida la libertà di manifestazione del pensiero sul web all’assoluta discrezionalità di soggetti privati: il segnalante, libero di chiedere la rimozione di ogni contenuto “sgradito” e il provider, obbligato ad assecondare la richiesta o ad assumersi in prima persona la responsabilità della eventuale effettiva illegittimità di un contenuto che non ha prodotto, non conosce, non può valutare”.

L'emendamento Fava, come del resto i parenti americani che l'hanno ispirato, è una delle più chiare dimostrazioni dell'aperto fastidio che il mondo degli affari oggi sembra provare nei confronti delle garanzie normalmente offerte dai sistemi giudiziari ai presunti colpevoli; le quali vengono a quanto pare, negli USA e ora anche in Italia, sono considerate un fastidioso impaccio per l'agenda dei “manovratori”.

Come è accaduto in Spagna per la legge Sinda, anche l’emendamento Fava è la conseguenza di pressioni diplomatiche da oltre Oceano. Che l’interessato, che in questi giorni “casualmente” sta incontrando negli USA diversi politici sostenitori di PIPA e SOPA, non fa nemmeno il tentativo di nascondere. Ha dichiarato al Corriere della Sera che “qui negli Usa mi hanno chiaramente detto che se non regoliamo il settore, i dazi commerciali rimarranno altissimi”.

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