di Mario Braconi

Come noto, lo scorso 19 febbraio il Federal Bureau of Investigation ha chiuso il Megaupload e spiccato una serie di ordini di cattura a carico delle figure apicali delle società che controllavano il popolare sito: Finn Batato, Julius Bencko, Sven Echternach, Mathias Ortmann, Andrus Nomm, Bram van der Kolk (detto anche Bramos), oltre naturalmente a Kim Dotcom (conosciuto anche come Kim Schmitz e Kim Tim Jim Vestor), fondatore, ex amministratore delegato e attuale Capo dell’Innovazione del sito oscurato.

Dotcom, Batato, Ortmann e van der Kolk sono stati arrestati dalla polizia di Auckland (Nuova Zelanda), sulla base di un “provisional arrest warrant”, un dispositivo giudiziario utilizzabile quando c'è il rischio che l'imputato fugga, e che comporta la detenzione nel paese terzo fino all'estradizione. Lo scorso giovedì Finn Batato and Bram van der Kolk sono stati rilasciati su cauzione, mentre Andrus Nomm è stato arrestato dalla polizia olandese. Gli altri due uomini sono attualmente ricercati.

Nel corso dell’operazione, la polizia neozelandese ha perquisito una decina tra uffici e abitazioni private, compresa l'ormai leggendaria dimora di Kim Dotcom, stipata di giocattoli costosi che non sfigurerebbero in un video di rapper molto buzzurri: video al plasma fino a 100 pollici, auto di grossa cilindrata (tra cui una Rolls Royce coupé), personalizzate con targhe esilaranti - (MAFIA, HACKER, GUILTY (colpevole) - GOD (Dio), GOOD (buono, o bene), EVIL (cattivo, o male)  -, un elicottero privato, una statua del mostro cinematografico Predator...

L’offensiva lanciata dalla FBI in seno al National Intellectual Property Rights Coordination Center (IPR Center), con il coordinamento dell’Ufficio Immigrazione e delle dogane degli Stati Uniti deve essere stato un vero mal di testa giudiziario: basti pensare che la società accusata ha sede ad Hong Kong, alcuni degli  imputati vivono in Nuova Zelanda (anche se hanno nazionalità tedesca e slovacca, e residenze, spesso doppie, oltre che in Germania, ad Hong Kong, in Turchia, in Estonia, e nei Paesi Bassi).

Per dire, Kim Dotcom (per quanto assurdo, questo è il nome del capo di Megaupload) è residente sia ad Hong Kong che in Nuova Zelanda, e ha cittadinanza finlandese e tedesca. Come spiega tronfio il comunicato stampa del Dipartimento di Giustizia del 19 gennaio, gli arresti non sarebbero stati possibili senza i contributi delle polizie e delle autorità giudiziarie neozelandese, hong-kongese, olandese, britannica, tedesca, canadese e filippina. Il tallone d'Achille del colosso è stata infatti la sua infrastruttura tecnologica: Megaupload disponeva infatti di 525 server in Virginia (USA) e di altri 630 in Olanda.

Ma quale reato ha spinto gli zelanti funzionari del Federal Bureau of Investigation a scatenare una caccia grossa tanto complicata e (vedremo) dagli esiti tanto incerti? Si tratta forse di terrorismo internazionale? Che i signori finiti alla sbarra in Nuova Zelanda siano coinvolti nel contrabbando di materiale radioattivo? O si trovino alla testa di una rete di adescatori di bambini? Niente di tutto questo. Secondo le accuse del Bureau, Dotcom e compagni avrebbero messo in piedi una geniale macchina per far soldi violando le leggi del diritto d’autore. A questo punto, forse è meglio fare un passo indietro e spiegare di che cosa si occupasse Megaupload.

Ufficialmente il sito offriva ai suoi clienti un “armadio digitale”, ovvero uno spazio su internet per poter condividere file di grandi dimensioni che non potrebbero essere inviati per e-mail. Ovviamente questa struttura offre la possibilità di caricare (e quindi di condividere illegalmente con altri “soci” del sito) materiale coperto da copyright. L'iscrizione a Megaupload era gratuita, ma, pagando una quota, era possibile rendere magicamente più veloci i download.

All'apice del suo successo Megaupload aveva ben 150 milioni di utenti registrati, 50 milioni di visitatori giornalieri, pari a circa il 4% del traffico internet globale complessivo: numeri difficilmente compatibili con un uso “innocente” da parte di utenti ingenui e ben intezionati, desiderosi, che so, di scambiare con gli amici foto o filmini delle vacanze. Del resto, a quanto risulta all’accusa, Megaupload avrebbe fatto guadagnare illecitamente ai suoi soci ben 175 milioni di dollari tra introiti pubblicitari e quote “vip” (pare che che Dotcom abbia realizzato 42 milioni di dollari nel solo 2010) facendone perdere 500 alle major.

Sarebbe ingenuo pensare che Dotcom e soci siano le verginelle che dietro le sbarre ora fingono di essere (Dotcom, per dire, ha precedenti giudiziari per frode informatica e insider trading): non è certamente esatto sostenere, come fa Dotcom, che essi “non hanno nulla da nascondere”. Tuttavia, di qui a considerarli responsabili di un’associazione criminale dedita ad attività che possono comportare anche venti anni di carcere ce ne passa.

Da un punto di vista etico, i manager di Megaupload “sono diventati multimilionari scroccando le fatiche altrui (proprio come certi magnati della musica e del cinema)” - lo sostiene Paolo Attivissimo, giornalista, blogger nonché infaticabile cacciatore di bufale su internet. Anche se Attivissimo ritiene che la gravità dei capi d'accusa di cui Dotcom e soci sono chiamati a rispondere (tra cui il riciclaggio) li renda impresentabili, al punto che prendere le loro parti sarebbe un autogol per il fronte che si batte per le libertà in Rete.

La cosa curiosa è che diversi artisti in passato non si sono dimostrati ostili a Megaupload, anzi: alcune star del mondo della musica e del cinema, che non potevano ignorare che su Megaupload si scambiava materiale illegale, hanno addirittura prestato il loro volto e la loro voce ad uno spot (tuttora visibile su YouTube) in cui si pubblicizzava il servizio Megaupload, “perché è veloce da morire” e “perché è gratis”... Tra loro Puff Daddy, Kim Kardashian, Snoop Dogg, Chris Brown, Kanye West, Jamie Foxx, Smary J Blidge, Alicia Keys e suo marito, Swizz Beatz, rapper e produttore americano, nonché … amministratore delegato di Megaupload (anche se a suo carico non è stato mossa nessuna accusa, finora: che sia perché è cittadino americano?). Il suddetto video promozionale ovviamente ha fatto infuriare l’Associazione dei Discografici Americani, la RIAA (Recording Industry Association of America), ovviamente convinta che gli artisti sotto contratto delle major siano delle bestie da soma, e che non debbano far pubblicità a nulla, a meno che a loro non convenga.

La cosa divertente è che a suo tempo Megaupload ha realizzato e messo a disposizione delle major uno strumento informatico per individuare e rimuovere i contenuti piratati sul suo sito: ad un certo punto, secondo quanto riportato dal sito Ars Technica, la Time Warner buttava giù circa 2.500 link “illegali” al giorno; dietro l'insistenza della società, Dotcom si sarebbe addirittura spinto a raddoppiare questo numero. Dotcom avrebbe inoltre negoziato con la Universal un accordo relativo alla gestione dei diritti, e si sarebbe fatto parte attiva contro i siti concorrenti di Megaupload che a suo dire avrebbero violato i diritti d'autore: il tutto è provato da una e-mail che lo scaltro manager tedesco-finlandese avrebbe scritto a PayPal, annunciando una prossima azione legale contro di essi.

L'atteggiamento (almeno apparentemente) cooperativo e dialogante di Dotcom con le major, e comunicazioni come quella sopra citata a PayPal renderanno molto difficile provare oltre ogni ragionevole dubbio che alla Megaupload fossero consapevoli di commettere scientemente e reiteratamente dei reati. Certo, sono venuti fuori nei giorni scorsi scambi e-mail e chat tra dipendenti che potrebbero risultare imbarazzanti; ed è anche vero che, per ogni link ufficialmente rimosso ne rimanevano in piedi altre decine, che continuavano a puntare sul materiale illegale. Così come è vero che non esisteva all'interno del sito un motore di ricerca degno di questo nome, perché avrebbe reso le violazioni esplicite; e che la lista dei più “scaricati” era invariabilmente taroccata. Tuttavia, con gli eccellenti avvocati su cui può contare Dotcom, potrebbe non risultare impossibile provare che al più egli sarebbe un ingenuo e/o un pessimo imprenditore...

Al di là della questione giudiziaria e senza innalzare Dotcom al ragno di vittima innocente (perché tale non è) il dato incontrovertibile è che la serrata di Megaupload e gli arresti dei suoi soci arrivano in un momento storico segnato dalla follia delle major, che, pur di proteggere i propri interessi, non hanno esitato a prendere in ostaggio il Congresso americano. Il risultato, come noto, sono le due proposte di legge SOPA e PIPA, che minacciano di limitare drasticamente i diritti digitali di americani e non. Alla levata di scudi generalizzata contro le deliranti proposte di legge, le major rispondono mostrando i muscoli e tentando un'azione di blando terrorismo. Tra i fornitori di servizi simili a Megaupload si respira già un’atmosfera di panico, mentre è tutta da chiarire la ragione per la quale tutti coloro che condividevano materiale legale su Megaupload siano stati privati dei loro beni digitali dalla FBI, che per questa ragione sembra si sia beccata una denuncia da parte del Partito Pirata spagnolo.

Non sembra casuale, poi, la scelta di un operatore i cui manager risiedevano in un piccolo paese come la Nuova Zelanda, con cui gli Stati Uniti possono forse fare la voce grossa senza il timore di gravi conseguenze. Tuttavia sembra che anche questa volta la grande industria USA abbia vagamente sottovalutato il nemico. Al di là della maschera dello spaccone, Dotcom tutto sembra fuorché un nerd sprovveduto che ha fatto (centinaia di) milioni di dollari quasi per caso. C'è da scommettere che le major dovranno soffrire ancora molto prima di cantare vittoria. Se mai ci riusciranno.

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