di Mario Braconi

Sembra che poche cose stiano a cuore al governo degli Stati Uniti quanto gli interessi della sua grande industria nazionale dell’intrattenimento. Come noto, infatti, tanto al Senato che alla Camera dei Rappresentanti sono da mesi in discussione due proposte di legge, rispettivamente il PIPA (Protect IP Act) e SOPA (Stop Online Piracy Act), che rappresentano il risultato di una politica totalmente asservita agli interessi delle corporation americane. Le quali, pur di sostenere un modello di business che fa acqua da tutte le parti, sono pronte a conculcare la libertà di pensiero e di espressione dei cittadini di tutto il mondo, nonché a rendere la Rete meno affidabile e sicura.

Come spiega Adam Dachis sul sito Lifehacker, il legislatore americano vorrebbe consentire alle autorità giudiziarie, su iniziativa della parte presumibilmente lesa, la possibilità di bloccare l’accesso degli utenti ai siti in odore violazione del diritto d’autore. Insomma, a fronte della contestazione promossa da una major, entro 5 giorni gli ISP potrebbero trovarsi obbligati ad impedire l’accesso al sito “incriminato”. Come se non bastasse, la proposta di legge prevede il divieto in capo a inserzionisti ed intermediari finanziari di fare affari con il sito oggetto del provvedimento (il caso Wikileaks, con cui Mastercard e PayPal tagliarono i ponti a seguito delle minacce del Pentagono deve pur aver insegnato qualche cosa).

Nel mondo paradossale che sognano i due promotori dei provvedimenti (Lamar Smith, repubblicano, e Patrick Leahy, democratico) è perfettamente normale, anzi perfino auspicabile passare qualche anno in galera per aver caricato su YouTube un video nel quale, per esempio, si sente una canzone i cui diritti di sfruttamento sono protetti da copyright. Ma l’aspetto più sconcertante è il pieno controllo che la grande industria reclama per sé, la cui ambizione ultima pare essere esautorare di fatto i sistemi giudiziari: sotto molti aspetti la lucida follia che anima tanto SOPA che PIPA tradisce il chiaro fastidio del mondo dell’entertainment per certe quisquilie antiquate come la libertà di espressione, la certezza del diritto, la sovranità nazionale (aggiungeremmo anche il senso del limite e quello del pudore).

Secondo Kirk Sigmon, esperto di diritto del web, se SOPA venisse approvata nella sua forma attuale, il Ministro della Giustizia USA (Attorney General) potrebbe agire nei confronti di tutti i proprietari di siti internet che rifiutino di “confermare formalmente alle autorità che esiste un’alta probabilità che nel loro sito si scambi gratuitamente materiale protetto da diritto d’autore”; ma anche contro chi gestisce siti radicati sul suolo americano il cui obiettivo sia (o sia stato!) “promuovere atti contrari alla legge sul diritto d’autore”. L’Attorney general potrebbe inoltre agire contro siti stranieri, che siano o meno su host negli Stati Uniti.

In poche parole, il ministro della giustizia diventerebbe una mazza da baseball nelle mani di un numero limitato di major: Facebook, YouTube, Twitter dovrebbero controllare ogni singolo elemento che viene caricato dai loro iscritti al fine di incorrere nei rigori della legge. Il tutto senza contare che la questione delle presunte violazioni del diritto d’autore potrebbero diventare un pretesto per far chiudere dei siti di idee politiche non gradite a chi promuove l’azione. Inoltre si verrebbe a creare un clima di “caccia alle streghe” grazie al quale nessuna azienda intratterrebbe rapporti commerciali con un’altra potenzialmente soggetta a censura.

Infine, ogni grande business dell’intrattenimento potrebbe citare in giudizio una qualsiasi start-up innovativa strozzandola in culla con il pretesto che non si è dotata di sistemi sufficientemente accurati per impedire la violazione del copyright. Ennesima declinazione di un modello di business superato e fallimentare, abbarbicato ad un potere corrotto che non esita a menomare la democrazia e ad impedire l’innovazione pur di garantirsi qualche giorno di sopravvivenza in più.

Il governo degli Stati Uniti è pronto davvero a tutto pur di fare gli interessi dei suoi amici delle corporation dell’intrattenimento: anche a fare pressione e a ricattare paesi stranieri. Il quotidiano spagnolo El Pais ha pubblicato il 9 gennaio una lettera riservata datata 12 dicembre, con la quale l’ambasciatore americano a Madrid, Alan Solomont, esprimeva a diversi membri del governo Zapatero la sua “profonda preoccupazione” per la mancata approvazione della legge anti-pirateria spagnola, conosciuta come Ley Sinda; non mancavano nella missiva esplicite minacce di sanzioni commerciali contro il paese “canaglia” che in modo tanto sfrontato continuava a sfidare gli interessi delle major americane non approvando una legge liberticida.

Il dispositivo era in effetti stato approvato a febbraio 2011, ma la sua applicazione era rimasta sospesa in un limbo a causa di ritardi amministrativi non proprio casuali, quanto favoriti dalla vasta e rabbiosa opposizione dei cybernauti iberici. Nessun problema comunque, perché il nuovo governo di centrodestra spagnolo ha approvato la nuova legge il 30 dicembre, non potendo apparentemente resistere alla tentazione di scodinzolare allo zio Tom. Del resto, come contropartita del rigore contro i “pirati” gli Stati Uniti hanno promesso alla Spagna importanti investimenti nel settore dell’intrattenimento online legale e a pagamento, naturalmente made in USA. Il tutto solo per aiutare la colonia spagnola a riprendersi dalla sua profonda crisi economica.

E’ grazie alla provvida approvazione della Ley Sinda che la Spagna è entrata in quella che la Electronic Frontier Foundation ha definito la lista “dei punti di strangolamento globali”, il club delle nazioni che “hanno attivato leggi anti-pirateria largamente sovradimensionate, che bloccano e filtrano siti web a costo della libertà di espressione online”.

La cosa paradossale è che quello che prevede la SOPA, ovvero il blocco dei DNS (domain name system) dei siti sospettati di pirateria non riuscirà comunque a debellare la pirateria. A chiunque sia noto l’indirizzo IP del server “pirata” sarà sempre possibile collegarvisi. Insomma, il blocco dei DNS servirà al più a scoraggiare qualche “delinquente casuale”, non gli adepti al download illegale, i quali continueranno a farlo come (e con più gusto) di prima.

Non solo: secondo l’esperto legale Stewart Baker, la SOPA è potenzialmente un modo per rendere meno sicura la Rete. Se la proposta di legge dovesse essere approvata nella sua forma attuale, porrebbe un serio limite allo sviluppo del protocollo DNSSEC, impiegato per contrastare vari determinati tipi di reati online. Compito del protocollo è andarsene in giro per i vari DNS del mondo per trovarne uno “autenticato”.

Questo è di grande aiuto per proteggere gli utenti del browser a schivare truffe che, hackerando determinati DNS, fanno convergere gli ignari naviganti su siti con un numero contraffatto che riproduce l’IP di quelli richiesti, ma che in realtà sono delle copie predisposte per rubare dati e password.

Poiché però la nuova tecnologia non è in grado di distinguere tra un DNS (indirizzo) bloccato dall’Attorney General e uno truccato da un ladro online, è probabile che tutte le aziende informatiche che oggi stanno investendo sul protocollo DNSSEC finiscano per non investirci più un solo euro. Solo così eviterebbero di finire nel mirino del ministero della giustizia, che potrebbe interpretare la tecnologia un modo per eludere la legge.

In sintesi, SOPA e PIPA non solo non servono a bloccare davvero la pirateria online ma costituiscono un ottimo strumento per conculcare le libertà civili e impedire l’innovazione tecnologica. Non solo, ma il delirio di onnipotenza delle major dello spettacolo americane (cui si uniscono volentieri le farmaceutiche, infastidite dal fatto che gli americani possano acquistare medicine online da un rivenditore, per dire, canadese), rischia di imporre al mondo intero legislazioni tanto se non più liberticide di SOPA e PIPA.

La legge approvata in Spagna a dicembre, per dire, prevede che ISP e hosting provider blocchino i contenuti e chiudano i siti ritenuti colpevoli di violazione dei diritti d’autore entro 48 ore dalla contestazione: un periodo ovviamente insufficiente a garantire che l’accusato possa validamente difendersi. Inoltre, contiene delle disposizioni per identificare l’IP degli utenti che scaricano illegalmente contenuti: siamo alla sorveglianza online legalizzata.

Le perdite economiche che le major lamentano per effetto del download illegale dimostrano il fallimento del loro modello di business, basato su offerta limitata, prezzi stratosferici, impossibilità di fruire liberamente i contenuti, anche dopo averli acquistati a caro prezzo.

La grande industria dell’intrattenimento (il cui contributo alla crescita è certamente inferiore a quello del settore internet) dovrebbe prendere atto del fatto che ha solo due possibilità: rinnovarsi nella direzione indicata dal pubblico dei consumatori o estinguersi. Invece, ha scelto la strada di modellare le leggi del mondo a suo uso e consumo: una situazione da brivido, molto dibattuta su internet (finché sarà possibile farlo legalmente) ma poco sulla carta stampata.

Non è un caso, visto che tra i sostenitori della SOPA, oltre alle major e case di videogiochi come Nintendo e SONY, ci sono, guarda caso, i gruppi che controllano i giornali. Che la situazione sia grave è dimostrato dal fatto che persino i grandi nomi del settore internet, da AOL a eBay, da Google a Facebook, passando per Twitter, Yahoo! e Mozilla si sono riunite in un consorzio per dare voce alla protesta contro SOPA e PIPA. Sembra addirittura che stiano lavorando al progetto di “spegnere” i propri servizi per protesta se il progetto di legge dovesse andare avanti senza modifiche sostanziali.

Sul versante opposto dei “big” della Silycon Valley, si trovano gli hacker Anonymous, che ovviamente si sgolano da mesi contro la SOPA: non per questo le sue “filiali” locali trascurano di attivarsi anche contro provvedimenti simili che intaccano le libertà civili in paesi periferici come la Finlandia. Il 9 gennaio, l’ISP finlandese Elisa ha deciso di ottemperare a un’ordinanza della Corte Distrettuale di Helsinki, che la obbligava ad impedire a tutti i suoi utenti di raggiungere il sito piratebay, nel quale certamente si scambia “illegalmente” materiale coperto da copyright.

Immediata la reazione di Anonymous, che tramite i tweet di The Real Sabu, uno degli animatori più loquaci e polemici del gruppo, ha cominciato a protestare: “Non staremo certo qui a guardare e consentire ai nostri governi di censurarci”. Detto fatto: il sito finlandese della IFPI (International Federation of the Phonographic Industry), una specie di SIAE internazionale molto fattiva per difendere gli interessi dell’1% (produttori di contenuti) a scapito diritti del restante 99% della popolazione, è stato oggetto di un attacco che lo ha reso irraggiungibile. Al momento in cui si scrive, a 30 ore circa dai belligeranti annunci di Sabu, il sito è ancora giù.

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