di Vincenzo Maddaloni

Non è detto che coloro i quali hanno il labbro superiore glabro e la barba lunga siano inesorabilmente dei salafiti, sebbene il look sia quello, e così appaino anche nel trailer di “Innocence of Muslims”, quei quattordici minuti di trailer che denigrando il profeta Maometto hanno scatenato la rabbia islamica e hanno fatto ritornare sulle prime pagine dei giornali i salafiti (The Salafi moment).

Poiché costoro si sono rivelati i veri protagonisti di queste drammatiche giornate, forti di un consenso popolare che si erano conquistati durante i processi di democratizzazione, come dimostra quel 25 per cento di voti strappato ai Fratelli Musulmani alle elezioni egiziane.

Naturalmente la mobilitazione contro il trailer di “L’innocenza dei musulmani” è per il movimento salafita un’occasione guadagnare anche gli spazi che Al Qaeda con la sua pochezza ideologica e strategica non riesce più a mantenere. Si profila così lo scenario di una “mezzaluna salafita” che si estende dal Golfo Persico al Nord Africa sul quale si è scatenato un columnist come Robin Wright, che ha partecipato in un editoriale sul New York Times tutto il suo terrore per la proliferazione dei movimenti dei salafiti definendoli "uno dei prodotti più sottovalutato e inquietante delle rivolte arabe", e quindi, “più pericoloso di qualunque altro per gli interessi occidentali in Medio Oriente”.

“Salaf” da cui viene il termine salafiti, significa “fede antica” quella che caratterizza il mito fondativo dell’Islam incentrato sull’assoluta coincidenza tra religione e politica. Il movimento dei salafiti propugna quindi un ritorno alle origini, alla purezza dell'insegnamento dell'Islam scarnificato da tutte le influenze provenienti dal mondo occidentale cristiano e, peggio ancora, ateo.

Sicché il movimento non può esser considerato nazionalista, perché esso si batte contro i nazionalismi, in sintonia con i precetti dell'Islam che non si plasmano su questa o quella realtà nazionale, bensì  sono diffusi  dagli aridi deserti dell'Arabia ai campus universitari europei. Pertanto la visione dei salafiti è tutta internazionalista, dal momento che Allah non fa distinzioni fra le nazioni, in quanto l'Islam non è la religione di un solo popolo, ma dell'intera umanità.

Inoltre, essi ritengono legittimo soltanto in alcune circostanze il jihad ("La guerra di religione con coloro che non credono nella missione di Maometto..”). Non è per essi, come invece lo è per i qaedisti, l’attività esclusiva, sebbene conservino gelosamente il richiamo storico di bin Laden quando all’indomani dell’attentato dell’11 settembre disse: “Ciò che gli Stati Uniti provano oggi è ben poca cosa rispetto a ciò che noi abbiamo provato per decine di anni. La nostra comunità (Ummah, cioè l’insieme del mondo musulmano) ha provato questa umiliazione e disprezzo per più di 80 anni”.

Perché 80 anni? E’ opinione diffusa  che la diatriba Islam-Occidente sia nata con la creazione dello Stato di Israele, che risale a poco più di 60 fa. In realtà bin-Laden si riferiva ad un altro fatto che è praticamente dimenticato in Occidente, ma ha avuto e continua ad avere nel mondo islamico un impatto traumatico. Si tratta della sconfitta dell’Impero Ottomano in seguito alla prima guerra mondiale, dalla quale quando bin-Laden parlò erano passati appunto un’ottantina di anni.

Infatti, fino al 1918 Il “sultano”, ovvero il capo temporale della Sublime Porta (Bâb-i ‘Alî), si fregiava anche del titolo di “califfo”, una parola araba (“khalifah”) che vuol dire “successore”, o “vicario”, naturalmente del Profeta Maometto. Era dal 1774 che il sultano ottomano (turco) era considerato l’erede legittimo dei due grandi califfati arabi di Damasco (“Ommiadi”, 661-750) e Baghdad (“Abbasidi”, 750-1258).  Si tenga a mente che il suo potere di sovrano era racchiuso entro i confini dell’impero, ma come “califfo”, cioè come autorità spirituale, governava su tutto l’Islam sunnita, dal Marocco all’Indonesia, sicché egli poteva arrogarsi il titolo di  “amir ul-mu’minin” (“guida dei credenti”), di (tanto per capirci) “Papa” dell’Islam.

Tutto questo durò - si è detto - fino alla sconfitta e poi alla caduta dell’Impero Ottomano, nel 1918 appunto. Stando così le cose meglio si capisce come il filmato sacrilego a firma americana abbia offerto il pretesto ai salafiti di richiamare alla memoria delle genti la “vergogna” storica che gli occidentali inflissero ai musulmani. Con il risultato che il numero dei simpatizzanti del movimento è salito vertiginosamente.

Avevamo appena scritto qualche giorno fa (http://www.altrenotizie.org/esteri/5060--egitto-e-iran-un-rapporto-nuovo.html) dell’impegno condiviso e declamato urbi et orbi dall’Iran sciita e dall’Egitto sunnita sul ruolo che essi intendono svolgere in Medio Oriente. La loro era la nuova risposta religiosa all’ambiguo laicismo sventolato dagli americani e dai loro alleati, al rigorismo settario dei sauditi, a Israele che incoraggia il massacro in Siria e pretende una resa dei conti con l’Iran. Malauguratamente la loro iniziativa s’è incenerita davanti all’ambasciata di Bengasi con un danno in più per i Fratelli Musulmani, indicati dai Salafiti come dei “revisionisti islamici” che hanno abbandonato l’integrità dei principi in nome della realpolitik.

Non a caso il movimento che si richiama al Salaf, alla “fede antica”, è quello  che registra la crescita più rapida non soltanto in Egitto e in Tunisia bensì in tutto il Medio Oriente. Poiché come spiega Mustafa Salama sul Daily News, l’unico quotidiano egiziano in lingua inglese, “la galassia salafita è composita. Ha accettato anche di misurarsi con i processi elettorali dalle Primavere arabe, dimostrando così di non essere contrari alla democrazie.

Diciamo che la loro preoccupazione prioritaria è di salvare l’Islam delle origini”. Infatti, un pezzo da novanta come Sheikh Salman Al-Ouda, autorevole membro dell'Unione internazionale degli studiosi musulmani, dalla sede nell’Arabia saudita ha spiegato sulla sua pagina di facebook cos’è la democrazia nel “salafita style”: “Essa non può essere il sistema ideale, ma è il meno dannoso, e può essere sviluppato e adattato per rispondere a delle esigenze locali, o a delle circostanze”.

Pertanto il richiamo alla purezza dell’Islam dei primordi da parte di un movimento come quello dei salafiti che conta oltre un secolo di Storia non è argomento di poca suggestione per tutti quei credenti che devono confrontarsi con la corruzione, le storture del consumismo, e l’incubo dei droni.

Dopotutto, la politica di aggressione economica e militare che Obama non ha sconfessato e alla quale l’aspirante presidente Romney promette di ridare un nuovo impulso, nasce dalle deformazioni del capitalismo che è nato in Europa, e vi si è sviluppato nei secoli. Di qui si è esteso al resto del mondo, anzi questa estensione è stata proprio una delle forme di sottomissione del mondo all’Occidente che ha prodotto l’America imperiale. Sicché davanti agli occhi di milioni di musulmani, si dipana un Occidente in larga parte incomprensibile.

Poiché quelle società non lottano contro un capitalismo, un “modello americano” che ignorano, bensì per la loro conservazione, per tutelare quell’equilibrio tra le diverse forze sociali che l’impegno religioso sovrintende e regola. Pertanto il controllo salafita delle moschee, delle scuole, dei costumi, delle aree di contropotere, è cresciuto in questi giorni in maniera esponenziale. Molto vi coopera pure il confronto tra i due candidati alla presidenza americana i quali facendo leva sul “The Salafi moment” elargiscono nuove, terribili ansie agli americani e al resto dell’umanità.

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di Massimiliano Ferraro

Sono tutte lì, negli occhi della signora Rosa, novantacinque anni, le domande rimaste senza risposta sulla fine del piroscafo Hedia e sulla sorte toccata ai suoi marinai. Occhi che si riempiono ancora di lacrime quando nella sua casa di Sciacca, tra i vecchi documenti che raccontano l'enigma della nave scomparsa nel Canale di Sicilia nel marzo del 1962, spuntano fuori le ultime lettere inviatele da suo figlio Filippo. Filippo Graffeo era uno dei venti marinai svaniti nel nulla dopo il presunto naufragio della Hedia. Un affondamento avvenuto senza testimoni, senza che venisse lanciata nessuna richiesta d'aiuto via radio e spiegabile, almeno apparentemente, con le cattive condizioni del mare.

Ma se come sosteneva Tiziano Terzani, il dovere del giornalista è quello di vedere se c'è una verità alternativa dinnanzi a quella ufficiale, nel caso del piroscafo Hedia non si può ignorare l'ipotesi che il bastimento sia stato silurato per sbaglio dalla marina militare francese: una nave scambiata per un'altra, una di quelle che in quei mesi contrabbandavano armi destinate ai miliziani algerini lungo le coste del Nord Africa. Un errore che sarebbe stato svelato solo alcuni mesi dopo dalla foto di alcuni dei marinai italiani imprigionati in Algeria. Riconosciuti «senza possibilità di equivoci» dai familiari, cercati e mai ritrovati. Forse finiti loro malgrado nelle trame di un intrigo internazionale con sullo sfondo la guerra franco-algerina.

Quella della Hedia è dunque una storia che dopo cinquant'anni attende ancora un finale. Una tragedia di cui la politica si è completamente dimenticata, avvenuta diciotto anni prima di Ustica e compiuta forse dalla stessa mano: quella francese. Sospetti apparsi e poi svaniti dalle cronache di un'Italia distratta dal sogno del boom economico, voci contraddittorie sepolte dalla confusione di un paese africano assetato di indipendenza e altrettanti silenzi custoditi probabilmente tuttora in un archivio, da qualche parte, a Parigi.

Un inestricabile giallo - «Sono il nipote dello scomparso Filippo Graffeo di Sciacca», si presenta così Accursio Graffeo, perito industriale elettrotecnico di quarantadue anni, attualmente dipendente presso un'azienda ospedaliera, dopo aver letto un articolo di chi scrive. Un pezzo che aveva riproposto, a cinquant'anni di distanza, il mistero della sparizione nel Mediterraneo del piroscafo Hedia e con esso anche un po' la storia della famiglia Graffeo. «Sapevo della scomparsa di zio Filippo dal racconto vago di mio padre, ma oggi attraverso il suo articolo ho scoperto delle notizie interessanti ad incominciare dal nome della nave».

Nel 1961 Filippo Graffeo aveva 19 anni ed era alla ricerca del suo primo imbarco su una nave mercantile. Siciliano di Sciacca, era arrivato a Venezia nel mese di settembre con il fratello maggiore Luigi, marinaio già con diversi anni di lavoro sulle navi petroliere. Dopo alcuni giorni passati nella Casa del Marinaio in attesa di trovare l’aspirato imbarco, nonostante fosse più inesperto fu proprio Filippo a trovare per primo un lavoro. Fortuna del principiante, direbbe chi sa poco della fortuna e nulla di questa vicenda.

Il giovane Graffeo venne assunto 16 ottobre 1961 dall'armatore Nello Patella, rappresentante italiano della Compagnia Naviera General di Panama, per imbarcarsi come marinaio di coperta sulla nave Generous, una vecchia imbarcazione da carico battente bandiera liberiana. I primi viaggi toccarono i porti di Ravenna, San Antioco, Benisaf (Algeria), Messina, Fiume (Jugoslavia) e Siviglia (Spagna). Poi, nel mese di febbraio del 1962, la Generous effettuò dei lavori di manutenzione al termine dei quali venne ribattezzata con un nuovo nome: Hedia.  Il piroscafo Hedia salpò il 6 febbraio 1962 con a bordo venti persone: diciannove italiani e un gallese. Viaggio da Ravenna fino in Spagna e ritorno con scalo intermedio in Marocco.

Il 10 marzo a Casablanca, i marinai italiani caricarono quattromila tonnellate di fosfati e ripartirono facendo rotta verso Venezia, incuranti della burrasca che infuriava in quelle ore nel Canale di Sicilia. Proprio per questo motivo il comandante Federico Agostinelli fece telegrafare all’armatore l’intenzione di non passare per lo Stretto di Messina, ma di seguire invece la rotta che porta a sud della Sicilia. La Hedia costeggiò la costa algerina e poi scomparve in prossimità dell'arcipelago tunisino di La Galite il 14 di marzo. Nessuna richiesta d’aiuto, nessuna traccia di un incidente. Subito si pensò al peggio, ad un naufragio dovuto alle condizioni proibitive del mare. Onde alte cinque metri agitavano ancora il Canale di Sicilia, quando iniziarono le ricerche congiunte delle unità della Marina Italiana con il supporto di una nave militare statunitense. Tentativi imponenti in un tratto di mare tanto piccolo e trafficato, al punto che qualcuno, forse, temette che la Hedia venisse ritrovata per davvero.

Così si spiegherebbe lo strano depistaggio che nove giorni dopo la scomparsa del mercantile portò su una falsa pista proprio mentre si stavano svolgendo le perlustrazioni. Il comando del porto di Tunisi informò infatti che il 21 marzo, cioè sette giorni dopo la scomparsa della nave, il piroscafo Hedia «aveva notificato la sua posizione e si trovava in difficoltà a ridosso dell’isola di La Galite». Ma era tutto falso. La stessa radio Tunisi messa alle strette dal consolato italiano smentì ufficialmente il messaggio, rifiutandosi però di fornire delle spiegazioni. Stranezza nella stranezza, anche un dispaccio ufficiale del nostro ministero della Marina Mercantile che dava la nave in salvo nell'Adriatico venne incredibilmente smentito dopo tre giorni. Finalmente il 26 marzo tre pescherecci di Lampedusa comunicarono di essere in possesso di alcuni rottami appartenenti al mercantile disperso: due salvagenti con la scritta “Hedia-Monrovia”, una cintura di salvataggio con la scritta“Milly-Monrovia” (Milly era il nome originario della Hedia prima ancora di Generous n.d.a.), e due tavoloni di boccaporto. Basta. Troppo poco per avere la certezza che il cargo sia colato a picco.

Cosa accadde alla Hedia? Non è facile far sparire una nave e la leggenda del vascello fantasma non è adatta per raccontare i dettagli di un naufragio avvenuto in pieno XX secolo. Cinquant'anni dopo a casa Graffeo le opinioni sono discordanti. «Mio padre Luigi è convinto che la nave sia affondata per via del mare forza 8», riassume Accursio Graffeo, «secondo lui la nave era piccola e non dovevano navigare con il vento in poppa, ma io la penso diversamente». In seguito alla scoperta della storia di suo zio Filippo, Accursio è ora intenzionato a far luce sulla sparizione dell'equipaggio della Hedia. Il fatto che siano stati ritrovati pochissimi pezzi del piroscafo non lo convince: «Quello che hanno ritrovato i pescherecci di Lampedusa è davvero poco, il salvagente con su scritto il nome della nave, mi sembra qualcosa già visto in qualche film». Poi aggiunge: «È capitato anche a me di ritrovare dopo una mareggiata dei salvagenti o delle pedane di legno, ma non mi pare che appartenessero a navi affondate».

Ma nell'intricatissimo mistero della Hedia c'è anche dell'altro a destare dei dubbi. In primo luogo la già citata ostilità delle autorità tunisine si manifestò nuovamente nel momento in cui uno dei parenti dei marinai dispersi cominciò a battere palmo a palmo l’arcipelago de La Galite in cerca di informazioni sulla nave. Fu in questa occasione che il comandante della base strategica di Biserta suggerì all'uomo di stendere una relazione da inviare a Parigi. Ma per quale motivo il governo francese avrebbe dovuto essere al corrente della fine della nave liberiana? E soprattutto, perché nei giorni che seguirono bastò un solo articolo sulla Hedia pubblicato dal quotidiano La Presse per far andare su tutte le furie il ministero della guerra francese?

Sembrò evidente che le autorità tunisine e francesi fossero inspiegabilmente molto suscettibili riguardo alla scomparsa della Hedia. In questo contesto è da far risalire l’origine delle voci che vollero la nave vittima di un siluramento. Forse a causa della tempesta il capitano Agostinelli e i suoi uomini si trovarono fuori rotta, nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Forse, il mercantile liberiano venne scambiato per uno dei bastimenti carichi di armi che rifornivano da sette anni e mezzo gli indipendentisti algerini del Front de Libération Nationale (FLN). Quel che è certo è che proprio in quei giorni di marzo del 1962 la cruenta guerra franco-algerina viveva ore cruciali. Mentre il 14 marzo la Hedia si trasformava in una nave fantasma, Algeri e Parigi erano pronte al tanto atteso cessate il fuoco decretato tra tensioni e reciproche diffidenze il giorno 19. Una sospirata tregua dopo i massacri, il terrorismo e il napalm, alla quale non avrebbe certo giovato la notizia di una nave affondata per sbaglio dal grilletto ancora caldo dei francesi.

Naufragata, silurata o catturata? –Trascorsero sei mesi senza che in Italia giungessero notizie della Hedia e del suo equipaggio: Federico Agostinelli di Fano (comandante), Colombo Furlani di Fano (primo ufficiale), Elio Dell’Andrea di Venezia (secondo ufficiale), Otello Leonardi di Fano (capo macchina), Michele Marangia di Molfetta (secondo ufficiale macchina), Claudio Cesca di Trieste (marconista), Giorgio Bandera di Mestre (capo fuochista), Giuseppe Orofino di Catania (fuochista), Ferdinando Balboni di Venezia (cuoco), Filippo Graffeo di Sciacca (marinaio di coperta), Nicola Caputi di Molfetta (marinaio), Corrado Caputi di Molfetta (ingrassatore), Cosimo Gadaletta di Molfetta (marinaio), Damiano Bufi di Molfetta (marinaio), Giuseppe Uva di Molfetta (giovinotto), Giovanni Pagan di Chioggia (marinaio), Dino Bullo di Chioggia (marinaio), Giovanni Salvagno di Chioggia (marinaio), Edoardo Nordio di Chioggia (marinaio), Anton Narusberg di Cardiff (macchinista). L'attesa diventò angosciante. Nonostante ciò i Graffeo e gli altri parenti dei marinai continuarono a nutrire la speranza di poter riabbracciare i loro cari. Una fiducia che sembrò essere stata premiata quando il padre di uno degli scomparsi, Romeo Cesca, riuscì a sapere in via confidenziale da un ufficiale di marina che i venti uomini erano salvi e tenuti in una località segreta. Ma dove? Il militare si rifiutò di aggiungere altri dettagli sul luogo, trincerandosi dietro la ragion di stato e a «gravi motivi di sicurezza».

Finalmente in settembre alcuni marinai italiani vennero riconosciuti in un gruppo di prigionieri ritratti in una telefoto scattata nel cortile del consolato francese di Algeri e pubblicata per caso sul Gazzettino di Venezia. Così la signora Maria Balboni riconobbe tra quegli uomini proprio suo marito Ferdinando, cuoco della Hedia e lo stesso accadde per i parenti del secondo ufficiale Elio Dell’Andrea, del fuochista Giuseppe Orofino e del marconista Claudio Cesca. Anche a Sciacca esultarono firmando il riconoscimento di Filippo Graffeo davanti a un notaio fuor di ogni dubbio. «Ma oggi siamo divisi», ammette Accursio, «non tutti in famiglia dicono che l'uomo nella foto gli somiglia, anche se noi nipoti siamo convinti che quello della foto può essere zio Filippo». Se così fosse, non è chiaro quali avventure condussero i marinai italiani nelle carceri algerine. È possibile che i pochi sopravvissuti al naufragio o al siluramento siano in qualche modo riusciti ad arrivare a riva finendo poi nelle mani dei miliziani indipendentisti e infine tornati o ritornati nelle mani dei francesi. Rimane comunque da chiarire perché nessuno di loro riuscì mai a mettersi in contatto con l’Italia dopo la liberazione anche se esiste una spiegazione plausibile.

Da Parigi, l’agenzia proprietaria della telefoto fece sapere che lo scatto risaliva al 2 di settembre, proprio il giorno in cui il consolato francese venne attaccato e dato alle fiamme dai clan delle fazioni belligeranti algerine. Dei prigionieri presenti in quel momento nell’edificio non si seppe più nulla. Che ne fu dunque di quei superstiti allo sbando nella capitale messa a ferro e fuoco nelle tragiche giornate di guerra civile? Furono giustiziati o caddero incidentalmente, mentre le colonne di camion e cannoni del futuro presidente Ben Bella accerchiavano Algeri?

Vitaliano Pesante, giovane giornalista veneziano, cercò di svelare l'arcano e partì per l’Algeria, ormai pacificata, determinato a venire a capo di una verità nascosta da un clima ostile. Arrivato sul posto venne costantemente pedinato e perquisito, ma nonostante ciò riuscì a rintracciare un certo Jean Solert, che figurava come primo uomo a sinistra nella fotografia degli ex prigionieri. Costui negò fermamente che nel consolato ci fossero degli italiani e come prova di quanto affermato gli rivelò la vera identità del presunto marinaio Graffeo, tale Pierre Cocco, barista di Algeri. Peccato che non lo si poté mai contattare direttamente, perché fuggito a Marsiglia senza lasciare un indirizzo. Rintracciati da Pesante, alcuni conoscenti di Cocco lo riconobbero comunque senza esitazioni nella telefoto comparsa sul Gazzettino, la medesima che «senza possibilità di equivoci» suscitò tante speranze in quel di Sciacca. In Italia l’esito di queste indagini sul campo venne accolto con rabbiosa incredulità dai parenti dei marinai: «Pensate davvero che non riusciamo a riconoscere i nostri cari dopo solo nove mesi?». Non si seppe più che cosa pensare. «Sono cadaveri che le correnti trascinano sui fondali marini?», domandò Nicola Adelfi dalle colonne de La Stampa, «oppure fantasmi suscitati dall'amore dei congiunti! O uomini vivi, creature di carne e ossa, che circostanze a noi ignote rendono muti?».

Di lì a poco la Liberia chiese ai Lloyd’s la cancellazione della Hedia dal registro navale, la Cassa marittima versò quattrocentomila lire di assegno funerario per ogni marinaio e il Regno Unito fece sapere di considerare presumibilmente morto l’unico straniero a bordo, Anton Narusberg di Cardiff. Inoltre, secondo la risposta scritta data in Parlamento il 14 aprile 1965 dal ministro della Marina Mercantile, Spagnolli, il 17 agosto 1964 l'assicurazione Vittoria di Milano pagò alla società armatrice «l'intera somma assicurata ammontante a 110 milioni di lire, aggiungendo che, malgrado le laboriose indagini svolte, non era stata in grado di stabilire la sorte toccata alla nave, all'equipaggio e al carico». Telenovela finita? Nemmeno per sogno. «È questa una storia maledetta», scrisse ancora La Stampa, «un'altalena continua tra le speranze che rasentano la certezza e i dubbi più laceranti».

Estate 2012 – Da Sciacca, dove è tornato dal Nord per trascorrere le sue vacanze, Accursio Graffeo si dà un gran da fare. Dieci lustri trascorsi senza alcuna novità sulla sorte dell'equipaggio della Hedia non lo scoraggiano. Raduna i parenti, fa domande a genitori, zii, conoscenti e va a trovare sua nonna Rosa (madre dello scomparso Filippo Graffeo) nella speranza di conoscere altri dettagli su questa vecchia storia di famiglia. Ed ecco che il suo impegno fa riemergere un particolare fino ad ora inedito: uno dei fratelli dello scomparso, Michele, riuscì a rintracciare in un paese vicino a Marsiglia Pierre Cocco in persona, ovvero il presunto sosia di Filippo Graffeo. Sosia? «Trovare Pierre Cocco fu un'impresa ma alla fine si scoprì che era un uomo di quarant'anni e che non poteva essere certo scambiato per un ragazzo di venti». L'ennesimo depistaggio? «Un altro particolare da non trascurare», continua Accursio, «è che questo signor Cocco si mostrò molto nervoso, voleva scappare, come se fosse a conoscenza di qualcosa...». Sapeva forse di non essere la persona ritratta nella telefoto? Secondo la famiglia Graffeo nelle cineteche di Parigi dovrebbe esserci il filmato originale della liberazione dei prigionieri di Algeri, una prova importante che potrebbe essere richiesta dalle nostre autorità.

Ora il nipote di Filippo Graffeo sta pensando alla possibilità di fondare un'associazione per riaccendere i riflettori sul giallo della Hedia. Sarà dura: «Dopo tutto questo tempo, in tanti ci avranno messo una pietra sopra e magari i più anziani, che vorrebbero sapere, non hanno dimestichezza con internet». Proprio come la signora Rosa, che dopo cinquant'anni aspetta ancora di sapere cos'è successo a suo figlio, in quel lontano preludio tormentato di primavera.

di Sara Michelucci

L’opera si trasferisce all’aperto con la rappresentazione di Cavalleria rusticana di Mascagni. La rappresentazione è stata organizzata lo scorso 3 agosto da OTV Terni - Associazione Orchestra del Teatro Verdi all’Anfiteatro romano della città umbra. “La ferma volontà da parte della direzione artistica di offrire al più vasto pubblico la possibilità di assistere a più numerose rappresentazioni, che si stanno già organizzando per l’anno venturo, nasce proprio da questo: l’apprezzamento che per primo il pubblico ha manifestato per questo evento”, fanno sapere gli organizzatori.

Di grande coinvolgimento la prova canora degli interpreti, che hanno fatto vivere momenti di grande tensione emotiva, regalando al termine dell’opera un lungo bis che ha visto eseguite alcune tra le più celebri pagine del melodramma italiano, con l’Inno di Mameli che ha chiuso la serata.

Dopo 12 anni di assenza, la più celebre fra le opere di Pietro Mascagni, è tornata a Terni con un cast qualificato di cui fanno parte Angela Bonfitto (Lola), tra l’altro interprete di ‘Così Fan Tutte’ nello storico allestimento di Giorgio Strehaler diretto da A. Bosman. Il tenore Antonio De Palma - Premio Mascagni 2009 ed il baritono Carmine Monaco, a Terni, provenienti da prestigiose apparizioni nei maggiori cartelloni in corso.

Tutti gli interpreti sono stati guidati dalla vibrante bacchetta di Leonardo Quadrini che a capo di prestigiose compagini come l’Orchestra sinfonica di Praga, gli Archi de La Scala, l’Orchestra di Seoul vanta una lunga ed intensa carriera internazionale oltre che una nutrita produzione discografica.

Cavalleria rusticana è un'opera in un unico atto, andata in scena per la prima volta il 17 maggio 1890 al Teatro Costanzi di Roma, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga. Viene spesso rappresentata a teatro, o incisa su disco, insieme a un'altra opera breve, Pagliacci di Ruggero Leoncavallo. Iniziatore di questo singolare abbinamento fu lo stesso Pietro Mascagni, che nel 1926, al Teatro alla Scala di Milano, diresse, nella stessa soirée, entrambe le opere.

La storia è di quelle dense di passione e furore, un racconto di amore, gelosia e coltelli che si si svolge in un paese siciliano (ispirato a Vizzini) durante il giorno di Pasqua. Ancora a sipario calato, si sente Turiddu, il tenore, cantare una serenata a Lola, sua promessa sposa che durante il servizio militare di Turiddu ha però sposato Alfio.

La scena si riempie di paesani e paesane in festa, giunge anche Santa, detta Santuzza, attuale fidanzata di Turiddu, che non si sente di entrare in chiesa perché pensa di aver commesso un grave peccato. Parla allora con mamma Lucia, madre di Turiddu, chiedendole notizie del figlio.

Lucia dice a Santuzza che Turiddu è andato a Francofonte a comprare il vino, ma Santa sostiene di aver visto Turiddu che si aggirava sotto la casa di Lola. Lucia chiede allora a Santa di entrare in casa, infatti ha paura che qualcuno la possa ascoltare, ma quest'ultima si rifiuta perché si sente disonorata. La notizia arriva anche ad Alfio, che ignaro di tutto va a trovare Lucia.

A questo punto Santuzza svela a Lucia la relazione tra Turiddu e Lola. Egli ormai l'ha disonorata per ripicca contro Lola, alla quale prima di andare soldato aveva giurato fedeltà eterna, e che ora continua a frequentare sebbene sia sposata. Giunge dunque Turiddu che discute animatamente con Santa; interviene anche Lola che sta per recarsi in chiesa, e le due donne si scambiano battute ironiche.

Turiddu segue Lola, che è sola perché il marito lavora. Santuzza augura a Turiddu la ‘malapasqua’ e, vedendo arrivare Alfio, gli confida la tresca amorosa della moglie. Dopo la messa, Turiddu offre vino a tutti i paesani per stare più tempo con Lola. Alfio entra in scena e Turiddu gli offre il vino, ma rifiuta. Turiddu getta il vino e morde l'orecchio ad Alfio sfidandolo a duello. Turiddu corre a salutare la madre e, ubriaco, le dice addio e le affida Santuzza. Subito dopo si sente un vociare di donne e popolani. Un urlo sovrasta gli altri: "Hanno ammazzato compare Turiddu!".

Il successo di Cavalleria Rusticana fu grande già dalla prima volta in cui venne rappresentato al Teatro Costanzi di Roma, il 17 maggio 1890, e tale è rimasto fino a oggi. Basti pensare che ai tempi della morte di Mascagni, avvenuta nel 1945, l'opera era già stata rappresentata più di quattordicimila volte solo in Italia.

di Vincenzo Maddaloni

SAN PIETROBURGO. Uno poi se ne dimentica, ma la cazzata resta. E’ quella del governatore di San Pietroburgo Georgy Poltavchenko, che aveva pensato di accogliere gli invitati al suo party esclusivo, usando delle bambine come sculture. Vestite di argento, con le facce pitturate e apparentemente legate  ai bordi di una vasca nel centro del giardino del palazzo di fianco alla fortezza di Pietro e Paolo.

L’occasione era stato il Forum Economico Internazionale, uno di quegli eventi nel quale i potenti si incontrano e fingono di fare scelte per il bene dell'umanità. Si era tenuto il 21 giugno a San Pietroburgo, appunto, e vi avevano partecipato politici, imprenditori e banchieri provenienti da ottanta paesi del mondo. Così meglio si capisce perché le foto delle quattro bambine dipinte di argento e immerse in una sorta di fontana dove soffiando su delle barchette di carta simulavano la rosa dei venti, avevano sollevato un polverone.

Infatti, le immagini avevano fatto il giro del pianeta, tra critiche e denunce delle organizzazioni in difesa dei minori. Svetlana Gannushkina, un’esponente di spicco del movimento in  difesa dei diritti umani in Russia si era affrettata a invitare, «l’opinione pubblica a discuterne», perché, «si trattava di minorenni» e quindi c’erano «tutti gli elementi per aprire un’inchiesta». Poi, come quasi sempre accade -  qui come altrove - tutto si era limitato alle denunce.

Dopotutto il vero colpevole, il governatore di San Pietroburgo  era riuscito a smarcarsi scaricando le responsabilità sulla società che avevano gestito l’evento. «Sono loro che hanno vinto il bando di gara e hanno organizzato il party», disse. Sicché Georgy Poltavchenko, che è pure amico del presidente Putin, continua ad essere il governatore di San Pietroburgo.

Certamente un fatto del genere non sarebbe accaduto vent’anni fa, quando la città si chiamava ancora Leningrado e di lì a poco con un referendum sarebbe ritornata a chiamarsi (6 settembre 1991) San Pietroburgo, mentre l’Unione Sovietica si stava sgretolando fino a scomparire per sempre (dicembre 1991). A quel tempo esisteva ancora la figura dell'inviato speciale, un’attività del giornalismo oggi in via d'estinzione. A molti dei colleghi più giovani risulterà difficile capire di che cosa sto parlando, poiché nel giornalismo orizzontale di oggi, quello dei telefonini e dei social forum, basta districarsi con un po' di credibilità nella moltiplicazione geometrica delle fonti.

Ma c'è stato un tempo in cui l'informazione dipendeva quasi esclusivamente dal racconto dell'inviato, unico medium tra il fatto e il lettore, dalla sua capacità d'interpretare i fatti, di cogliere i dettagli al primo e spesso unico sguardo e da lì risalire alle cause che avevano prodotto un certo evento. In quei giorni di vent’anni fa il mio problema era di spiegare come tra Leningrado e San Pietroburgo non ci sarebbe stata soluzione di continuità.

Inseguivo allora una tesi che ancora mi affascina e sconcerta : la somiglianza tra Venezia e San Pietroburgo, l'ex Leningrado appunto. Anche questa città sull'acqua mi rimane familiare. Pensavo di conoscerne le luci, gli odori, i suoni, i ritmi, la volontà grande di affrancamento. Ho anche adesso l'impressione di essermi sbagliato, di essermi illuso. Quell'immagine un po' stravagante sottolineata dal mare, quell'avventurosa pista veneto-slava pensavo potesse aiutare a chiarire le idee. La seguivo dunque, e cercavo di scoprire le immagini umane come penso ne fossero esistite quando il veneziano Francesco Algarotti vi sbarcò nel 1739, trentasei anni dopo la fondazione della città.

A quel tempo - come a Venezia - ci si arrivava solo per via d'acqua, risalendo la Neva: dopo aver vogato per ore, «ecco che volta il fiume; e né più né meno che all'Opera, ci si apre dinanzi in un subito la scena di una imperial città». Era la Pietroburgo non ancora cresciuta in tutta la sua maestosa bellezza, ma già capace di incantare, disposta com'è sulle rive di un gran fiume e sulle isole su cui sorgono splendide architetture, torri con la guglia dorata «che van qua e là piramidando». Ma il nobile Algarotti non ne restò abbagliato a lungo poiché, entrato in città, essa «non ci parve più quale la ci pareva da lungi... forse perché i viaggiatori sono simili a cacciatori e ad amanti».

I paesaggi non sono sovrapponibili, anche con tutta la buona volontà degli uomini. Da quasi tre secoli San Pietroburgo è soprannominata la "Venezia del Nord". Anche se qui i paesaggi sono brumosi, plumbei e straordinariamente brevi poiché lunghe sono le notti invernali; oppure luminosi, abbaglianti anche nel bianco slavato delle brevi "notti" estive. È invece subito naturale accostare i lamenti dei veneziani alle inquietudini dei pietroburghesi. Le somiglianze non mancano: gesti enfatici e desolati, sguardi appassionati e smarriti, fervidi slanci verso la tradizione e le antiche glorie, ed anche nette ripulse verso tutti coloro che cercano di stravolgere il destino della città.

Come a Venezia (non parlo della Venezia ufficiale, sempre un po' falsa o stentorea, o della Venezia dei bazar che lucra e prospera sui  turisti, ma della Venezia medio-piccola, della Venezia colta che in cinque lustri ha visto mutar fortune e naufragar speranze), qui ora si contraddicono e si confondono l'assillo per la propria identità di abitanti di una città che fu la capitale di tutte le Russie, e l’avversione verso il dominio  del Governo centrale di Mosca, al vertice del quale c’è Putin il quale - ironia della Storia - è originario di queste parti. Avversione verso il governo, ma al tempo stesso il desiderio di subirlo. Un’incertezza nella scelta che perdura in una sorta di odio- amore, spesso due risvolti di un unico sentimento.

All’origine c’è una delusione, straziante. Poiché ciascuno dei quattro milioni di residenti della seconda metropoli della Russia sperava in cuor suo che si avviasse la rinascita della città, poiché quando nell’agosto del 1991 sulla carta geografica era ricomparsa l'antica denominazione zarista, un'intera mistica rivoluzionaria era andata in frantumi. A quel tempo l'idea di accostare le inquietudini dei pietroburghesi a quelle dei veneziani mi era venuta dalle conclusioni dell' ottantacinquenne accademico Dmitri Likhaciov, il simbolo della cultura russa del ventesimo secolo, uno dei pochissimi intellettuali sopravvissuto quasi per miracolo ai lager di Stalin.

Likhaciov, che conservava  intatte le memorie della San Pietroburgo imperiale, cercava di stabilire un ponte ideale tra la capitale mitica della sua infanzia e la città che risorgeva dai travagliati decenni della rivoluzione comunista. «Quand’ero poco più di un ragazzo», mi ricordava, «la città era un monumento alla tolleranza, alla cultura, al cosmopolitismo, al buon gusto. Ma con l'andare del tempo i veri pietroburghesi sono scomparsi, inghiottiti da una sequela di tragedie: la battaglia di Tsushima che distrusse la flotta nel 1905 , poi la guerra, poi la rivoluzione, il terrore rosso, le purghe degli Anni Trenta, l'ecatombe dell'assedio nazista con più di un milione di morti, e ancora le vittime delle ultime purghe,negli Anni Cinquanta. Restano i palazzi vuoti e cadenti. La città ha conservato la sua bellezza architettonica, ma ha perso con la sua gente la sua anima. Basta guardare la folla grigia che si accalca lungo i marciapiedi slabbrati, che invade la prospettiva Nevskij, per capire le dimensioni della catastrofe».

La città ricordata da Likhaciov è rimasta in molte delle sue parti quasi intatta, seppure circondata dai nuovi quartieri che le sono sorti attorno. Ma la gente vi sembra di passaggio, come a Venezia quando le carovane dei turisti l'affollano con il naso per aria. Ma mentre a Venezia si percepisce una qualche sensazione fisica del legame che s'è stabilito tra la città e i turisti, a San Pietroburgo questa sensazione manca. Si sa che le persone che affollano le strade sono in grandissima parte gente di qui. Ma non si può immaginare che possano abitare in queste case, né vi è traccia di qualcosa di gratificante che possa alleviarvi il pensiero.

Infatti, entrando nei cortili stretti, bui, dei palazzi, che un tempo ospitavano le carrozze dei principi e dei boiardi, si scopre che la gente che ci abita è proprio quella che s'incontra nelle strade. La sua dignitosa povertà balza agli occhi e si riflette nelle mille pozzanghere appena rischiarate da un quadratino di cielo che appare lontanissimo. E soprattutto nelle Kommunalka, gli appartamenti condivisi, in cui bagno, wc e cucina sono usati da più famiglie, retaggio del vecchio regime comunista e conseguenza dell'elevata povertà di quel milione di persone (il 25 per cento dell’intera popolazione della città) che ancora oggi vi vive.

Così si capisce perché l'Unesco aveva posto sotto la propria tutela tutto il centro storico di San Pietroburgo, inserendolo nella lista del "patrimonio mondiale". Una decisione che poteva apparire insolita, poiché raccogliere finanziamenti per il restauro dei quattromila palazzi degli zar poteva sembrare addirittura paradossale in una città che vent’anni fa non sapeva che cosa mangiare, né come scaldarsi e nella quale, vent’anni dopo, una gran parte della popolazione vive, come detto, ancora nelle Kommunalka.

Eppure, proprio lo straordinario patrimonio architettonico e culturale era stato uno dei volani che aveva alimentato la sua voglia di rinascita. «Senza l'aiuto internazionale non riusciremo mai ad uscire dalla voragine in cui siamo sprofondati». Non aveva dubbi il sindaco I'ormai mitico Anatoli Sobciak che aveva l'occhio di Gogol e la penna di Saltykov Shchedrin, autore di indimenticabili satire sulla burocrazia russa dell'Ottocento. Sobciak progettava di creare una "finestra  sull'Europa", una zona franca a Leningrado, anzi a San Pietroburgo, come da sempre la chiamava.

Era stato è lui che aveva promosso il referendum per ridare alla città il vecchio nome. Sobciak, che era stato uno dei protagonisti dell' anticolpo di Stato dell'agosto del 1991 e del trapasso alla democrazia, accusava Eltsin di non aiutare lo sviluppo di un sistema pluripartitico nell'Assemblea nazionale di Mosca, preferendo governare con l'apparato burocratico piuttosto che con le forze politiche.

«Questo costituisce un pericolo grave», mi spiegava Sobciak. «Fino a quando non si creeranno le condizioni per la nascita di una classe media, il campo rimarrà aperto agli avventurieri. Oggi sotto la bandiera del patriottismo nazionale e della difesa sociale si stanno riunendo tre forze: gli ex funzionari di partito, i nazionalisti e i democratici radicali. È chiaro che fanno leva sul malcontento popolare e non disdegnano il caos, anzi: sanno che è l'unica strada per arrivare al potere. E noi stiamo assistendo a questo confronto».

Quella che Anatoli Sobciak sognava era un' altra rivoluzione, una rivoluzione pacifica: economia di mercato, spazio ai privati, multipartitismo. Essa si è spenta con lui. San Pietroburgo ha ripreso il suo volto malinconico, il suo ritmo stanco. Alle nove di sera, come a Venezia, le strade si svuotano, i palazzi, i canali piombano in una solitudine resa quasi spettrale dalle luci fioche dei lampioni. Le considerazioni di Sobciak alla distanza di vent’anni hanno il carisma della profezia, perché in Russia si continua a governare allo stesso modo, con in aggiunta fastidiose stranezze proprie delle oligarchie, come quella del governatore di San Pietroburgo Georgy Poltavchenko e le sue fanciulle con la faccia pitturata d’argento.

Tuttavia la gente che qualche giorno fa ha riempito le piazze per esprimere opinioni diverse o addirittura opposte a quelle ufficiali, non ha manifestato con i toni concitati che si sono visti a Mosca. Anche questa va interpretata come la peculiarità di una popolazione che è ancora ansiosa di dimostrare la propria diversità, di rafforzare la propria identità rispetto all'Occidente e di esibirla davanti agli altri cittadini delle Russie.  Abitare a San Pietroburgo per esaltare l'ambiguità propria di tutte le città di frontiera, ha assunto il valore di un motto, è diventato un simbolo di appartenenza.

Indicativo è il modo stesso in cui si sono svolte le elezioni del marzo scorso. In questa città nella quale sono nati sia Putin sia il suo delfino, Dmitri Medvedev, che oggi siedono al Cremlino, la domenica del voto era passata come se fosse un giorno qualunque: le mamme con il cappotto accompagnavano i bambini alle piste da hockey trascinando i loro borsoni enormi e le coppie passeggiavano lungo le strade eleganti del centro. Non c’erano molti manifesti elettorali, quelli di Putin non avevano la sua fotografia, come i medesimi a Mosca e nelle altre città delle Russie, ma soltanto il nome. «Non sono andata a votare, la politica non mi interessa per niente», raccontava Ksenia, una ragazza di vent’anni che studia all’università al cronista della  Rossiyskaya Gazeta che cercava di giustificare l’elevato astensionismo nella seconda città del Paese.

Traggo questi elementi sulla diversità anche dalle numerose discussioni serali, dai dialoghi appassionati e dai monologhi accorati, al centro dei quali ci sono sempre i rapporti della città con l'Europa, che qui è anzitutto la Francia, perché rammentano cos'era Parigi per gli intellettuali russi dell'Ottocento ; e poi l'Italia, perché gran parte dei palazzi di San Pietroburgo porta la firma degli architetti italiani. E dunque la collera di coloro che vivono dentro la città, e la conoscono nelle rughe, nei cunicoli, nei labirinti, come se vi abitassero dappertutto, nasce dall'amara situazione di ritrovarsi di nuovo avviluppati in una coltre di promesse quasi indecifrabili e pertanto mai mantenute.

E pensare che quando Francesco Algarotti visitò la città incontrò un suo concittadino, uno di quei "fabbricatori di galere» che lo zar Pietro il Grande «chiamò di Venezia». E non piccola fu la sua meraviglia, scriveva il letterato veneziano a proposito di  quell'incontro: «A sentir parole che finivano in ao, a sessanta gradi di altezza di Polo». Per dire quale centro di molteplici interessi era già a quel tempo la città. Ma anche per capire i motivi profondi di quella collera che la squassa da  novanta e cinque anni. Da quando  essa non è più la capitale di tutte le Russie.

 

 

di Vincenzo Maddaloni

DALLE PARTI DI AGDAM (AZERBAIGIAN). Sul tetto della grande moschea è cresciuta l’erba, e il suo interno è diventato una stalla per le vacche. Accade ad Agdam, una cittadina che quando era azera aveva sessantamila abitanti e oggi ne conta trecentocinquanta, per lo più pastori e contadini. Sicché Agdam è diventata una  Ghost Town, una città fantasma, sicuramente tra le maggiori al mondo.

Non a causa di un’epidemia, ma per scelta della nazione armena che decise di raderla al suolo, dopo averla conquistata il 24 luglio del 1993, per prevenire la sua riconquista da parte dell'Azerbaigian. Da allora essa fa parte del territorio della repubblica del Nagorno Karabakh, nella regione di Askeran, a una sessantina di chilometri dalla capitale Stepanakert.

Ufficialmente  è dal 1992, che i musulmani azeri e i cristiani armeni si stanno combattendo per il governo del Nagornij Karabakh, una regione del Caucaso meridionale che si trova all’interno dell’Azerbaigian ma che si è autoproclamata indipendente circa vent’anni fa, abitata prevalentemente dagli armeni, teatro di conflitti da quando si sciolse la federazione Transcaucasica nata dopo il crollo dello zarismo. L'Armenia la reclama come suo legittimo territorio, l'Azerbaigian rifiuta ogni concessione in merito.

Tutti i fili di una possibile soluzione politica sono ingarbugliati da una vera e propria guerra scoppiata tra le due Repubbliche e combattuta da due eserciti forti di granate, mitraglie, elicotteri e di quanto erano riusciti a strappare dagli arsenali dell'Urss appena dissolta. In quattro anni lo scontro era indietreggiato nelle campagne, si era spostato nei paesi,era dilagato nei villaggi con una furia primitiva e selvaggia che aveva causato 30mila morti (soprattutto azeri) e un milione di sfollati (quattrocentomila armeni un tempo residenti nell’Azerbaigian e cinquecentomila azeri residenti in Armenia e Nagorno-Karabakh), molti dei quali ancora oggi vivono nei campi profughi perché non sono potuti tornare alle loro case.

Eppure risale al 5 maggio del 1994 la firma, a Bishkek, in Kirghizistan, del  cessate-il-fuoco che non è stato mai rispettato. Tuttavia, il Nagorno-Karabakh, protetto dall’Armenia, ha ottenuto l’indipendenza de facto, anche se questa non è ancora riconosciuta dalla comunità internazionale. Così i due Paesi sono ancora tecnicamente in guerra. Infatti nei giorni scorsi i rapporti tra Armenia e Azerbaijan sono diventati nuovamente molto tesi e ci sono state alcune sparatorie tra militari. Vi sarebbero morti otto soldati (cinque azeri e tre armeni), mentre almeno una decina di altri militari sarebbero rimasti feriti.

Ricordo che quando vi giunsi nel 1992, un anno prima che la conquistassero gli armeni, Agdam era già ricolma di macerie, e il cuore della cittadina era diventato un cimitero a modo suo monumentale con tutte quelle tombe ricoperte di terra color ocra con le foto dei morti impallidite e sgranate dall'ingrandimento, fasciate nel nailon per resistere alla pioggia.

Il vecchio Ahrned, il custode del cimitero, che conosceva la storia di tutti quei morti, ogni volta la ripeteva trasformandola in leggenda: «Ecco la fossa della bella Leyla, uccisa dalla fucilata di un cecchino mentre portava da mangiare al fidanzato al fronte»;  «fermatevi davanti al destino tragico dei coniugi schiacciati dal crollo della loro casa colpita da una granata»; «silenzio, qui dove il muro dei fiori è più alto, sopra la foto infantile di Reza che è morto a 12 anni con un colpo che gli ha  trapassato la testa».

Il furore popolare aveva trasformato quei morti in martiri. Dal cimitero di Agdam, come da tutti quelli dei paesini percossi dalla guerra, il sentimento religioso del martirio divenuto politico si allargava e tuttora si allarga fino a raggiungere la capitale Baku per dominarla.

E l'idea tragica del Yolum, della morte cantata dai mullah - che pervade ogni cosa e le vaga «attorno come una cammella cieca» - che riscrive la storia, immobilizza l'attualità e condiziona la politica. Perché oggi come ieri, il Paese vive la sconfitta militare come l'ingiustizia suprema e calcolata subita per volontà di Mosca, la quale non sopportando per questioni geopolitiche ed economiche un Azerbaijan troppo “occidentale”, sostiene gli armeni cristiani, nemici dei  musulmani azeri da sempre.

Sicché i cinque morti degli scontri di poche settimane fa (al nord della linea di confine tra i due paesi, nei pressi del villaggio di Ashagy Askipara, un’ex striscia di terra azera ora controllata dall’Armenia), sono il nuovo anello della lunga catena dei martiri. Sono essi ad essere evocati ogni qualvolta c’è da rispondere a una accusa. Accadde dopo i pogrom azeri contro gli armeni; dopo l'eccidio di Sumgait (26 febbraio 1988) sul Mar Caspio, durante il quale furono uccisi a colpi di coltello o scaraventati dalle finestre più di cento armeni.

Accadde dopo il blocco delle frontiere agli armeni colpiti dal terremoto. «Per svuotare l’Armenia da  qualsiasi forma di vita», spiegavano i volantini  del Fronte popolare. Così ogni conflitto con gli armeni era ed è tuttora un episodio isolato da ogni altro contesto, diventa sindrome di separatezza e di martirio capace di unire il risentimento  con l’orgoglio nazionale, il riformismo politico e l'antimodernismo islamico, l'ossessione della persecuzione e l’esaltazione della tragedia.

Ai ministri del culto resta il compito di alimentare il dolore e coltivarlo, per raccoglierne il frutto politico, che si traduce per esempio nel sostegno incondizionato al Turkic Council dopo che esso ha cooptato due organizzazioni in precedenza autonome: la Turkic Academy fondata nel 1992 in Kazakistan, e la sua Assemblea Parlamentare fondata nel 1998 in Azerbaigian. Così facendo Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia si sono legate un patto che si fonda sulla fede e sul petrolio. Non a caso il  primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan ha compiuto il mese scorso un viaggio di “diplomazia economica” in Pakistan e Kazakistan, firmando importanti accordi commerciali con entrambi i Paesi senza perdere di vista la nazione azera.

Il viaggio di Erdogan nelle regioni del “Grande Gioco” era apparentemente finalizzato alla partecipazione al Quinto Forum Economico di Astana nella capitale kazaka, con il quale il presidente Nursultan Nazarbayev sta cercando di creare una sorta di Davos centroasiatico. In effetti, il  tour di Erdogan rientrava nel quadro del riorientamento della politica estera turca, che accantonata la dottrina dello “zero problemi con i vicini”, si sta avviando verso una nuova “direzione eurasiatica” nella quale l’Islam (sunnita e sciita)  ne sarà il collante.

Uno scrittore laico come Razul Anar me l’aveva a suo modo profetizzata vent’anni fa, la crescita islamica. Nel salone colmo di stucchi dell’Associazione degli scrittori, mi ricordava che loro, gli azeri, per primi avevano condannato  gli eccidi di Sumgait, ma «nessuna voce internazionale s'era levata per condannare la strage di Hodgiali dove duemila azeri erano stati passati per le armi dagli armeni. Il che vuol dire - mi spiegava - che per giudicare si usano due pesi e due misure, pertanto noi siamo vittime di ambedue le guerre: di quella "fredda" e di quella "calda" che si combatte sui campi di battaglia intorno al Nagornij Karabakh. L'unica cosa certa è che per ora i fondamentalisti islamici sono una minoranza, ma questa invasione armena può regalare loro moltissimi nuovi fedeli».

Ricordo che sul cippo all'entrata del cimitero di Agdam, dove si deponevano i cadaveri per l'ultima  abluzione, i mullah itineranti spiegavano che Munkar e Nakir (i due angeli inquisitori dell'Islam che interrogano i morti  al fine di certificarne o meno la retta fede islamica), non sarebbero intervenuti, perché per i caduti di quella guerra non ci sarebbe stato il «tormento della tomba», fino al Giudizio Finale che apre ai peccatori le porte infernali, coi suoi tormenti e le sue sofferenze.

Perché Allah, padrone di ambo i mondi, aveva già salvato i morti della guerra del Karabakh, poiché essi «hanno dato la vita per la Patria, si sono conquistati la gloria, dunque sono santi», recitavano i mullah. E così predicando raccoglievano e indirizzavano la disperazione e il dolore della gente verso l’ integralismo. Erano sempre i mullah itineranti che andavano di porta in porta invitando le famiglie azere a concepire  quanti più figli possibile, per farli crescere musulmani e poter vendicare l'onta subìta dai cristiani armeni.

Ma non pensate agli azeri come a un popolo avviluppato in un'arretratezza secolare, incupito dalla tragedia della guerra, ma offeso questo sì, a  tal punto da spingersi nelle braccia dei mullah con la certezza di vedere in un giorno prossimo riscattata la linea del confine. E’ lo stesso paesaggio dalle parti del Karabakh che sembra confermare quest’ attesa.

Infatti, il giro piatto dell' orizzonte con il profilo lontano delle montagne del Caucaso, che si alzano improvvise tra i barbagli di giallo alle pendici e i riflessi bianchi di neve, in lontananza disegnano un confine, almeno in senso psicologico.

Poiché lì, in un punto ove le montagne altissime si avvicinano, Alessandro Magno avrebbe costruito la barriera per salvare questa parte di mondo dai popoli di Gog e Magog, gli dèi del male. «E Gog e Magog non poterono scalar la muraglia, non poterono aprirvi una breccia», così recita la diciottesima sura del sacro libro del Corano.

Fu di qua delle montagne, a nord di Agdam, nella città di Bardà, che Alessandro Magno incontrò la regina Nushaba e la sua corte di amazzoni com'è raccontato nella Khamsé, "I cinque tesori", il poema di Nezami, il massimo poeta azerbaigiano che intorno all'anno Mille ripercorse la leggenda alessandrina adornandola di «gemme di Persia e d'Arabia», come gli aveva ordinato il suo augusto committente, il sultano Ahsitan della dinastia  degli Shirvanshah che esistette dall'861 al 1538, più di qualsiasi altra dinastia nel mondo islamico.

Si tenga a mente poi che  Nezami, considerato il più grande poeta epico-romanzesco della letteratura persiana poiché portò uno stile realistico e colloquiale nell'epica persiana è apprezzato e condiviso da Iran, Tajikistan, Afghanistan e Azerbaijan. Così meglio si capisce di che forza è il collante che unisce queste genti.

Sicché quando nell’Ottocento, da quelle gole scesero i russi dilagando verso la Persia, il popolo subito li paragonò alle orde sataniche di Gog e Magog, e lo sgomento fu così grande che si è tramandato di generazione in generazione fino ai nostri giorni, perché la dominazione russa è stata - a sentir loro - la più grande disgrazia che gli potesse accadere.

Perché l'economia agricola era stata stravolta  dalla monocoltura del cotone imposta nei settant'anni di potere moscovita; perché erano stati trattati come se fossero una colonia della Russia, la quale  aveva russificato perfino i nomi delle genti azere, come gli Hussein e i Rsa che erano diventati Husseinov e Rsaev, e lo sono tuttora.

Naturalmente i soldati oggi sulla tuta mimetica hanno un distintivo che riproduce i colori dello stendardo della Repubblica azerbaigiana democratica, la quale durò dal 1918 al 1920, la prima in tutto l'Oriente, dove l'azzurro ricorda la libertà,il rosso con la mezzaluna l'appartenenza alla razza turca, il verde il colore dell’Islam.

Va pure detto che questo Stato musulmano ricco di petrolio e fornitore di energia all'Europa, oltre che rotta di transito per le truppe Usa, è governato da vent’anni dalla stessa famiglia, da quando cioè nel 1993 Heydar Aliyev, (in precedenza numero uno del partito comunista, così come tutti i leader caucasici e centroasiatici arrivati al potere dopo il crollo dell’Urss) ha affidato l’incarico - nel 2003 - al figlio Ilham, suggellando un passaggio di consegne che non ha precedenti nello spazio post-sovietico.

Così in Azerbaigian si continua ad amministrare con altrettanta disinvoltura, ricorrendo a  misure di facciata per sedare il malcontento popolare e alla repressione sistematica per tacitare ogni forma di dissenso, come è avvenuto qualche mese fa appena s’è avuto il sentore di una rivoluzione  detta dei gelsomini,  dentro i confini di casa.

Tuttavia sono i racconti su quel che accade lungo la frontiera col Karabakh, assieme a quelli dei profughi e le fotografie dei morti negli scontri che si succedono di anno in anno, che scuotono la gente soprattutto quella delle campagne che rappresenta la maggioranza della popolazione.

Così rimbalzano come d’incanto gli scenari delle case distrutte, dei giardini devastati, delle moschee  in rovina, di pezzi di storie private che riemergono dal fondale del furore collettivo sempre pronto a scatenarsi ogni volta che un fatto si collega al  Nagorno-Karabakh, “usurpato”dall’Armenia cristiana.

Vent’anni fa sulla linea del fronte, siccome era da poco collassata l’Urss e con essa anche l’Armata Rossa, non c’era un esercito regolare, ma una sorta di guardia nazionale composta da volontari, molti dei quali giovanissimi con indosso la tuta mimetica senza né gradi né mostrine, ma soltanto una coccarda con i colori della bandiera azera.

Parlavano poco e  si guardavano in giro con aria attonita, tipica di quello straniamento delle  reclute che pensano sempre al ritorno a casa mentre aspettano che trascorra il giorno.

A quel tempo era difficile immaginare come sarebbe cresciuta quella generazione di combattenti-volontari che a vent’anni aveva già vissuto gli orrori della guerra, parlava di ferite inferte spesso “per puro spregio” dagli armeni sui corpi delle loro donne e dei loro compagni uccisi.

Eppure, se la frontiera con la città fantasma di Agdam, la sua moschea diventata stalla e con le sue storie, sembra lontana e poco influente  basta una sola considerazione ad avvicinarla di colpo.

L'Azerbaigian gioca un ruolo chiave per l’Unione europea, la quale non vuole dipendere per le forniture energetiche soltanto dalla Russia. Si tenga a mente che tutti i progetti lungo il cosiddetto “Corridoio Sud”, a cominciare dal gasdotto Turchia - Grecia - Italia, hanno come protagonista Baku.

Sicché se il presidente turco Erdogan fa più riferimenti ad Allah nelle sue dichiarazioni pubbliche di quanto non ne abbia mai fatti in passato, sicuramente pensa anche all’Azerbaigian, dove si parla l’azero che è una lingua turca e dove i turchi sono di casa fin dall’anno Mille.

Ve li condusse. Mahmud, il più importante tra i sultani della città afghana di Ghazna, il quale con le sue conquiste trasformò il regno in un impero che comprendeva gli attuali Afghanistan, Pakistan, India nordoccidentale e, naturalmente, l’Azerbaigian. Per dire, quanto la Storia conti anche da queste parti.

www.vincenzomaddaloni.it

 

 

 

 


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