di Liliana Adamo

La potenza schiacciante dei media al servizio di un ben congegnato depistaggio sul clima; si chiama Global Warming Policy Foundation, raccoglie un manipolo di scettici sul cambiamento climatico (con Lord Lawson, in testa), che, a loro volta, occultano i veri mandanti, i fondamentalisti del libero mercato (e i loro alleati politici), referenziati dall’Heartland Institute, potente gruppo di pressione con sede a Chicago. Gli stessi che hanno orchestrato una campagna tesa a screditare pesantemente i risultati del Gruppo Intergovernativo, meglio conosciuto con la sigla IPCC.

Nel suo Quinto Rapporto di Valutazione (The Physical Science Basis), reso pubblico il 27 settembre scorso, l’IPCC ha fornito la sua versione sull’evoluzione dei cambiamenti climatici: “Il riscaldamento del clima terrestre si aggrava per colpa in gran parte dell’uomo. La temperatura della terra aumenterà da 0,3 a 4,8 gradi centigradi, entro il 2100. I primi dieci anni del nostro secolo sono stati i più caldi dal 1850…”.

E, mentre si teneva la presentazione ufficiale del documento a Stoccolma, Londra si convertiva a fulcro universale dell’agnosticismo climatico, per controbatterne le tesi e fomentare i media. Giusto per rubare la scena al gruppo Intergovernativo, ecco che, nello stesso giorno, è stata indetta una mega conferenza stampa, una sorta di duello a distanza.

Ciò che i media non hanno comunicato è la brigata d’ultraliberisti (chi manovra i fili dell’Heartland), che rimunera un gruppo di scienziati in pensione affinché producano falsi dossier confutando sia l’esistenza sia gli effetti del global warming, orientando un massiccio movimento d’opinione a  livello internazionale.

Primi attori nella conferenza stampa londinese, Fred Singer e Robert Carter, hanno dato il meglio di sé sfoggiando una visione diametralmente opposta a quella presentata dai veri ricercatori sul clima. La BBC non si è lasciata sfuggire l’occasione e ai due ha predisposto un tour presso gli studi del Broadcasting House con interviste a go go; addirittura, il tempo stimato per questi incontri è risultato molto più lungo rispetto a quello dedicato alla presentazione del famoso Rapporto sul Clima, redatto dall’IPCC: McLuhan docet.

Gli artefici della BBC (come quelli dell’ITV News at Ten, del Daily Telegraph, per rimbalzare fino al Time), hanno finto d’ignorare che gli stessi Carter e Finger si sono guadagnati l’attuale popolarità quali autori di una campagna d’affissioni che accomuna l’Unabomber, al secolo Ted Kaczynski a Charles Manson, dichiarandoli entrambi proseliti del riscaldamento globale (sic).

Inconsapevoli anche che lo stesso professor Carter (un geologo australiano, specializzato in paleontologia, stratigrafia, geologia marina e scienze ambientali, chiamato dai suoi detrattori “climate misinform-er”), presta la sua opera (contributi a siti web e opuscoli) al “Consiglio consultivo Accademico” della londinese Global Warming Policy Foundation di Lord Lawson (di cui è membro), al contempo è portavoce dell’Heartland Institute di Chicago, in un pacchetto "all inclusive".

Il professore ha fatto la sua fortuna in propagande soppesate con piani marketing d’azione, coadiuvato dalle migliori menti (giunte ormai all’età della pensione), raccattate qua e là dopo una modesta carriera nelle varie università d’oltreoceano.

L’intera congerie non potrebbe neanche presentarsi a tv e giornali se non fosse attentamente coordinata da potenti mezzi e alleati politici, che la usano per screditare e travisare i risultati del Gruppo intergovernativo d’esperti.

I giorni londinesi dell’attacco frontale ai risultati dell’IPCC, hanno dimostrato come una piccola cricca rastrellata sotto l’egida di skeptical science, sia stata in grado d’utilizzare reti politiche, legami familiari e simpatie ultraliberiste, in una sorta di rassicurazione che, lungi d’essere tale, palesa l’intento a deviare e falsare il dibattito pubblico in un paese, il Regno Unito, notoriamente sensibile alla difesa dell’ambiente e a soluzioni che contrastino il cambiamento climatico.

Contro l’IPCC si sta preparando una belligeranza mediatica su larga scala: per mantenere lo status quo sul global warming si fa anche questo.

di Vincenzo Maddaloni

Praga. Chissà cosa direbbe Libuše, la principessa del popolo Ceco che secondo la leggenda fondò Praga nell'VIII secolo, più esattamente nel 730. Di certo la Fondatrice che s’era augurata «una città nel mondo illustre e la cui gloria raggiungerà le stelle», sarebbe perplessa, per non dire allibita dalla vista della sua capitale trasformata - con le bancarelle e i massaggi Thai - in una sorta di Disneyland dentro alla quale ogni giorno si accalcano decine di migliaia di turisti, che salgono verso il mitico castello che già nel X secolo era simile a quello attuale. Una dissacrazione quotidiana come accade a Venezia e  nelle altre città d’arte.

Di certo Libuše [nella scultura a lato assieme a Premysl] che avrebbe avuto il dono della profezia e “vedeva” nel futuro, non si sarebbe stupita di quanto sta accadendo oggi nel suo Paese. Poiché ella sposò Premysl, un contadino, anticipando un connubio democratico - davvero inaudito per una sovrana - con il quale regnò sul popolo cèco. Sicché oggi questo brano di leggenda riaffiora e non a caso, poiché il 25-26 ottobre nella Repubblica Ceca si svolgeranno le elezioni, provocate da una crisi di governo irreparabile che aveva colpito prima quello liberamente eletto e poi quello “tecnico” che gli era per forze di cose succeduto.

Il Lidové Noviny, (Quotidiano del Popolo, una delle testate più autorevoli e antiche della Boemia), già avverte che «il panorama politico ceco si sposterà a sinistra e si tingerà di rosso». Gli analisti sostengono che i socialdemocratici e i comunisti potrebbero raccogliere tre quinti dei seggi, abbastanza da riscrivere la Costituzione. E spiegano che, in un momento in cui la situazione economica è tra le peggiori dell’Ue (soltanto i paesi del Sud e l’Ungheria sono più in difficoltà), in molti vogliono «un governo forte a guidare il Paese».

Si tenga a mente che col ritorno alla democrazia (1989) si sono riaffacciati anche sul panorama politico ceco i partiti di diverso orientamento. Una curiosità è che, analogamente a quanto accadde in Polonia con Solidarnòsc, le due maggiori forze politiche ceche, il CSSD, Partito Socialdemocratico (centrosinistra) e l’ODS, Partito Democratico Civico, (centrodestra) sono due dirette emanazioni del Forum Civico di Havel, a testimonianza del fatto di come l’opposizione al comunismo raccogliesse consensi trasversali nel Paese.

Altre forze politiche di minore entità sono il partito TOP ’09 (Tradizione, Responsabilità, Prosperità) marcatamente di destra, il partito centrista e democristiano KDU-CSL e il Partito Verde, che si attesta sempre su buone percentuali (6-7 per cento). Un discorso a parte merita il KSCM, il Partito comunista di Boemia e Moravia. Erede diretto del Partito comunista di Cecoslovacchia, il KSCM ha sempre goduto di un consenso non di poco conto, registrando, alle ultime elezioni regionali dell’ottobre 2012, il 23 per cento dei voti e 14 seggi su 45.

Stando così le cose si capisce perché le elezioni del 25-26 ottobre diventano importanti. I sondaggi prevedono come primo partito il CSSD dei socialdemocratici, senza che però esso consegua la maggioranza assoluta, eventualità che potrebbe spingere i socialdemocratici a formare un governo di coalizione proprio con il KSCM. E’ una prospettiva che inquieta personaggi come il politologo Igor Lukeš, luminare dell’Università di Boston, il quale ricordando che i comunisti imposti da Mosca conservavano il potere a forza di esecuzioni, si stupisce che i cechi continuino a votarli. «È qualcosa di unico che non ha precedenti in tutto l’Est Europa”, sbotta il professore.

Gli dà sostegno il De Standaard, il quale si dice convinto che i cechi soffrano di “un’amnesia generale”. Sicché «non possiamo trovare una dimostrazione migliore della memoria corta dell’umanità», scrive il quotidiano fiammingo, ricordando che i comunisti cechi che non hanno mai preso le distanze dai decenni di comunismo stalinista, «si sono affermati un po’ ovunque come forza politica di peso».

Naturalmente il De Standaard non accenna al fatto che la Repubblica Ceca da più di due anni attraversa la più lunga recessione economica della sua storia. Tanto meno informa che nella regione dell’est del Paese c’è  il rischio di una “catastrofe sociale”, come rileva il quotidiano Mf Dnes (Fronte della Gioventù - Oggi) Secondo il giornale - tra i più influenti e diffusi - la regione già colpita dalla disoccupazione a lungo termine (9,68 per cento contro una media nazionale del 7,5 per cento) è minacciata da una nuova ondata di licenziamenti, con la previsione che 71mila persone potrebbero perdere il lavoro.

Malauguratamente quanto sta accadendo a Praga non fa storia a sé, poiché la crisi economica ha nuociuto gravemente all’intera democrazia liberale europea. Il modello che univa l’economia di mercato a una vasta gamma di servizi sociali, e che ha trasformato l'Europa in un punto di arrivo per milioni di persone provenienti dall'Africa, dall'Asia e dall'America del sud non regge più.

Il continente è in fallimento, a parte alcune eccezioni come la Germania e i Paesi scandinavi che hanno applicato in tempo le manovre necessarie per evitare il disastro. Dove questo non è accaduto, sono subentrati i non-liberali i quali sono riusciti ad occupare gli spazi abbandonati dai liberali.

Come se gli elettori, indignati dalla incapacità della politica di dare risposte adeguate, scandalizzati dalla corruzione che dilaga nei centri del potere, ne avessero abbastanza di questi ventitré anni di sperimentazione liberale e aspirassero al ritorno di uno stato forte, in grado di farsi carico dei loro problemi. Sicché quanto sta accadendo nella Repubblica Ceca è la prova più evidente che la democrazia liberale nell’Europa centrale è diventata la più grande vittima della crisi.

Eppure, i tempi con i quali i cechi si scrollarono di dosso i comunisti furono fulminei rispetto a tutto l’Est. La Rivoluzione di Velluto (così definita perché il Partito comunista di Cecoslovacchia rinunciò pacificamente al potere), nel giro di poco più di un mese (metà novembre - fine di dicembre 1989), varò il Forum Civico di Vaclav Havel (ex scrittore ed attore di teatro) con il quale egli organizzò una serie di manifestazioni di protesta contro il regime che riscossero grandissimo successo tra la popolazione, tanto da costringere i vertici comunisti a dimettersi. Poche settimane dopo, il 29 dicembre, Havel venne nominato Presidente della Repubblica e Alexander Dubcek, l’eroe della “Primavera di Praga” del 1968, fu chiamato a guidare la Camera.

Da quel giorno, nel paese che ancora per pochi anni si chiamerà Cecoslovacchia, prese avvio il  pluralismo, il multipartitismo e la libertà di espressione, assieme alle prime tensioni etniche, fino ad allora opportunamente coartate dal regime comunista. Nel 1993, infatti, la Cecoslovacchia si divise pacificamente in due repubbliche, Repubblica Ceca e Slovacchia.

Ricordo che l’ultima volta che incontrai lo scrittore e poeta  Bohumil Hrabal - qualche mese dopo la divisione del Paese, gli chiesi tra l’altro se sarebbe ritornato a Kladno, la città che dopo la separazione era rimasta ceca, dove egli aveva ambientato “Allodole sul filo” il suo romanzo che racconta di un deposito di rottami metallici trasformato negli anni Cinquanta in un campo di rieducazione per borghesi che avevano cercato di espatriare clandestinamente, costretti a un lavoro manuale.

Una satira arguta sull'assurdo quotidiano e la stupidità burocratica di un regime stalinista che egli iniziò a scrivere durante la "primavera di Praga" del '68, e la terminò nell’anno seguente, quando il Paese era tornato in mano ai comunisti. Proibito dalla censura, disseppellito vent'anni dopo, il romanzo era stato tradotto in un film che vinse l’Orso d’oro del 1990. Era il mio uno spunto per sentire il suo pensiero.

Nell’osteria U Zlatého tygra, Dalla Tigre d’oro, (dove riuscì persino a trascinarvi il presidente Havel e il presidente Clinton, in quello stesso posto hanno appeso a ricordo la sua foto), egli mi rispose con un’alzata di spalle, un sorriso e la levata del bicchiere di birra com’era solito quando non aveva voglia di replicare se la domanda non gli piaceva.

Questo accadeva sovente se la domanda riguardava l’attualità. Accadde anche nell’Agosto dell’Ottantuno, un anno dopo la rivolta di Solidarnosc in Polonia e la comparsa del nuovo papa - Karol Wojtyla - che con le sue esternazioni stupiva il mondo. Anche allora Hrabal non si lasciò prendere dall’entusiasmo, dall’emozione. Come la principessa  Libuše sussurrò un augurio: «Speriamo che duri». Infatti accadde, ma dopo che la Polonia attraversò il colpo di Stato del generale Jaruzelski e altri sei anni di governo comunista.

Dopotutto Hrabal era per molti versi personaggio che apparteneva al surreale come i suoi racconti, i suoi romanzi che traboccano di descrizioni anti-eroiche, di vicende quotidiane minime sempre al limite del paradosso. E’ il suo un acuto e perciò prezioso bric-à-brac - un flusso ininterrotto di invenzioni e di "chiacchiere” - da Marché aux Puces, che gli diede subito notorietà e lo rese scrittore amato, perché imprevedibile, surreale appunto. Un surrealismo inteso - si badi bene - come ribellione alle convenzioni culturali e sociali, concepito come una trasformazione totale della vita. Se si tiene a mente l’epoca con il mondo diviso in due blocchi, meglio si capisce la peculiarità coraggiosa del messaggio di Hrabal.

Sicché mi è tornato in mente Bohumil Hrabal voltando in via Husova, la strada di U Zlatého tygra, la sua osteria perché più di ogni altro egli riassume l’imprevedibilità - che sovente aderisce al paradosso - dei Cechi, i quali s’inventarono la leggenda della principessa “democratica” Libuše, e poi scelsero il velluto per abbinarlo alla parola  “Rivoluzione”, che divenne un “marchio” strepitoso perché mai era accaduta prima una così contrastante unione. Come adesso rischia di esserlo pure questo riavvicinamento al comunismo, vissuto non come semplice amarcord, ma come nostalgia per un  sistema statalista che, sebbene nel male più che nel bene, provvedeva a tutto. Non a caso si sente spesso dire nei dibattiti che gli elettori si sono fatti “rubare” lo Stato.

Naturalmente, è difficile dire se ci stiamo avviando verso la fine della democrazia liberale e, con essa, anche dell’economia di mercato in questi paesi ex comunisti dell’Europa centrale, che sono stati finora i più devoti sostenitori del capitalismo. In ogni caso, i traumi delle economie dell’Europa centrale hanno un peso sui responsabili politici di cui non ce n’è memoria, come degli umori disincantati delle loro genti. Che leggono, studiano, s’informano. Un’abitudine che hanno acquisito fin da ragazzi, a casa e a scuola.

Infatti, basta salire sulla scala mobile della metro della stazione di Nàmesti Republiky in centro, oppure di Opatov alla periferia di Praga per vedere scorrere sulle pareti la pubblicità del burghy che si alterna con quella delle copertine dei libri. Che non sono i gialli alla Camilleri, bensì per la gran parte saggi che riguardano l’economia. Significa che i libri sono richiesti, che vanno molto, perché il prodotto ha margini ristretti di guadagno e la pubblicità costa, anche a Praga. Di certo, sono scorci di parete inimmaginabili di là delle Alpi. Cioè da noi, e anche questo per molti versi fa la differenza

di Silvia Mari

Mancano pochi giorni alla data di chiusura, il 15 settembre,  della mostra di Sebastiao Salgado all’Ara Pacis di Roma. Per chi non avesse ancora avuto modo l’invito è di andare.  Per chi non può slegare il valore assoluto dell’estetica e del bello dalla tensione etica e filosofica, la galleria di fotografie in bianco e nero è un “santuario” imperdibile. “Genesi” questo il nome del progetto che, parallelamente a Roma, è partito a Londra, Rio de Janeiro e Toronto vuole catturare la bellezza del pianeta senza alterarla, restituendola alla sua purezza.

Animali, clima, vegetazione e uomo convivono in un equilibrio perfetto in cui i piani del dominio sono - ove ci sono - quelli della natura e della legge della vita, anche nelle sue note più crude e primitive. L’ambizione è quella di proteggere il pianeta dalle avventure di uno sviluppo distruttivo e scellerato. Antartide, Patagonia, Etiopia, Indonesia e altri luoghi remoti rappresentano i fotogrammi di un viaggio che protegge, custodisce e denuncia.

A questo proposito, come ricorda la moglie del fotografo curatrice della mostra, Lelia Wanick Salgad, da questo lavoro è nato un progetto che fa capo alla Fondazione no–profit sorta nel 1998 per il rimboschimento di circa 800 ettari di Amazzonia distrutta e ridotta a sabbia bruciata.

Le fotografie non rappresentano quindi le velleità di uno scienziato della natura, né quadri di un pittore che tende a sovrapporre il piano di un sogno o di un dramma personale. Le immagini vivono, parlano e, come Salgado dice di sé, nascono dallo sguardo di un uomo curioso che non si accontenta della contemplazione, ma cattura il cuore di uno splendore tanto perfetto quanto fragile.

L’obiettivo è quello dell’arte, ma il momento dell’opera immortalato è tutto giornalistico. Racconta, segue in movimento animali, uomini e donne in riti e tradizioni, foglie di palma e castelli di ghiaccio polare, denuncia il rischio di cose che possono finire, utilizzando il ripetersi di quadri viventi che vogliono rammentare al visitatore che tutto quello che è messo in cornice esiste davvero in punti precisi del nostro pianeta. La mostra come un lungo viaggio.

Da Parigi, la città in cui vive, Salgado non ha smesso infatti di essere un viaggiatore. Non un apolide, fatto di sola inquietudine, ma uno che ama ricordare. Da qui la promessa di restituire un po’ di foresta rubata al Brasile, tutelandola con un impegno che è anche politico ed economico, nonché ecologico.

Sono in molti a rimproverargli di aver fatto fortuna sul dolore dei drammi umani. L’arte non ha bisogno, nella sua accezione più romantica, di un fine morale per essere riconosciuta nel suo assoluto valore. Ma è certamente vero che quando il bello catturato da un artista colpisce una coscienza, l’arte è già altro da sé.

E’ il desiderio di un impegno, un pensiero, una smorfia di concentrazione o stupore rivolta a se stessi. Quella che l’occhio di Salgado, in un raffinato bianco e nero, coglierebbe senza esitazioni. Non il volto di quella donna, al termine della visita, fotografato nella sua ovale armonia, ma la ruga più nascosta che ne racconta il pensiero di quel preciso momento. La bellezza più fragile.

di Sara Michelucci

Nel 2013 cade il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi (1813-2013). Tante le iniziative a livello nazionale che fanno rivivere in teatro le opere del grande maestro. Rigoletto, Il Trovatore e La Traviata sono i tre titoli previsti all’anfiteatro romano di Terni. La prima opera, andata in scena lo scorso 27 luglio, ha offerto al pubblico il melodramma in tre atti per la regia di Massimo Patroni Griffi, direttore Marco Gatti. Tra gli interpreti, Antonio De Palma nel ruolo del Duca di Mantova, Mauro Augustini nel ruolo di Rigoletto e Fernanda Costa nel ruolo di Gilda.

Rigoletto è una delle opere più conosciute e apprezzate di Verdi, centrato sulla drammatica e originale figura di un buffone di corte. Sulla scena si alternano i temi della passione, del tradimento, dell’amore tra padre e figlia e della vendetta. Rigoletto crea una perfetta simmetria di ricchezza melodica e potenza drammatica, senza dimenticare i temi sociali e la subalterna condizione della donna.

Una rappresentazione della realtà nella quale il pubblico ottocentesco poteva rispecchiarsi. Intense le interpretazioni dei cantanti, che offrono pathos e grande talento a un’opera già di per sé impeccabile. Il Tema della maledizione, dal punto di vista musicale, si ripete in maniera costante, con la nota Do in ritmo puntato. La scena è ambientata a Mantova e dintorni nel XVI secolo.

I personaggi principali sono il duca, il buffone, Gilda (la figlia del buffone), Sparafucile e la sorella Maddalena. L’opera è composta in tre atti, dove i lirici interpretano la maledizione del Rigoletto, il buffone di corte. La prima del Rigoletto ebbe luogo l'11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia. A portare in scena le opere, grandi interpreti del canto e registi affermati, insieme al Coro lirico di Brasov e Craiova, Romania, e all’Orchestra sinfonica ‘Tchaikovsky’ della Repubblica di Udmurtia, Russia.

Il 30 luglio alle ore 21 andrà in scena ‘Il trovatore’, dramma lirico in quattro atti per la regia di Mariano Rigillo, direttore Leonardo Quadrini. Tra gli interpreti, Mauro Augustini, nei panni del Conte di Luna, Francesca Rinaldi, nei panni di Leonora e Ambra Vespasiani, nel ruolo di Azucena.

Infine, sabato 3 agosto alle ore 21 andrà in scena La traviata, melodramma in tre atti per la regia di Enrico Stinchelli, direttore Massimo Gualtieri. Tra gli interpreti, Maria Dragoni nel ruolo di Violetta Valéry, Ambra Vespasiani nel ruolo di Flora Bervoix, Francesco Malapena nel ruolo di Alfredo Germont ed Ettore Nova nel ruolo di Giorgio Germont.

La stagione lirica 2013 è stata organizzata dall’associazione Otv Terni, Orchestra del Teatro Giuseppe Verdi, a Terni, ad opera di Marco Gatti e Massimo Gualtieri, e realizzata anche grazie al contributo della Regione Umbria, dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Terni e della Fondazione Carit.

di Vincenzo Maddaloni

MOSCA. Su quella stessa piazza di Mosca dove oggi sorge la cattedrale di Santa Caterina, duecento anni fa giunse Golovatij, il capo, l'ataman dei cosacchi Zaporoghi, col suo mantello vermiglio sulla cerkeska nera, la lunga barba e in testa il colbacco di astrakan da combattimento. Prese il sale e il pane che una fanciulla bionda gli porgeva come segno di benvenuto sulla nuova terra e sguainò la spada davanti ai suoi soldati.

Lui che aveva combattuto mille battaglie e aveva pianto la morte di Pugacev il ribelle, il condottiero che per i cosacchi era stato lo "zar della speranza"; il temerario che aveva osato sfidare Caterina la Grande  mettendo le Russie a fuoco e fiamme finché non era stato catturato e condotto davanti a San Basilio a Mosca sul Lobnoie Mesto, il cippo di marmo dove venivano eseguite le condanne. La sua testa cadde per prima con un colpo di mannaia, poi il suo corpo smembrato in quattro parti fu trascinato dai cavalli intorno alla piazza perché chi non avesse visto potesse capire quale sorte spettava a chi osava ribellarsi all'Imperatrice.

Ma oramai erano passati dall'esecuzione vent'anni e l'armata cosacca, che si era coperta di nuova gloria sul Mar Nero, nella guerra contro i turchi della Sacra Porta, aveva ricevuto le terre del Kùban, nel Nord del Caucaso, e il metropolita aveva alzato la mano per benedire l'ataman Golovatij, i suoi Zaporoghi ed Ekaterinodar, il "Dono di Caterina", cioè la terra sulla quale sarebbe sorta la città fortezza con 43 villaggi che quei figli di nomadi della steppa si apprestavano a costruire, 1792 anni dopo la nascita della Santa Rus'. E che nel 1920 sarebbe sta ribattezzata col nome di Krasnodar dato che, in russo la parola krasnij può intendersi con i tre diversi significati di rosso, di bello e di splendido dei quali ciascuno potevano andar bene nel Paese della rivoluzione rossa.

Ma dovettero trascorrere settant'anni e passa prima che potessero ricomparire (giugno 1992) nella piazza di Krasnodar i cosacchi. Per primo vi giunse Aleksandr Gavrilovich Martynov, quarantenne piccolo e tarchiato, direttore dell'autorimessa n. 14 di Mosca, assieme ai capi dei cosacchi del Don e del Kùban, della Siberia e dell'Ussuri, del Dnepr e degli Urali. Si erano ritrovati per celebrare  la rifondazione degli Zaporoghi del Kùban, dopo che il primo presidente del periodo post sovietico Boris Eltsin con un decreto  li aveva riabilitati considerandoli "vittime della repressione sovietica".

E così rifondandosi in gran pompa, con una certa alterigia e un ostentato vigore, da allora i cosacchi sono tornati ad essere la reincarnazione della fede-nazione, della russificazione storica e patriottica dei particolarismi etnici che agitano l'immenso Paese dentro i suoi confini. Il loro compito è diffondere tra le genti russe quel coraggio necessario per rinsaldare la rete degli interessi comuni capace di frenare le spinte centrifughe.

Così li vuole Putin, perciò li incoraggia e li sostiene. Essi gli servono. Fino a ieri li aveva usati solo nella guerra vera, durante l' invasione del territorio georgiano nel 2009, inviando battaglioni cosacchi in Ossetia e Abkhazia del Sud. Adesso li utilizza per  incutere timore agli integralisti islamici di Cecenia, Daghestan e Kabardino Balkaria e anche ai giovani piccolo borghesi delle grandi città che da qualche tempo hanno preso l' abitudine di inscenare grandi manifestazioni di piazza contro il potere.

Infatti,  a Mosca capita spesso di  vederli aggirarsi pure nelle ore notturne, come ronde di quartiere in uniforme storica, pronti a dare una lezione a qualche ubriaco un po' troppo sguaiato o a segnalare rabbiosamente alla polizia eventuali «comportamenti immorali» sui marciapiedi di periferia. Marziali e spavaldi. Forgiati nelle loro nuove accademie, centri di addestramento, scuole religioso-militari protette, benedette, e gestite dal Patriarca ortodosso in persona, il quale non vuole perderne la tutela dal momento che persino Tolstoj ebbe ad affermare che «furono i cosacchi a creare la Russia».

In fondo, questo inizio di Ventunesimo secolo è agitato dalla stessa ansia del Diciottesimo, che portò Caterina a rimettere ordine nell'impero con molte ingiustizie e contraddizioni, poiché anche allora, come ricorda l'acuto cronista dell'epoca Vinskij, «il problema sta soprattutto nella mancanza di personale competente». A Vladimir Putin gli uomini con i pantaloni blu dalle bande rosse che un tempo indicavano l'esenzione dalle tasse, gli vanno benissimo, sebbene i cosacchi non siano proprio una garanzia di fedeltà assoluta allo Stato, come constatarono nei secoli molti zar preoccupati dalla turbolenta e intermittente obbedienza dei loro migliori cavalieri.

Ma a Putin, ansioso di "bonificare" le difficili aree del Caucaso islamico e separatista, e impegnato a tenere sotto controllo le piazze, essi gli diventano indispensabili. Sono per lui un efficiente spauracchio da ostentare  anche durante le recenti manifestazioni che hanno agitato le piazze di 28 città della Russia in seguito alla condanna del giovane blogger Navalnyj e al tentativo di Putin di chiudere per sempre la bocca al dissenso.

Dopotutto da secoli, come si legge sui libri di storia, ogni qualvolta è arrivato in Russia il vento del cambiamento, i cosacchi, in sintonia con la loro natura ribelle, non sono mai stati dalla parte del nuovo, e meno ancora del dissenso. Hanno sempre difeso e con tenacia la conservazione, anche se da sempre nell'organizzazione dei clan applicano una sorta di socialismo con la proprietà collettiva nelle stanitze, cioè i villaggi; e una democrazia rappresentativa con l'elezione dell'ataman, il loro capo, a suffragio universale. Non vanno oltre.

Infatti la storia li dipinge come il braccio armato dello zar. Sono loro che sopprimono le rivolte, e sono ancora loro che combattono i bolscevichi, e l'ultima cavalleria, le ultime cariche dei "bianchi" sono proprio quelle dei cosacchi.

E quando nel 1944 l'ataman del Don, l'ex generale zarista Piotr Nikolaevic' Krassnov, dal suo esilio in Francia lancia l'appello, riecco alcuni reggimenti con le famiglie e i carriaggi, le armi e i cavalli, schierarsi in Bielorussia a fianco dei tedeschi per combattere una guerra che li porterà dopo la ritirata dalla Russia di Stalin, nel Kosakenland Nord Italien, come la Carnia era stata ribattezzata dalle autorità hitleriane.

Le quali avevano imposto ai «residenti degli agglomerati italiani - considerati politicamente ostili - di lasciare le case delle quali fruiranno i cosacchi, in particolare quelli del Don». Vi soggiorneranno dieci mesi. Poi, molti moriranno durante la ritirata, in una disperata fuga attraverso il fiume Drava, incalzati dalle truppe scozzesi che consegneranno poi i superstiti ai sovietici che li interneranno.

Dopo sessantanove anni i russi, che li guardano ogni qualvolta sfilano splendenti di alamari e di medaglie sull'uniforme da parata, non si pongono affatto problemi di ricorsi storici. Il pubblico russo sembra gradire, quasi gustare questo "risveglio di guerrieri" che non poteva essere più inaspettato, più repentino e più totale.

Sono tutti giovani che non chiedono scusa alla Storia, non sono guerrafondai, né "signori della guerra" come i loro antenati, sanno di rappresentare la tradizione russa che è sopravvissuta a tutti i regimi del loro tormentato Paese. «Noi vogliamo la rinascita dello spirito della Santa Rus', siamo schierati a fianco dell'Ortodossia. Non crediamo alle promesse dei governanti, ma a quelle del Sacro Sinodo. Nei nostri villaggi abbiamo aperto le scuole di catechesi: i nostri figli devono sapere dov'è la verità», come mi diceva con un lampo negli occhi Nikolai Liasenko, agronomo del villaggio Zelenciukskaia di Krasnodar e ora ufficiale in servizio permanente dei cosacchi a Mosca. La divisa - confida - gli assicura nella Mosca dei pochissimi ricchi e dei tantissimi poveri, una vita dignitosa all'ombra della bandiera verde, rossa e azzurra, dove il verde sta a indicare i cosacchi delle Repubbliche asiatiche, l'azzurro quelli dell'Ucraina e il rosso al centro quelli della Russia.

Ogni domenica i pope benedicono la coda dei “guerrieri” che entrano e baciano tre volte l'immagine di Gesù nella cattedrale di Santa Caterina a Mosca, poi chinano la fronte sul vetro della teca segnandosi tre volte. Benedicono la bandiera che s'ammaina sotto le volte dipinte in onore e in ricordo del dono dell'imperatrice e indicano il vessillo alla folla, quasi a voler significare con quell' aspersione benedetta che attorno ad essa è raccolta una forza capace di infondere nuove energie morali in un Paese ormai simile alla Spagna di Filippo IV e all'Inghilterra di fine Ottocento, imperi insieme formidabili, ma fradici all'interno.

Eppure come non provare timore e inquietudine per questo sistema di fede testimoniato dalla tradizione più che dal desiderio di rinnovamento, conservato nei segni antichi di una fedeltà religiosa che, nonostante tutto, continua a tramandarsi da più di quattro secoli, cioè da quando gli Zaporoghi ne fecero l'insegna nella guerra contro i cattolici-polacchi.

«La difficoltà maggiore sta nel fatto che in settant'anni il potere comunista ha cercato con tutti i mezzi di cancellarci e nel contempo di screditarci agli occhi del popolo», ha scritto Nikolai Ozerov, docente di Storia, e capitano dei cosacchi del Don. «Non a caso dal 1992 ci siamo imposti il motto "Rinascita", poiché siamo come un albero che è stato sradicato. Se non avessimo avuto la religione non avremmo avuto di che nutrire le nostre radici. L'Ortodossia rimane il nostro sostegno, senza di essa non saremmo rinati».

Mi ricordo quella domenica di giugno del 1992 a Krasnodar, dove si celebrava la prima festa della riabilitazione cosacca. Erano in tantissimi che si avviavano verso la Casa della Cultura, dove avrebbero tenuto  la loro prima assemblea pubblica.

Quei "guerrieri" che avevano dimenticato come si andava a cavallo, che avevano preso a prestito pugnali e spade dai teatri, poiché «se la polizia avesse trovato nelle nostre case una divisa o peggio ancora una lama, sarebbe stata per noi la prigione», si muovevano sicuri e padroni tra le automobili e gli autobus e puntavano al caffè della cooperativa nella ricerca vana di una bottiglia di vodka.

La gente che faceva ala al corteo li guardava mentre mangiavano le salsicce, che secondo loro erano le migliori del mondo: li osservava e forse ravvisava, nelle cartucciere cucite sul petto della cerkeska, gli involucri d'alluminio dei sigari “Avana" che un tempo si riuscivano a comperare nelle tabaccherie sovietiche al prezzo di 85 copeki e che in quel 1992, in piena perestrojka,  non si trovano più. Oppure riconosceva la pelle nera degli stivali da donna ritagliata per fare il nabor, cioè la cintura con dieci borchie trovate negli scarti della fabbrica; o magari rivedeva sulle spalline i nastri di lamé che servivano per abbellire gli abiti da sposa e che si trovavano nei magazzini a 60 copeki al metro e che in quel giugno al mercato nero non valevano meno di sei rubli.

A quel tempo non c'erano ancora negozi per questo look della nostalgia e bisognava arrangiarsi da soli, cominciando a raccattare quanto serviva per rifare l'uniforme, per essere pronti quando si annunciava il raduno. E questo far da sé dei cosacchi faceva parte della loro singolare capacità di star fuori e dentro la società sovietica, uscendone - dopo che gli fu loro permesso - quando volevano: bastava mettersi in testa il papacha e allacciarsi la sciabola. Cosa che accade anche ora  nella Russia di Putin.

Mi ricordo Pantelei Ivanovich (non chiedetemi dopo vent'anni il cognome nda) che scuoteva la testa e diceva che i cosacchi della nuova generazione che non sapevano andare a cavallo non gli infondevano fiducia. Lui abitava nella stanitza Pash- kovskaia che il pittore Ilia Rèpin scelse come fondale per la sua famosa tela “I cosacchi scrissero una lettera  al sultano ottomano”. Abitava in una casina di legno con la moglie Aleksandra Semionovna, il nipote Igor, due cavalli bai e molti topi che gli avevano rosicchiato il vecchio album con le fotografie.

Ma i ricordi di Pantelei Ivanovich rimanevano vivissimi e così singolari che facevano tornare in mente quelli dei cosacchi del romanzo di Babel, perciò li conservai nel taccuino degli appunti. Raccontò: «Quando partii per il fronte mio padre mi disse di ritornare col petto coperto di medaglie, altrimenti era meglio che mi facessi tagliare la testa dietro un cespuglio. Combattei nel "Reggimento Sterminio", il cui compito era di fiaccare i tedeschi in ritirata. Ci lanciavamo alla carica dopo l'intervento dell'aviazione, nel fragore di sessantamila zoccoli e nel luccichio di quindicimila spade. Allora che ero ben saldo nelle gambe e avevo molta forza nelle braccia con un colpo solo di sciabola riuscivo a fare di un cristiano due metà. Avevo una cavalla, Ciaika, cioè gabbiano, l'avevo chiamata così tant'era agile, benché fosse nera come la notte sulla steppa cosacca».

Non so se Pantelei sia ancora vivo, se lo fosse avrebbe quasi novant'anni. Quello che so, avendolo letto sulla rete, è che Aleksandr Gavrilovich Martynov (classe 1942) è ancora l'ataman di Krasnodar. «Noi contiamo molto sullo sviluppo delle cooperative cosacche, cercheremo di fare in modo di portare un nuovo benessere, sviluppando i commerci, poiché il dinamismo e lo spirito d'avventura sono le nostre doti naturali», così diceva Martynov.

Se egli ha conservato il “posto” significa che qualcosa è riuscito in questi vent'anni a realizzare per la sua comunità. Impresa ardua in una Russia collassata dal disagio sociale, con un processo di accumulazione selvaggia da parte di una ristretta minoranza che è riuscita ad approfittare della disgregazione dell' Unione sovietica per arricchirsi a dismisura. Si aggiunga poi la frustrazione dell’esercito che si considera imbattuto sul campo di battaglia, le diaspore, i tumulti, le repressioni poliziesche, le manifestazioni di piazza contro il potere. E’ in questo scenario che i cosacchi - con la devozione totale alla Madonna del Don loro protettrice e con una lista di nemici che mette i brividi: musulmani, ebrei, atei e sobillatori dell' ordine costituito - si sono riappropriati degli antichi fasti. Tra i pochi eletti a godere sulle macerie del postcomunismo.

www.vincenzomaddaloni.it







Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy