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di Liliana Adamo
Se per Michael Crichton il global warming è giusto una sovrastruttura mentale, un artificio che in realtà non esiste, gonfiato a dismisura da un gruppo di maniaci ambientalisti, sostanzialmente diversa è l’opinione di Jared Diamond, autorevole “biogeografo”, psicologo evoluzionista dell'Università della California a Los Angeles, già vincitore del premio Pulitzer con il bestseller “Guns, Germs, and Steel”, che ci illustra come alcune civiltà, di fatto e con disinvolta ottusità, depredando sistematicamente il proprio ambiente, si siano indirizzate al suicidio di massa.
Dal suo libro “Collapse: How Societies Choose to Fail or Succede” (tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi, che presenta anche il suo ultimo lavoro,“Il mondo fino a ieri”), un monito a tirarci fuori pericolo finché siamo in tempo.
Stimando l’enorme successo commerciale raggiunto negli States di questo splendido (e sconcertante) saggio, siamo portati a considerare unilaterale la sensibilità degli americani: nulla han potuto Kyoto, AbuGhraib, Guantanamo e l’unanime biasimo alla politica bellicista dei neocon e dei loro sostenitori, gli yankee paiono sconvolti dalle prospettive di disastro ecologico incombente sul pianeta (in ogni luogo, finanche a casa loro), piuttosto che prestar fede alle aprioristiche rimostranze di noi europei.
Un’intera sezione ispirata al bestseller e alle posizioni del professor Diamond è riconoscibile fra i padiglioni del “Natural History Museum” di Los Angeles. Spettacolari proiezioni di costruzioni ancestrali, raggi di luci misteriose a memoria d’antiche civiltà cadute, per un evento tra show e cultura, una serie dinamica d’esposizioni e discussioni intorno alle tematiche ambientaliste, le cui sorti sono legate alla società globale contemporanea. A questo proposito la domanda che ci si pone è se “gli irritanti rumori di fondo”, tali stati ravvisati gli argomenti dell’attuale movimento ambientalista d’oltreoceano, si rianimeranno grazie alle riflessioni sollevate da un “biogeografo” di fama, o perdureranno nella consueta rotta fallimentare.
In un recente editoriale del New York Times, Nicholas D. Kristof, autore di reportage, ecologista e premio Pulitzer, scriveva: “Da un certo punto di vista, siamo tutti ambientalisti, ora…Più di tre quarti degli americani concordano sul fatto che il nostro paese dovrebbe fare ogni cosa per proteggere l’ambiente; ma il sostegno all’ambiente fa coppia col sospetto verso gli ambientalisti.
La Morte dell’Ambientalismo sottolinea come un sondaggio del 2000 rileva che il 41% degli americani considera gli attivisti di quest’area come degli estremisti. Esistono ambientalisti seri, naturalmente, ma quelli con eccesso di zelo hanno fatto terra bruciata. La perdita di credibilità è un fatto tragico, perché d’ambientalisti ragionevoli c’è un urgente bisogno…Sarebbe un fattore critico avere un movimento ambientalista credibile, articolato e dotato di sfumature, molto rispettato. Ma ora, temo, non ce l’abbiamo.”
Dunque, l’America è persuasa alle tesi di Diamond, o solo genericamente sedotta dal proliferare di un “nuovo sentire sociale”, pur diffidando dei propri attivisti e “delle azioni estreme”, in assenza di un movimento “articolato” (come suggerisce Kristof), dinamico sul territorio, le speranze per risollevare il problema sotto il mero aspetto politico, si riducono al minimo, a danno del mondo intero.
Di fronte al collasso incombente, la richiesta sempre più pressante di difenderci unicamente da noi stessi e dal caos che abbiamo generato, di fronte alla storia che ci ha preceduto, ricorre un eccedente d’esempi rivelatori, anche quando si rimescola ai miti e leggende, alle utopie, alla fantascienza o alle più irreali creazioni letterarie, propinata come un ammonimento e un modello di prova, senza però riuscire ad avere risposte per sollecitare interventi, per sapere qual è la direzione.
Esistono disuguali dinamicità: se da una parte la società occidentale ha imboccato la strada di non ritorno (il protocollo di Kyoto appare un trattato già scaduto, inadeguato, a dispetto del fatto che la prima potenza mondiale lo rigetti tout court), dall’altra l’indagine empirica sulle ragioni di una società organizzata che cessa di vivere e tramandarsi, è appena agli albori.
Così come le recenti tecnologie e nuovi sistemi d’idee e d’organizzazione collettiva, in grado di risanare il pianeta ed evitare il tracollo, al momento rimangono, per gran parte, impraticabili. Di queste colpe e omissioni la nostra civiltà dovrà renderne conto già dalla prossima generazione (e, parafrasando Kristof, non crediamo affatto d’essere estremisti).
L’impianto narrativo che adotta il professor Diamond si serve di un metodo comparativo basilare, descrivendo e classificando, riferendo dei problemi in modo schietto e diretto. La domanda è molto semplice ed è riportata sul retro copertina:”Perché” si chiede, “alcune società e non altre perdono il criterio fino ad auto-distruggersi? Perché alcune società prendono decisioni disastrose e cosa comporta questo per noi?
Il lungo resoconto è attraversato dai tentativi fallimentari di società e d’intere popolazioni. Analizzando analogie e discordanze, un metodo già adottato in opere antecedenti (vedi “Why Is Sex Fun?: The Evolution of Human Sexuality), il riscontro con situazioni presenti nel nostro momento storico è a tal punto calzante che produce al lettore l’effetto di un brivido gelido lungo la schiena.
Paradossale quanto la nostra civiltà conclusa nella globalizzazione non abbia distribuito pari opportunità a tutti, invece che un’interdipendenza di disgrazie: alterazioni climatiche, modificazione degli habitat naturali, distruzione delle bio-diversità e degli ecosistemi. Le medesime fragilità e instabilità sociali e politiche, guerre globali.
Certo, usiamo internet e gli aerei, ci serviamo di tecnologie domestiche che soltanto vent’anni fa erano impensabili, siamo forniti di conoscenze e competenze che potrebbero procurarci la chiave di lettura per disporre del nostro destino in modo benevolo, attuando una svolta.
Jared Diamond, studia a fondo dati apparentemente secondari e congiunturali di società primitive, sopraffatte da un disastro ecologico auto-prodotto. Un corto circuito che ha annientato del tutto un lungo degrado; in questo modo remote civiltà polinesiane dell’isola di Pasqua, i Maya, i Vichinghi dell’antica Groenlandia, si mettono a confronto, in assetto “scientifico”, con gli stati emergenti del Terzo Mondo, come il Ruanda, Haiti, la Repubblica Domenicana.
Paesi che difficilmente potranno sopravvivere al disordine, alla disorganicità, con governi scriteriati, povertà e sovrappopolazione; viceversa, paesi apparentamenti forti sui mercati globali come la Cina, l’Australia, gli stessi Stati Uniti, sistemi organizzati e complessi che mostrano già le loro crepe, le sindromi di sperpero e decadenza.
Gli antichi “Moai” simboli di potere e solitudine
Eclatante storia quella di Rapa Nui o Te Pito o te Henua, o comunemente detta, Isola di Pasqua (nome dato da Jacob Roggeveen, nel giorno di Pasqua del 1722). E’ in questa grande roccia di 166kmq, nata dai vulcani del profondo Oceano Pacifico, una terra vuota e desolata, dove oggi non c’è più nulla e nessuno se non mandrie di cavalli allo stato brado che corrono sulle piatte e aride colline e quei grandi, solenni Maoi, testimonianze di un’enigmatica traccia, che Diamond ravvisa il germe, il sintomo premonitore per le società occidentali. Affascinante teoria, certo, non priva di un certo fondamento; il microcosmo e l’ecosistema di questo lembo remoto, al largo delle coste cilene, sta a rappresentare emblematicamente la “nostra terra”, l’ambiente che abbiamo manipolato e trasformato.
L’originaria Rapa Nui, prima di mutare nel simulacro di un’autodistruzione collettiva, era un’isola verdissima, con grandi e rigogliose foreste di palme e toromiri, (ne sono stati analizzati i pollini). Unica oasi per moltissimi chilometri traboccava d’ogni specie di uccelli, d’acqua e di terra, sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli. Intorno al 400 d.c., i Polinesiani della tribù dei Maori vi portarono galline, una specie di roditori commestibili e perfino maiali, al posto delle palme interrarono banano, canna da zucchero, taro, patate dolci.
Il suolo d’origine vulcanica di Rapa Nui era talmente generoso che le piante coltivate dai Polinesiani prosperarono con una facilità miracolosa. I Maori cominciarono così a disboscare le foreste per avere sempre più terreni a disposizione, e i roditori fecero la loro parte, divorando i semi degli arbusti autoctoni.
Per costruire canoe e trasportare le sculture in pietra dei Moai, si disboscarono le foreste in modo inesorabile, finché, nel giro di un millennio, sull’isola non rimase un solo albero; le piogge corrosero il suolo privo di vegetazione, causando l’impoverimento della terra e della resa agricola nel momento stesso della massima incidenza demografica (i Maori erano arrivati a 9000).
Il terreno eroso provocò la siccità dei corsi d’acqua che inaridirono. Privi del legno necessario per costruire imbarcazioni per catturare pesci e delfini, di cui si cibavano, i Maori e le loro gigantesche sculture di pietra rimasero “imprigionati” nella loro Rapa Nui, per sempre.
Mangiarono tutti i polli, poi tutti gli uccelli originari dell’isola. Fu sterminata ogni forma di vita vegetale e animale, cosicché iniziarono a mangiarsi tra loro, con veri e propri atti di cannibalismo. I gruppi di famiglie, costretti all’antropofagia per sopravvivere, intrapresero cruente guerre e quando nel 1722 l’olandese Roggeveen, sbarcò sull’isola, non vi trovò che centinaia di ossa ammucchiate in una terra desolata e pietrosa e pochi sventurati che guerreggiavano per sfamarsi. Molte statue dei Moai erano state distrutte, la ferocia dei loro creatori si abbatté come una mannaia per cancellare le “personificazioni” di un potere con cui gli antichi capi avevano raschiato la natura rigogliosa dell’isola e dunque la vita. Un potere che, alla fine, li aveva annientati.
Siamo ben consapevoli che Rapa Nui o comunemente detta Isola di Pasqua, nella sua “magnifica desolazione”, è soltanto una roccia sperduta nell’Oceano, al largo del Cile, battuta dalle tempeste e racchiusa nelle sue cupe leggende. Ben altro è il mondo occidentale, nei suoi insiemi sociali, culturali, dove tuttavia si dipanano le catastrofi descritte da Jared Diamond. Dove, tuttavia, agiscono persone e collettività dotate di volontà, sensibilità, capacità di decisione e d’azione. Diamond indica alle nostre società (e lo fa continuamente) d’operare una scelta. Ognuno di noi è l’esito delle sue propensioni, ma esistono margini per scegliere?
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di Vincenzo Maddaloni
Con l’Ucraina “sull’orlo della guerra civile” come avverte Vladimir Putin, le minoranze in Europa diventano di un’importanza cruciale. Fino al 2003 quando l’Ue era di 15 Stati esse raggiungevano i 20 milioni di persone, il 5 per cento della popolazione. Con l’Europa dei 28 sono 42 milioni, e rappresentano l’8,7 per cento dei 481 milioni di cittadini europei. Non c’è un dato ufficiale sul numero dei musulmani.
Il sociologo egiziano Ali Abd al-Aal, sostiene che sono più di 50 milioni quelli presenti in tutta l’ Europa. Secondo il Central Institute Islam Archive ce ne sono 16 milioni nell’Unione europea. In Bulgaria dove ne vivono un milione, dei quali 700 mila sono turchi, c’è senza dubbio la comunità meglio organizzata sotto il profilo politico.
Infatti, è quella bulgara la prima minoranza musulmana autoctona che dispone di visibilità politica. Essa ha dal 1990 un proprio partito, il Movimento per i diritti e per le libertà, il DPS (in bulgaro: Dviženie za Prava i Svobodi; in turco: Hak ve Özgürlükler Hareketi, DPS o HOH), che alle ultime europee ha ottenuto il 20 per cento dei voti e che, dopo le lezioni politiche del 2013 occupa 36 seggi nel parlamento bulgaro.
Ma è in alcuni Paesi, come nelle repubbliche baltiche, che le minoranze hanno un peso numerico determinante per gli equilibri politici: il 17 per cento in Lituania, addirittura il 42 per cento in Lettonia. In Estonia dove raggiungono il 32 per cento una persona su quattro è di madrelingua russa. Pertanto non è fantapolitica sostenere che, la crisi in Ucraina potrebbe avere effetti contagiosi irreversibili in tutta l’Europa, mettendo a rischio la stabilità dell’ intera Ue.
Infatti, la Nato ha iniziato le esercitazioni aeree il 1° aprile sulla Lituania con atterraggi di emergenza ed operazioni di ricerca e di salvataggio. «Lo scopo di tali esercitazioni è risvegliare gli istinti da Guerra Fredda e dimostrare la necessità della Nato nelle condizioni di sicurezza attuali», ha detto l’inviato russo alla Nato, Aleksandr Grushko, aggiungendo che la Russia, «in ogni caso prenderà tutte le misure necessarie per garantire in modo affidabile la propria sicurezza».
La replica è giunta dall’ambasciatore dell’Estonia, Lauri Lepik: «Ciò che i Paesi baltici vogliono - ha dichiarato - è la presenza sul campo degli alleati». Un ex-ministro lettone è stato ancora più esplicito: «Vorremmo vedere un paio di squadroni statunitensi qui, soldati e anche una portaerei», ha dichiarato a l’Economist.
E così gli Stati Uniti hanno inviato sei F-15C in Lituania e una dozzina di F-16 e in Polonia, e hanno previsto ulteriori contingenti per le esercitazioni in Polonia e nei Paesi baltici, nonché l’aumento dei voli d’intelligence sul centro Europa. Il comandante dell’Alleanza, il generale Philip Breedlove ha spiegato quanto sia opportuno l’incremento delle potenza aerea e delle navi nel Mar Baltico, la creazione di una forza navale sul Mar Nero e l’arrivo dal Texas di una brigata di 4500 effettivi dell’esercito americano.
Si tenga a mente che il Guardian qualche giorno fa, ha tradotto e stampato il documento riservato di sette pagine pubblicato in esclusiva dal settimanale tedesco Der Spiegel, nel quale tra l’altro si legge che i comandanti della Nato hanno approvato il piano di esercitazioni di addestramento congiunto con l’Armenia, l’Azerbaigian e la Moldavia per migliorare “l’interoperabilità tra le diverse forze armate e per assicurare la difesa dei giacimenti di petrolio e di gas sul Mar Caspio”.
Questo è nel più e nel meno lo scenario alla vigilia delle elezioni europee e 57 anni dopo la firma del trattato di Roma - 25 marzo 1957 - che suggellò la nascita della Comunità economica europea (Cee) divenuta poi Unione europea (Ue). Naturalmente da quando è caduto il Muro di Berlino la divisione fra «Est» e «Ovest» appare meno artificiosa, ma è emerso in maniera contraddittoria, da una parte il cosiddetto risveglio delle nazionalità e dall’altra parte il formarsi di enormi aggregati sopranazionali tenuti insieme dal miraggio di un facile benessere economico.
Così l’umanità che vi abita è dilaniata da una parte da particolarismi di sangue, di lingua e di religione ribelli e dall’altra parte dalla rincorsa quasi ossessiva verso un capitalismo sfrenato con la certezza che la crisi economica sia soltanto un fenomeno passeggero.
Va ricordato pure che 12 dei 28 capi di governo che siedono attorno al tavolo del Consiglio europeo, inclusa la cancelliera Angela Merkel, fino a vent’anni fa erano sudditi di dittature comuniste. Sanno che cos’è la libertà perché hanno sperimentato cosa vuol dire non essere liberi. Tutti sono disponibili a trasformare la propria politica interna, l’economia, il diritto, i media, pur di assicurare libertà e welfare, ma la formula per riuscirvi è un continuo, delicato esperimento.
Infatti, non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese o “peggio ancora” a fare emigrare i propri figli perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.
Stando così le cose, la crisi in Ucraina rischia di produrre effetti imprevedibili nell’éra della “surrealpolitik” il nuovo genere di politica che subentra alla realpolitik della Guerra Fredda la quale era cinica ed insensibile, ma almeno si basava su una realtà oggettiva che le parti poterono comunemente riconoscere e quindi negoziare. Nel clima di surrealpolitik, dove tutto quello che si afferma essere vero viene difeso come vero, nonostante la realtà, e dove tutto oscilla sulla versione e sull’interesse di ciascuna parte, il confronto diventa arduo se non del tutto impossibile.
A far da fondale al tutto c’è pure il pesante malessere dei cittadini europei (20 milioni secondo il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde) che non hanno più lavoro, più casa, più risparmi, che si chiedono come potranno sopravvivere negli anni a venire e che vedono nella crisi ucraina un peggioramento delle proprie condizioni. Poiché lo scenario che si prospetta è quello segnato da una escalation delle tensioni fra gli Stati, dal momento che più le economie occidentali scivoleranno nel baratro dei deficit di bilancio, più gli altri fattori di destabilizzazione agiranno sulla governance mondiale.
C’è aria di Chagall in quelle dacie di vecchie scure travi, con le finestre ingentilite da tendine bianche e fiori in vasi e da cornici allegre e fantastiche intagliate e dipinte come merletti, seminate nei dintorni di Plovdiv, dove gli alti funzionari sovietici vi venivano a trascorrere il fine settimana. Plovdiv è la seconda città della Bulgaria, situata nella parte meridionale, lungo la strada che unisce l’Europa occidentale a Istanbul.
La fondò Filippo II di Macedonia (340 a.C.) chiamandola Philippopolis. In età romana fu il capoluogo della provincia di Tracia col nome di Trimontium, poi di Filibé durante la dominazione ottomana. Ma le popolazioni locali hanno continuato a chiamarla Pulpudeva (traduzione di Philippopolis) e in seguito Puldin per marcarne la connotazione slava, sebbene nutrita sia la presenza dei pomacchi o dei musulmani bulgari. Con quelli degli altri paesi dell’Europa centro-orientale essi rappresentano l’eredità religiosa dell’impero ottomano. Con la Turchia il rapporto è stretto.
Sicuramente, tra i cristiani e i musulmani dell’Europa dei 28 c’è una condivisione di idee sugli effetti della dottrina dell’intervento armato preventivo - promosso dagli Stati Uniti con la guerra mondiale contro il terrore - che è sempre stata accolto con molta diffidenza dalle genti europee o almeno da una sua vastissima parte. E’ opinione diffusa che per riuscire a mobilitare l’economia mondiale dietro i loro interessi egemonici, gli Stati Uniti debbano creare situazioni in cui la posta in gioco è altissima, come lo è in Ucraina appunto.
Dopotutto, gli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca da sempre sono addestrati a non escludere nessuna opzione pur di salvaguardare gli interessi della prima potenza mondiale. Destino delle minoranze incluso.
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di Sara Michelucci
Un sound coinvolgente e unico per una delle band più originali dell’attuale scena musicale britannica. Nati a Bristol, proprio da un’idea della sezione ritmica della leggendaria formazione trip-hop, Portishead, i Get The Blessing arrivano in Italia con lo spettacolo ospitato dall’auditorium Gazzoli di Terni per la rassegna musicale Visioninmusica.
La band composta da Jim Barr e Clive Deamer, rispettivamente bassista e batterista, si completa con i fiati e l’elettronica del sassofonista Jake McMurchie e del trombettista Pete Judge. Il loro disco di debutto, All is Yes (2008), ha vinto un Bbc Jazz Awards, nonostante il jazz sia solo una delle influenze della band, il cui minimo comune denominatore è la passione per il genio di Ornette Coleman, ma non solo.
Interessante e degna di nota la capacità con cui fondono le loro diverse anime, dando vita a un sound che rimane esclusivo. Grande il coinvolgimento del pubblico che è chiamato a ‘collaborare’ alla resa musicale. L’interazione con chi ascolta è predominante. Con il loro quarto album, Lope & Antilope, continuano a creare atmosfere uniche e surreali, mixando sapientemente diversi generi, sperimentando continuamente e utilizzando gli strumenti fino alle estreme conseguenze.
Il bassista Jim Barr è uno dei principali protagonisti della scena trip hop di Bristol, bassista dei Portishead e richiestissimo session man, ha registrato, tra gli altri, con Peter Gabriel.
Clive Deamer (batteria e voce) oltre a essere il batterista dei Portishead e dei Reprazent di Roni Size, è stato in tour con Radiohead. Jake McMurchie (sassofono) è un musicista di formazione jazz attivo sia come leader di suoi gruppi che come sideman. Ha registrato con Portishead e National Youth Jazz Orchestra. Pete Judge (tromba) è un compositore di colonne sonore, oltre che jazzista e cultore della musica sperimentale, fa parte del trio Three Cane Whale con Alex Vann degli Spiro e Paul Bradley dei Me.
Due ore di spettacolo puro che soddisfa e conquista.
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di Sara Michelucci
Lo spettacolo nello spettacolo. Il teatro nel teatro. È questo il punto di forza di Himmelweg – La via del cielo di Juan Mayorga, per la regia di Marco Plini, con Giusto Cucchiarini, Marco Maccieri, Luca Mammoli e nel ruolo dei ragazzi gli studenti delle scuole.
Si parte dal racconto intriso di senso di colpa e pieno di verità dell’uomo inviato dalla Croce Rossa per stilare un rapporto sulle condizioni di un campo di concentramento. La costatazione di non aver colto l’inganno - compiuto dal gerarca nazista che controllava il campo e che aveva messo in atto una vera e propria pantomima in cui erano coinvolti i prigionieri ebrei - non gli dà pace e lo fa scivolare nella disperazione più assoluta.
Un’opera che rivede l’evento più tragico del novecento, la Shoah, da una prospettiva nuova e crudelmente paradossale. Un punto di vista altro da cui guardare questa immane tragedia. Un po’ come aveva fatto Benigni con La vita è bella, in cui la finzione diventa un modo per sfuggire la crudeltà del reale.
Il testo contiene una grande quantità di suggestioni sulla realtà e la sua manipolazione, ma soprattutto ha un grande valore di conservazione della memoria, che non ha nulla di patetico, ma che vuole riaccendere nella mente dei più giovani il ricordo e la conoscenza di un evento storico lontano, ma allo stesso tempo estremamente prossimo. Qualcosa che non deve diventare sepolto in un punto della storia lontano e nebuloso, ma ha bisogno di essere ricordato. Per questo il progetto coinvolge gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, che in questo modo possono avvicinarsi alla conoscenza di uno degli orrori più grandi del Novecento.
Bravi gli attori, che riescono bene a trasferire al pubblico, da un lato la disperazione degli ebrei rinchiusi, che tremano nelle loro baracche al suono di un treno che non sanno dove vada e che cosa trasporti; e dall’altro la lucida spietatezza dei loro carcerieri, che citano grandi filosofi e poeti, ma generano aberrazione e morte come se fosse qualcosa di scontato e banale. La messa in scena di un campo di concentramento dove i prigionieri sono trattati bene e addirittura sembrano essere felici stona con la realtà dei fatti. Ed è proprio in questa contrapposizione che si racchiude tutta la follia dell’Olocausto.
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di Sara Michelucci
I testi più politici e polemici di Pier Paolo Pasolini tornano in teatro con lo spettacolo di Fabrizio Gifuni, Na specie de cadavere lunghissimo, al Secci di Terni per la regia di Giuseppe Bertolucci. Una carica emotiva molto forte, quella che Gifuni riesce a mettere in atto, in un’ora e mezza di serrato monologo che racconta e mostra l’Italia dei primi anni ‘70, attraverso la qualche si preannuncia lo stato del paese attuale.
Nella prima parte Gifuni compendia il pensiero civile e politico di Pier Paolo Pasolini con frammenti tratti da alcuni suoi scritti; poi, dopo essersi spogliato dei panni dell’intellettuale, l’attore interpreta “Il Pecora”, l’assassino di Pasolini, per raccontarne l’ultima notte e quella corsa con quella specie di cadavere lunghissimo per le strade di Ostia.
“Per Eraclito il mondo non è altro che un tessuto illusorio di contrari. Ogni coppia di contrari è un enigma, il cui scioglimento è l`unità, il Dio che vi sta dietro. Continuo a trovare in queste parole qualcosa che si avvicina moltissimo a quel profondo senso di mistero che accoglie la vita, l’opera e la morte di Pier Paolo Pasolini”, dice Gifuni.
Il racconto ha una carica politica molto forte che si esprime nel corpo attoriale e in dialoghi diretti che narrano di tempi bui, tanto che la tragedia pubblica e privata del poeta diventa il minimo comune denominatore di tutto lo spettacolo. “Il grido lacerante e disperato di un uomo che urlava nel deserto contro l`immoralità e la cecità del vecchio Potere che stava aprendo la strada all`avvento di un nuovo potere - di un nuovo fascismo - il più potente e totalitario che ci sia mai stato.
Ma anche la privatissima tragedia di chi, in virtù di quella stessa catastrofe politica e antropologica che vedeva abbattersi sull’Italia, non riconosceva più i corpi dei suoi amati ragazzi, che sembravano trasformarsi - sotto i suoi occhi - da simpatici malandrini in spettrali assassini. I suoi amati ‘riccetti’ stavano cambiando maschera: dall’innocenza al crimine”, aggiunge l’attore.
Il monologo resta un mezzo vincente per denunciare la barbarie morale e politica, quella incapacità degli uomini di potere di fare il bene della collettività e quella amarezza che l’intellettuale vive nel suo sentirsi impotente. Il linguaggio, che volutamente abbraccia registri differenti, è protagonista assoluto, mezzo per rappresentare gli opposti e gridare la denuncia. Una scelta vincente che muove il pensiero di chi guarda e lo mette di fronte alla dualità. E la decadenza di un Paese si fa viva nella morte del grande poeta e scrittore.