di Sara Michelucci

La favola di Pinocchio è solo un pretesto, una metafora della vita di tre persone uscite dal coma. Non attori, ma persone che hanno vissuto realmente il ritorno alla vita, dopo aver sfiorato la morte. Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli raccontano la loro esperienza, il loro presente in un corpo segnato e che viene messo a nudo sul palco teatrale.

Parole che commuovono, ma che allo stesso tempo fanno anche sorridere, per la capacità dei tre, coadiuvati dalla voce fuori campo di Enrico Castellani, di riuscire anche a ironizzare su quanto accaduto.

Il Pinocchio di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, prodotto da Babilonia Teatri, andato in scena al Secci di Terni, deriva da un  progetto in collaborazione con Gli Amici di Luca, il laboratorio teatrale presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia.

Lo spettacolo, che ha il coraggio di raccontare cosa sia il risveglio dal coma, come possa cambiare la vita di tre persone che non sono più quelle di “ieri”, il cui passato non li lascia mai soli, ma il cui futuro è più che mai difficile, si è aggiudicato il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro 2013.

Ma perché proprio Pinocchio? “Abbiamo incontrato quel mondo che sempre vogliamo fotografare, raccontare e restituire - dicono gli autori - un’umanità da ascoltare e amplificare senza pietismo, paternalismo né razzismo. Pinocchio è la loro umanità. Le loro e le nostre debolezze e incoerenze. L’eterno contrasto tra innocenza e consapevolezza: assunzione o fuga dalle responsabilità. Pinocchio è una scelta di campo. Ascoltare il grillo parlante o il gatto e la volpe, andare a scuola o entrare nel teatro di mangiafuoco, seguire lucignolo o chiedere consiglio alla fata, ubbidire al padre o fare di testa propria. Pinocchio è le nostre tentazioni. Le nostre contraddizioni. Le nostre bugie”.

Ma Pinocchio è anche la metafora di una trasformazione, di un cambiamento, da burattino a bambino. Morte e rinascita, quindi. Ma in nuove forme. È così anche per chi riesce a salvarsi da un terribile incidente stradale. Si nasce un'altra volta, ma in un corpo diverso, magari non si è più in grado di camminare o di parlare come prima, ma si è comunque ancora qui sulla Terra.

La vita continua, quindi, ma senza nessuno sconto. E sul palco nulla è edulcorato, anzi. Le emozioni sono contrastanti, si passa dalla risata alla più totale commozione e sulle note di Yesterday si evince tutta la forza che questo tipo di teatralità può offrire.

Una poetica, quella scelta da Babilonia Teatri, che affronta le sfide più ardue, tra delicatezza e audacia. I tre non attori mettono in scena la loro vita, a torso nudo mostrano le tracce di quella trasformazione che loro mal grado sono stati costretti a percorrere.  E il volo verso l’alto di Ferrarini, è una chiara metafora di quella sospensione tra il cielo e la terra vissuta da chi ha sfiorato la morte. L’emozione resta intatta, ma profondo è il turbamento di chi guarda.

di Liliana Adamo

Nel “paese delle meraviglie”, cuore pulsante dei primi nativi americani, a nord ovest del Wyoming, fra Montana e Idaho, sede dello Yellowstone National Park, perfetto wildland per orsi grizzly, lupi, mandrie di bisonti e alci, in un caldo venerdì del 2 agosto scorso, rompendo una tregua durata nove anni, il famoso Geyser Steamboat, il più grande su scala mondiale, si è risvegliato con un getto che ha raggiunto i novanta metri d’altezza. Nella stessa zona, il centro geofisico dell’University of Utah registra uno sciame sismico con un’intensità crescente. Tutto nella norma?

Il più antico parco degli Stati Uniti (1872), istituzione di fama mondiale a difesa di un ecosistema unico in aree temperate, si estende su un altipiano di 8980 chilometri quadrati e su tre caldere attive. Sebbene il termine “supervulcano” (nome attribuito durante un documentario della BBC), pare non si riferisca allo spettacolo sovradimensionato dei suoi geyser, ma alle potenzialità distruttive, dalle tre grandi eruzioni avvenute in successione 2,1 - 1,3 milioni e 640.000 anni fa, si formarono rispettivamente la caldera d’Island Park, quella di Henry’s Fork e di Yellowstone.

Dalla prima eruzione, presumibilmente la più potente in assoluto, si sviluppò il Ridge Tuff, la più grande formazione di tufo localizzata nel nord dell’America, mentre, si sa che l’eruzione più “recente” ebbe un impatto devastante sull’intera superficie, che fu investita da nembi di cenere, inversione del clima, estinzione di molte specie, cancellazione d’ogni forma di vita per migliaia di chilometri. Questi i fatti legati all’archeologia della sismogenetica, ma se veniamo alle ultime scoperte, pare che Yellowstone ci riservi un futuro altrettanto apocalittico.

Il Dipartimento di Geologia e Geofisica dell’Utah University, non si è limitato a registrare l’escalation sismica intorno al supervulcano sotterraneo, comunicando lo studio di una task force, guidata da Jamie Farrel e Bob Smith, per illustrarne i contenuti all’American Geophysical Union, che, a sua volta, li ha pubblicati sul proprio “Journal”.

Con risultati sorprendenti: nuovi strumenti di controllo hanno palesato proporzioni diverse rispetto a ciò che si credeva in precedenza; l’insieme di rocce incandescenti sotto la superficie del parco (che vanta un’estensione di tre stati, come abbiamo visto, Wyoming, Montana e Idaho), è pari a novanta chilometri di lunghezza, ventinove di larghezza e quattordici di profondità. Secondo i geofisici, la camera magmatica misurerebbe in larghezza, 480 chilometri, considerando che è stata alimentata per due milioni di anni.

In pratica, ciò equivarrebbe a un’eruzione potenziale superiore duemila volte circa, a quella di Mouth St. Helens (Washington DC), avvenuta il 18 maggio 1980, quando un potente terremoto fece collassare la parete nord del vulcano, liberando milioni di metri cubi fra gas, rocce e lapilli mentre una colonna di fumo (con un’altezza di ventiquattro chilometri nell’atmosfera), si riversava su undici stati americani. Un evento, quello del St. Helens, non solo distruttivo ma che “ridicolizzò” l’intera comunità scientifica, giacché fino allora, la stessa, l’aveva considerato “inattivo”, privo d’alcun rischio.

Come cultori di una civiltà tecnocratica e liberista, siamo abituati a considerare gli eventi legati alla fenomenologia naturale, situazioni in qualche modo controllabili o manipolabili grazie ai mezzi coercitivi cui disponiamo. Ciò nonostante, nel caso che il supervulcano Yellowstone dovesse esplodere oggi, si può soltanto pensare a contenere i danni. Limitatamente. Le conseguenze colpirebbero il mondo intero, con un impatto devastante sulle sorti del clima (l’offuscamento della luce solare produrrebbe un repentino abbassamento delle temperature terresti fino a -20°).

Yellowstone (come le Hawaii), domina una vasta area che la moderna geofisica definisce Punto Caldo stazionario del pianeta (Hot Spot), sopra il quale scorre la placca nordamericana. Strati rocciosi liquefatti sotto la crosta terrestre, spingono e tendono a uscire in superficie, in modo del tutto simile a un’attività vulcanica (vedi i Campi Flegrei in Campania). Dalla fuoriuscita di lava basaltica attraverso ciclopiche colate incandescenti, si è formato in diciassette milioni di anni, il maestoso canyon dello Snake River Plain, tra gli stati del Wyoming, Idaho, Oregon e Nevada. Tutte le caldere, dalla più antica, a cavallo tra Mc Dermitt, in Nevada e l’Oregon, fino alle formazioni più recenti, si congiungono all’enorme Plateau dello Yellowstone, in una sorta di cerchio di fuoco.

Gli studiosi presumono che se ci fosse un rush su larga scala, il nordovest degli Stati Uniti sarebbe completamente distrutto, lo Yellowstone annienterebbe ogni cosa nel raggio di 160 chilometri da subito. Come abbiamo detto, l’eruzione arrecherebbe un brusco raffreddamento del pianeta con scenari davvero imprevedibili.

Speculazioni pseudo scientifiche esercitate da un manipolo di ricercatori universitari in cerca di notorietà? Difficile pensarlo, visto che anche la serissima rivista Nature, sembra avvalorare le tesi del team Farrel/Smith, così come il Centro di Ricerche di Londra ipotizza una sorta “d’inverno nucleare” calcolando la prossima eruzione in un arco temporale tra il 2012 e il 2074.

Proprio la rivista scientifica Nature (nel febbraio del 2012), è stata la prima a divulgare una ricerca francese, (coadiuvata da Timoty Druitt per l’Università Blaise Pascal a Clermont-Ferrand), che penetra nel motore dei supervulcani, con l’obiettivo d’individuare segnali di previsioni per imminenti, disastrose attività esplosive. Lo studio calcola i tempi con cui si è ricaricato il serbatoio di magma sull’isola vulcanica di Santorini, che non appartiene alla categoria dei supervulcani, ma fu artefice, nel 1600 a.C. di una catastrofica eruzione, simile alle capacità di queste particolarissime strutture, in grado di sprigionare in un solo colpo, tutta l’energia accumulata, migliaia di chilometri cubi di materie incandescenti miste a gas.

I test, molto complicati, rivelano come il serbatoio di Santorini avrebbe iniziato a ricaricarsi cento anni prima e quindi, sostanziali cambiamenti nella composizione magmatica, potrebbero avvenire in tempi brevi, in prossimità di un’imminente eruzione. Monitorare le riserve laviche in caldere molto grandi e potenzialmente pericolose, potrebbe dunque aiutare a individuare eventuali cambiamenti e prevedere, appunto, un’incombente eruzione con quel che ne consegue.

C’è da osservare che le zone vicine al Plateau rosa (così chiamato per il colore delle sue rocce e dei geyser), si sollevano in modo continuo (fino a trenta centimetri), si riscontrano cambiamenti del clima e disordini deformativi del suolo. Dal 2004 si sono verificati circa 3000 terremoti l’anno. Una nuova ondata di terremoti è iniziata il 10 settembre del 2013 e prosegue tuttora. Nasa e Us Navy hanno chiuso i battenti e, senza un motivo apparente, hanno abbandonato il luogo. Qualcuno sostiene nientemeno che i Fema (fantomatici campi di detenzione originati trent’anni fa, utilizzati per fronteggiare stati d’emergenza, catastrofi naturali o guerre) si preparerebbero come se, da un momento all’altro, dovesse sopraggiungere un cataclisma continentale…


di Sara Michelucci

Arriva Suggestioni, il nuovo disco de GliArchiEnsemble, orchestra d'archi siciliana che quest'anno festeggia 10 anni di attività. Suggestioni è dedicato alle scuole nazionali del nord Europa, in particolare a Sibelius, Grieg, Nielsen e Tchaikovsky. Repertorio tardo ottocentesco, questo, caro al gruppo siciliano e particolarmente adatto al suono vigoroso e “unico”, che caratterizza gli undici musicisti de GliArchiEnsemble e li avvicina alla tradizione delle orchestre da camera tedesche.

Le dieci tracce percorrono un viaggio a ritroso nel tempo attraverso le - appunto - suggestioni sonore evocate dall’Europa del Nord: l’Andante Festivo di Jean Sibelius (1938), le Two Melodies Op. 53 di Edvard Hagerup Grieg (1891), la Little Suite Op. 1 di Carl August Nielsen (1888) e il celebre sestetto Souvenir de Florence Op. 70 di Pyotr Ilyich Tchaikovsky (1892), omaggio del compositore russo a Firenze e all’Italia.

“Questi dieci anni - commenta Domenico Marco, primo violino e presidente de GliArchiEnsemble - sono stati anni di sacrifici e di rinunce, ma anche di successi e di enormi soddisfazioni artistiche, tra le quali sicuramente annoveriamo queste Suggestioni. Registrare per Stradivarius ha rappresentato un importante salto di qualità per la nostra attività artistica esecutiva e di ricerca, volta a confrontarsi spesso con repertori poco eseguiti o incisi, almeno in Italia”.

Orchestra da camera nata a Palermo dall’unione delle prime parti dell’Orchestra del Teatro Massimo di Palermo e dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, GliArchiEnsemble ha negli anni ampliato il repertorio e perfezionato l’intenzione interpretativa, grazie all’esperienza maturata a livello internazionale e alla collaborazione con solisti e direttori del calibro di Boris Belkin, Günter Neuhold, George Pehlivanian, Hubert Soudant.

Sul fronte discografico, nell'aprile 2012 GliArchiEnsemble ha inciso per Foné “Il suono del '900”, registrato al teatro Persio Flacco di Volterra, con due prime assolute: la Capriol Suite per orchestra d’archi in sei movimenti / danze di Peter Warlock, la Serenata per archi op. 20 di Edward Elgar e la Serenata per Archi op. 6 di Josef Suk, tanto amata da Brahms. Il nuovo disco, dedicato alle scuole nazionali del nord Europa, uscirà a dicembre 2013 per Stradivarius.

Il gruppo sposa anche cause benefiche. Sabato 14 dicembre alle ore 21.15 nella chiesa di San Salvatore a Palermo si esibirà in un concerto a favore della ricerca contro il cancro al pancreas. Il ricavato della serata sarà interamente devoluto all’Aisp- Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas.

di Sara Michelucci

Non delude mai, Paolo Poli. Nonostante i suoi 84 anni - portati tra l’altro in maniera invidiabile - l’attore toscano regala con Aquiloni uno spaccato dell’Italia rurale del primo Novecento, colorandola di musiche, balli e costumi. Trasformista e abile conoscitore del palcoscenico, Poli trae libera ispirazione dal lavoro di Giovanni Pascoli, regalando uno spettacolo divertente e a tratti anche malinconico, di un’Italia che fu. Accanto a Paolo Poli quattro attori di valore, Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco.

Le scene sono curate da Emanuele Luzzati, i costumi sono di Santuzza Calì, le musiche di Jacqueline Perrotin e le coreografie di Claudia Lawrence. Poli canta, balla e recita. Si rivela un attore a tuttotondo, riuscendo a dare movimento e raffinatezza a quello che porta in scena, senza dimenticare quel pizzico di sagacità che da sempre lo contraddistingue.

Il suo non è un semplice omaggio a Pascoli, ma una rivisitazione di opere come Myricae e Poemetti in cui si gioca con le onomatopee, i versi degli animali, dando alla voce e ai suoni un posto di primo piano.

Poli sperimenta all’ennesima potenza il plurilinguismo pascoliano, si traveste per il poeta italiano, evocando la magia della memoria e di un’Italia passata che custodiva in sé una purezza in gran parte andata perduta.

Poli regala al Secci di Terni, due ore di poesia e divertimento, togliendo a Pascoli quella coltre un po’ polverosa di poeta che si studia solo sui banchi di scuola, per donargli un vigore del tutto nuovo.

La leggerezza del fanciullino - che ben si rappresenta nella corporatura leggera e sottile di Poli, ma piena di energia - viene fuori e accarezza gli spettatori che rivivono passaggi fondamentali della loro storia passata, ma con un fervore del tutto nuovo.

L’attore fiorentino strizza l’occhio anche all’avanspettacolo, con vestiti pomposi e parrucche vaporose e stacchetti musicali, utilizzando intelligenza, ma anche un pizzico di irriverenza. Due ore che lasciano il sorriso sulle labbra e la voglia di ricordare i tempi che furono.

di Rosa Ana De Santis

Poteva essere un esperimento originale e utile. Poteva essere una tv istruttiva per tutti, specialmente per le persone meno istruite e informate. Poteva, ma il bilancio delle prime due puntate lascia, va ahimè riconosciuto, l’amaro in bocca. In una battuta e in piena coerenza con lo stile della tv italiana buca lo schermo la sola Africa del dramma. Certo che attraversare i campi dei rifugiati e le città o i villaggi distrutti dalla guerra non può che raccontare storie di dolore estremo, crisi profondissime di paesi e territori, ingiustizie e abusi.

Ma se tutto questo diventasse testimonianza dei protagonisti, documentario di progetti, lavori, idee e pensieri, interviste ad associazioni e organismi internazionali, studio delle azioni di intervento e non soltanto spot da raccolta elemosina per la donazione di un euro ai volti denutriti o malati dei bimbi africani del Congo, ad esempio, sarebbe stato meglio.

E’ la filosofia dell’assistenzialismo dell’Occidente ad avere un ruolo preponderante nella costruzione della puntata ed era proprio questo il rischio da scongiurare affinché le persone, specie quelle di paesi in crisi come l’Italia, non vivessero il tema dell’immigrazione associandolo unicamente all’elemosina dovuta. Erano quasi più credibili e più adeguati i naufraghi dell’Isola di Famosi che la Barale e i Savoia, improvvisati “missionari”d’occasione, animati dal bene, lacrimevoli di fronte al dolore, fintamente stupiti del male osservato.

Laura Iucci, portavoce per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) ringrazia per i 75 mila euro raccolti dalle donazioni: una cifra considerevole che certamente denota generosità e attenzione da parte delle persone che hanno seguito il docu-film. Sarebbe stato però utile, forse ancor di più che l’aspetto economico già gestito da innumerevoli associazioni e chiese, aiutare le persone a conoscere e a capire. Andare lì in veste di semplici osservatori e lasciarsi interrogare dalle storie e dai paesaggi, senza adottare clichè precostituiti: che siano le sole immagini dei bimbi, delle capanne distrutte o l’Africa degli animali pericolosi.

La trasmissione, attraverso questa contaminazione di elementi tutti tipici della tv italiana, è diventata una miscela tra un reality safari e una soap melodrammatica sull’Africa povera con qualche uomo bianco prodigo di buoni consigli e tanta generosità.  Non è detto che sia un esperimento da azzerare in toto, certo è che l’inizio delude le aspettative.

Magari non di chi a casa è abituato a sentir parlare dell’Africa come di un mondo condannato. Non si voleva certo con questo format divulgativo avere l’ambizione di parlare di traffico d’armi e governi corrotti,  o di saccheggi delle multinazionali.

Ma forse si poteva lasciar spazio alle idee di chi li vive da sempre, di chi da li ha invece scelto di fuggire. Raccontare le ricchezze del sottosuolo, la potenza della natura. Il viaggio tra deserto e mare. Lasciando ai vip il ruolo di chi intervista e ascolta e null’altro può fare, e di chi, familiare al grande pubblico, può funzionare da esca per accendere la tv su quel canale. Senza appelli trionfanti a raccogliere fondi (se non sul sito della trasmissione). E pur con tutto il dolore delle ingiustizie da  spiegare agli italiani, senza lacrime. Mission lo avremmo voluto così.


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