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di Rosa Ana De Santis
Dopo critiche, contestazioni e ripensamenti il Direttore di Rai Uno, Giancarlo Leone, ha deciso che Mission andrà in onda. Questa testata si è già occupata del programma e della sua ideazione che ai tempi aveva visto il coinvolgimento di Laura Boldrini come portavoce di Unhcr. Il rischio, pur presente, che la tv italiana avvezza a una certa banalizzazione o spettacolarizzazione morbosa dei drammi umani potesse ridurre tutto a vetrina e a gioco è stato battuto dalla volontà di far conoscere al grande pubblico quale sia il martirio patito dai profughi e rifugiati.
A questo servono i vip come Paola Barale. Non a gestire la scena dell’ennesimo reality nelle isole o nelle case, tra trame sentimentali e competizioni atletiche, ma a rappresentare il signore e la signora qualunque che attraverso le spiegazioni di operatori da Unhcr e Intersos conosceranno un mondo del tutto lontano dall’informazione corrente.
Il vip è quindi uno strumento di garanzia per la diffusione della conoscenza, nella consapevolezza che il programma di approfondimento e il giornalismo serio sul tema non siano alla portata di tutti. Un ritratto certamente impietoso del pubblico italiano che però fa il paio con lo share dei programmi più seguiti e amati che non premia certamente Tg Mediterraneo e dintorni, ma galà di ballo e gare tra aspiranti ballerine televisive.
Si aspettano quindi tra i due e i tre milioni di spettatori per quello che dovrebbe essere un docu-film di informazione e sensibilizzazione pensato per tutti e per entrare nelle case degli italiani. Forse visto il dramma di Lampedusa, visto la marea umana che anche per ragioni geografiche investe la nostra penisola, vista la voce fioca dell’Italia in Europa un’opera di conoscenza che prepari le persone e che le informi rappresenta se non un passaggio importante per la gestione del problema, un sicuro vademecum per evitare ulteriori e insidiose tensioni sociali già fin troppo forti.
Se è vero che la tv ha abdicato al ruolo di educatore che ha avuto fin dai suoi inizi, forse questo è un modo per tornare ad esserlo con adattamento ai gusti e alle abitudini degli italiani. Se Mission sconvolge, non può sconvolgere di meno la quantità di format a ripetizione basati sull’alleanza del vip con lo sconosciuto a caccia di tresche, competizioni di dubbia validità artistica, esibizione come valore assoluto e intrinseco.
Se per una volta tutto questo viene prestato ad una causa e se questo è il linguaggio più efficace per un popolo dopato dalla tv allora forse bisogna saperne vedere l’utilità. Insieme certamente all’amarezza di una società che non legge i giornali, non vede e non sente le notizie, ma ama il gossip e la celebrità come fine a se stessa. Il rischio di banalizzare è alto, ma quello che quasi nessuno conosca sul serio l’odissea che muove i barconi non è meno grave. Per la salute della democrazia e anche per la coscienza di tutti, che in fondo alla democrazia autentica serve tanto quanto il grimaldello della legge.
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di Vincenzo Maddaloni
A distanza di giorni non è stato ancora spiegato perché domenica 24 novembre l’Italia non era con Francia, Inghilterra e Germania al tavolo di Ginevra nel quale Ue, Usa, Cina e Russia hanno firmato lo storico accordo sul nucleare iraniano. Eppure bastava ripercorrerne il percorso ricordando, che il negoziato con Teheran appena concluso si aprì nel 2003.
All’epoca - l’Italia era alla guida del semestre di presidenza della Ue - le potenze europee chiesero a Silvio Berlusconi - capo del governo allora in carica - di firmare assieme a loro la lettera a Teheran che dava appunto inizio al negoziato. La risposta italiana fu: “No grazie, non ci interessa”, benché per gli scambi economici - pari a 3,8 miliardi di euro - l’Italia fosse il secondo partner commerciale dell'Iran in seno all'Unione europea.
Questi silenzi mediatici in Italia si susseguono da quando i grandi media hanno iniziato a girare intorno ai problemi come gattini ciechi: per scelta mirata o per pigrizia. Eppure l’Iran non è un problema di poca importanza. Se così non fosse il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non si sarebbe affannato - nella notte di domenica 24 - a telefonare al premier israeliano Benjamin Netanyahu, per aggiornarlo e rassicurarlo sull’accordo raggiunto con l’Iran e sul programma nucleare di Teheran.
Le cronache raccontano anche che il mattino seguente la firma del trattato, dopo la telefonata di Obama la Borsa di Israele è schizzata in alto, prevedendo pace, stabilità e buoni affari. E non poteva essere diversamente, benché il premier Netanyahu avesse espresso la sua contrarietà all’intesa raggiunta con il 5+1 definendola un «errore storico».
La Borsa sale perché con la firma a Ginevra dell’intesa la Storia dovrebbe voltare pagina: ce ne sono le premesse. Tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica dell’Iran si sono riaperti degli spiragli prima inimmaginabili, poiché tra le due nazioni non corre buon sangue fin dal colpo di Stato del 1953 per mano dei servizi segreti americani contro il governo democraticamente eletto di Mossadegh (moderato riformista e giurista di alto profilo formatosi a Parigi).
Di conseguenza, dopo la caduta dello Scià, la rivoluzione di Khomeni del febbraio 1979, e dopo che i rapporti diplomatici si erano interrotti con l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran (4 novembre 1979) ai tempi dell’amministrazione Carter, gli Stati Uniti sono rimasti fuori dall’area strategica dell’altopiano iranico che ora Obama si ripropone di ridisegnare.
È per questa ragione che l’amministrazione Bush aveva inserito l’Iran tra i Paesi dell’asse del male e cercava i pretesti per scatenare l’ennesimo intervento militare. Dopotutto le guerre in Afghanistan e in Iraq e la presenza militare in Turkmenistan e in Azerbaijan rimangono manifestazioni eloquenti dell’ansia degli Stati Uniti di controllare quest’area strategica e di riconquistarne il cuore strappandolo agli ayatollah (ayat Allah, “segno di Dio”).
Va poi osservato che l’importanza dell’altopiano iranico è cresciuta in seguito ai cambiamenti strutturali avvenuti nell’uso e nel consumo dell’energia: una crescita esponenziale tale da rendere l’Iran determinante negli equilibri geopolitici globali. Il Paese si trova tra le risorse tradizionali del Golfo Persico e quelle nuove del Mar Caspio. Anche le aree adiacenti all’altopiano hanno una larga presenza di giacimenti e sono ricche culturalmente.
Infatti, Il territorio che si estende dalla Mongolia interna fino all’Ungheria, popolato da genti di origine turco-altaica, era abitato anticamente dai popoli iranici nomadi come i saka, i daha, i cimerri e rappresenta per gli studiosi “l’Iran esterno”, nomade, parente e antagonista “dell’Iran interno” racchiuso nei confini storici e di indole sedentaria. Naturalmente poco se ne vuol sapere della storia della Persia, dell’Iran, benché si viva nell’èra del copia-incolla e del web dove tutto dovrebbe costare meno fatica.
Sicuramente anche il copia-incolla ne costa, poiché l’immaginario collettivo privilegia ancora oggi lo scenario d’Oriente descritto nel 1937 da Robert Byron nell’opera La via per l’Oxiana. Uomo colto e dotato di spirito, Byron viaggiò negli anni Trenta alla ricerca delle testimonianze del passato, attraversò i luoghi dell’arte e della memoria tra la Persia e l’Afghanistan con la lena dei grandi esploratori dell’Ottocento e la grazia disinvolta dell’acquerellista alla ricerca di scorci da ritrarre sia quando parlava dell’arte moghul sia quando commentava, con stile puramente britannico, le bizzarrie esterofile dello scià Reza Pahlavi.
Un viaggio avventuroso lungo un itinerario che comprende le testimonianze di uno dei periodi più floridi per l’Asia centrale: il Rinascimento timuride, Tamerlano, Shah Rukh, Goar Shad Begum, uomini e donne innamorati del piacere di vivere - i “Medici d’Oriente” li definì l’autore - che seppero conciliare, sia pure per un breve periodo, il consolidamento di un potere basato sulla fede islamica con un vero e proprio umanesimo e un raffinato mecenatismo.
D’altra parte l’interesse di Byron non si limitava all’architettura del XV secolo, ma percorreva le tracce di tutte le diverse dominazioni: dall’impero achemenide con le vestigia di Persepoli, alla dinastia sassanide le cui testimonianze archeologiche, all’epoca di Byron scarsamente conosciute, “documentano un oscuro periodo della storia alla congiunzione tra il mondo antico e quello moderno”.
Furono lo stile british e gli scorci ad acquarello a incantare Bruce Chatwin che definì il libro un “capolavoro” e disse: “La mia copia personale, ormai priva della rilegatura e tutta macchiata dopo quattro viaggi nell’Asia centrale, mi accompagna da quando avevo quindici anni”. Poi diede un esempio di tanta considerazione: “Dopo aver letto La via per l’Oxiana si ha l’impressione che l’altopiano iranico sia un “ventre molle” che lusinga la megalomania dei suoi governanti senza dar loro il genio necessario per sostenerla”. Dimenticava però che l’Iran è un Paese antico, con oltre 2500 anni di storia, con una società - e questa è un’altra sua caratteristica peculiare - dotata di un profondo senso della propria cultura e della propria identità nazionale.
Per questa ragione anche oggi ciò che rende l’Iran così interessante e al tempo stesso così paradossale è il fatto di avere un regime teocratico coercitivo e insieme una cultura vibrante. Il paradosso si è creato perché esiste una società più avanzata del gruppo dirigente che la governa. Se si osserva la storia recente dell’Iran si nota che la lotta per la democrazia è iniziata nella metà del XIX secolo, molto prima che Chatwin scrivesse nel 1980 il saggio introduttivo all’edizione Penguin di La via per l’Oxiana.
E dunque, se l’Iran è soprattutto la culla millenaria della civiltà indo-iranica dove si incontrano la civiltà iranico-islamica (a partire dal VII secolo) e quella iranico-europea (a partire dal XVII secolo), l’essere presenti sul territorio iraniano significa avere la possibilità operativa su uno scacchiere che va dal Pacifico al Mediterraneo, comprese le aree limitrofe. Pertanto l’intesa di Ginevra giova ad Obama più che a chiunque altro, poiché apre attese cariche di speranza alla disastrata economia americana. Ecco perché la Borsa israeliana sale, ci vuole poco a capirlo.
Questo accade benché molti repubblicani del Congresso americano, ma anche influenti esponenti democratici, abbiano espresso il loro scetticismo riguardo all’accordo firmato a Ginevra con l’Iran. E la preoccupazione riguarda al fatto che l’accordo preveda - sostengono - il congelamento dell’arricchimento dell’uranio, ma non la riduzione della capacità nucleare di Teheran. «L’accordo provvisorio continua ad essere visto con un sano scetticismo» ha affermato lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che ha sottolineato come l’Iran in passato abbia più volte svicolato dalla richieste di verifica e controllo delle proprie attività. Preoccupazioni di non poco conto, ma che non incidono più di tanto sul pragmatismo delle Borse.
Non è un mistero che Barack Obama è stato mosso da ragioni, pressanti, di casa. La débâcle estiva sulla Siria e la riforma sanitaria, la popolarità al 40 per cento, lo smarrimento della sua Amministrazione andavano fermati con un successo, e l’accordo con l’Iran lo è. Anche i repubblicani lo sanno: borbottano, ma se ne rallegrano poiché ad ogni americano - per prima cosa - stanno a cuore, come usa dire, le sorti della nazione.
Pare che in Italia valga la regola contraria, perché non credo che un governo Letta si sarebbe comportato tanto diversamente da quello Berlusconi del 2003, dal momento che non c’è stato cenno sulla vicenda di quella mancata firma se non in una dichiarazione del ministro Bonino al Corriere: «Non fu un’idea provvidenziale, nel 2003, quella di tenersi fuori dal dossier iraniano: tornare in gioco non è mai semplice».
Eppure è scritto su tutti i libri di storia che, nell'antichità, già i Sassanidi (e prima ancora i Parti) mantenevano con Roma e Bisanzio intensissime, seppur non sempre pacifiche, relazioni politiche che durarono per diversi secoli, fino alla conquista islamica della Persia. Naturalmente non potevano mancare Marco Polo che attraversò la Persia nel suo cammino verso la Cina alla fine del XIII secolo e Papa Innocenzo IV che inviò missionari religiosi e diplomatici in Iran nel tentativo di convertire la classe regnate dell'Ilkhanato.
Si racconta sempre sui libri di storia che anche molti ambasciatori della Serenissima Repubblica di Venezia visitarono le corti di Aq Qoyunlu, aumentando la frequenza dei viaggi durante il periodo safavide. Come dire che le relazioni economiche con la penisola italiana datano da lontano, più lontano di qualunque altro Paese.
Comunque sia il risultato di quel “no grazie,non ci interessa” lo si vede dieci anni dopo. L’altro giorno al tavolo di Ginevra tra le grandi potenze europee l’Italia non c’era. In tempi di crisi economica chi invece a Ginevra c’era, di questa assenza non se n’è potuto che rallegrare.
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di Sara Michelucci
Chopin ispira il pianista alessandrino, Sergio Marchegiani. È appena uscito per Amadeus Rainbow il doppio Cd “Nocturnes”, album di esordio del musicista, che si affaccia sul mercato discografico affrontando un repertorio che è già di per sé una sfida. “Fin dall’inizio ho pensato che un simile progetto avrebbe presentato molte difficoltà, sia dal punto di vista concertistico sia da quello discografico - confessa Marchegiani.
D’altro canto, era una straordinaria opportunità per approfondire il mondo poetico del mio autore prediletto, Chopin, l’evoluzione del suo stile e le straordinarie possibilità espressive che la sua musica offre”.
Prosegue Marchegiani: “Allo studio, lungo e complesso, sono seguiti molti concerti grazie ai quali ho potuto immergermi sempre più in questo mare sconfinato. Ne ricordo uno in Francia nel quale suonai l’integrale senza intervallo: il pubblico e i tre critici presenti accolsero la mia esecuzione con genuino entusiasmo. Compresi che ero pronto per affrontare la sfida della registrazione. E poi il pianoforte: appena ho messo le mani sul Fazioli “Mago Merlino” dell’Auditorium di Sacile ho pensato che quella era la voce che volevo per i miei Notturni”.
Il doppio Cd, che si avvale della nota introduttiva del compositore Alberto Colla, nasce dalla scoperta di uno strumento in grado di restituire il suono che quell’ascolto aveva ispirato. Il primo è stato l’incisione live dei Notturni di Chopin eseguiti da Dino Ciani, il secondo un pianoforte Fazioli.
E proprio la combinazione di questi due elementi ha convinto Sergio Marchegiani ad avventurarsi in un campo minato, accettando l’implicita sfida di confrontarsi con le interpretazioni di illustri predecessori. Tra gli impegni futuri di Sergio Marchegiani, l’esecuzione del Doppio Concerto di Mozart al Mozarteum di Salisburgo e alla Musikhalle di Amburgo con Marco Schiavo nell’aprile 2014, e la registrazione di un nuovo disco che alternerà opere di Beethoven, Liszt e Chopin a inediti di Alberto Colla.
La presentazione ufficiale del disco di Marchegiani si terrà martedì 26 novembre 2013, alle ore 18, a Milano nello Spazio Fazioli.
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di Sara Michelucci
La musica di Ramin Bahrami torna ad allietare la scena concertistica italiana, aprendo la stagione dell’Araba Fenice di Terni. Si mette in moto il “Vortice delle Passioni”, con una serie di appuntamenti che percorreranno il solco artistico che affonda nel fertile terreno della promozione, dello sviluppo e della conoscenza del repertorio pianistico. Opening Concert, domenica 10 novembre all’auditorium Gazzoli, alle ore 17.30, con il geniale pianista iraniano, che eseguirà uno splendido programma dal titolo: “Il Viaggio in Italia”, con musiche composte da Johann Sebastian Bach e Domenico Scarlatti.
Bahrami è al momento considerato uno dei migliori esecutori al mondo delle opere del grande Bach. Un amore verso la sua musica che nasce in Bahrami fin dalla tenera età di 5 anni, quando ascoltò per la prima volta le Variazioni Goldberg eseguite da Glenn Gould. Da quel giorno la vita di Bahrami non fu più la stessa e non soltanto per le gravi ripercussioni che ebbe la sua famiglia con l’avvento della dittatura degli Ayatollah, ma anche per la fortuna di aver trovato l’amorevole accoglienza dell’Italia, il paese che lo accolse a soli 11 anni e che poi lo consegnò nella mani di quello straordinario insegnante che fu Piero Rattalino al Conservatorio di Milano.
Il suo legame con Bach, il suo amore verso questo autore, è stato per lui motivo di salvezza, di libertà, di crescita umana e intellettuale. Un connubio profondo fra compositore e esecutore, raro, unico, talmente originale da poter accomunare a tutt’oggi Bahrami al fianco dei più grandi esecutori della storia del pianoforte come Gould, Rosalyn Turek, Alexis Weissenberg, tutti profondi conoscitori ed interpreti della musica di Johann Sebastian Bach. Lo racconterà personalmente il 9 novembre, in un incontro con gli amanti della musica, dove il musicista iraniano parlerà del suo nuovo libro “Come Bach mi ha salvato la vita”.
Bahrami possiede una vena musicale originale e unica, un suono cristallino pieno di equilibrio e di personalità. Non è un caso che nella prefazione del suo primo libro, lo stesso Piero Rattalino scrive: “Ramin Bahrami scompone la musica di Bach e la ricompone in modi che risentono di un modello, Glenn Gould, senza veramente assomigliare al modello. Io gli ho insegnato a sopportare il morso, ma non l’ho domato e spero che continui ad essere com’è”.
Il programma che affronterà Bahrami a Terni, come già detto, sarà un’alternanza fra le opere di due geniali musicisti che furono anche coetanei. Scarlatti e Bach nacquero ambedue nel 1685 e scomparvero a breve distanza: Bach nel 1750, Scarlatti nel 1757. Il programma propone un ideale “Grand Tour” d’Italia, alternando le sonate di Scarlatti a composizioni di Johann Sebastian che, anche se meravigliosamente diverse, sono accomunate da una identica ispirazione, quell’ “italienischen gusto” nel quale il musicista napoletano era nato e di cui il musicista tedesco si era nutrito, soprattutto in età giovanile.
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di Sara Michelucci
Capitolo del grande romanzo russo, I fratelli Karamàzov, di Fëdor Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore viene riletto in teatro dal bravo Umberto Orsini che veste il doppio ruolo di narratore e inquisitore, fra memoria e finzione, nostalgia e sofferenza, aprendo la stagione teatrale al Secci di Terni. Azzeccata si rivela la scelta iniziale di rendere, solo con i movimenti del corpo e i gesti, quello che, successivamente, verrà spiegato attraverso le parole. Una sperimentazione, quella di Orsini, che riesce a pieno, rendendo il testo diretto.
Maglia scura e voce profonda, Orsini offre un’interpretazione interessante del famoso racconto dello scrittore russo, quello che, nel romanzo, Ivàn Karamàzov espone al fratello Aleksej, ambientandolo in Spagna ai tempi della Santa Inquisizione.
La parole fede e quella libertà predominano la scena, come se si volesse chiedere al pubblico che cosa sia l’una e cosa l’altra, mettendo al centro forse l’idea di una fede che si fonda proprio sulla libertà, criticando i grandi movimenti come il positivismo o il cattolicesimo. L’Inquisitore si rivolge a Cristo, che è tornato sulla terra, mettendolo di fronte al fatto che gli uomini non sanno che farsene del libero arbitrio, demandando ad altri le decisioni, perché è solo così che realmente si sentono liberi.
La regia è affidata a Pietro Babina, il quale non manca di originalità e sceglie di asciugare il testo e di affidare alle parole finali di Orsini il succo filosofico del racconto, che può essere apprezzato e compreso anche al di fuori del contesto del romanzo.
“Vivo da quarant’anni col Grande Inquisitore di Dostoevskij - afferma Orsini - da quando cominciai ad occuparmene in occasione dello sceneggiato che alla fine degli anni Sessanta fu realizzato da Sandro Bolchi per la Rai tv e che fu seguito da più di venti milioni di persone per otto settimane di seguito. Interpretavo il fratello Ivan e per anni mi sono sentito dire da generazioni di spettatori che venivano ad incontrarmi nei camerini dei teatri: “Ma quell’Ivan Karamazov! Ma cose così perché non ne fanno più? Sentendo nella loro voce un rimpianto e soprattutto una memoria sorprendenti”.